domenica 13 dicembre 2009

La giustizia a Montenero di Bisaccia


"Berlusconi con i suoi comportamenti e il suo menefreghismo istiga alla violenza".
Questo il signorile commento di Antonio Di Pietro, leader di uno dei partiti dell'opposizione, all'aggressione subita da Berlusconi oggi in Piazza del Duomo a Milano.
Equilibrato, raffinato e democratico come sempre, l'ex piemme - noto ai più per aver detto, nell'esercizio delle sue funzioni di magistrato "Io questo lo rovino", sempre riferito a Berlusconi, dimostrando quindi di accostarsi al suo compito con serenità di giudizio e moderazione - ci tiene a distinguersi dalla massa di beoti che compongono l'opposizione con uscite ricche di humour come quella quotata.
Non diversamente da Peppone - il ben più simpatico sindaco comunista uscito dalla penna di Giovannino Guareschi - che apostrofava Don Camillo dicendogli: "Voi siete una provocazione vivente", l'omino di Montenero di Bisaccia giusitifica l'aggressore che, alla fine dei conti, non ha fatto altro che piegarsi ad un istinto naturale: uccidere Berlusconi, o morire nel tentativo.
Ho la sensazione che Berlusconi continuerà a sopravvivere a questi attentati di scarsa entità (ricordiamo il famoso episodio del treppiede, che fece mobilitare i blogger più progressisti d'Italia costringendoli ad una colletta per ricomprare il cavalletto al fotografo che l'aveva lanciato contro il Presidente del Consiglio) che otterranno i soli effetti di scatenare l'indignazione di Emilio Fede e di incrementare la sua popolarità.
Per cui, il consiglio che mi permetto di dare al democratico e pacato Statista molisano è di alzare un po' il tiro delle sue esternazioni, e di suggerire direttamente a tutti gli psicopatici d'Italia di uccidere Berlusconi, evitando queste tappe intermedie che ci sembrano nuocere alla causa

lunedì 7 dicembre 2009

Libre elle est née et libre elle mourra!



Per una volta faccio eccezione al mio proposito di non occuparmi di musica, ma vi sono costretto dalla prima della Scala che avanza a grandi passi e che inizierà fra qualche ora. Fra le mille perplessità (fra di esse, la regia affidata ad una deb come Emma Dante che - parole sue - non aveva nemmeno mai visto uno spettacolo d'opera a teatro; il title-role affidato ad una ragazza appena diplomata), una certezza: Carmen non è un personaggio come tanti, è un archetipo e, nello stesso tempo, un coacervo talmente polisemico da sfuggire ad ogni definizione.
Proviamo a mettere su carta qualche elemento che ci possa aiutare a comprendere le sue ragioni, quelle che ai tempi affascinarono Friederich Nietzsche a tal punto da convincerlo a ripudiare Wagner.

Zingara. Zingara, quindi apolide e priva di una precisa identità. Si chiama Carmen ma - come diceva De Andrè nella bellissima "Khorakhanè" - "porto i nomi di tutti i battesimi". Zingara, quindi è tutto quello che la gente pensa: è ladra, bugiarda, strega perché legge il futuro nelle carte e nelle pieghe della mani e regala le pietre che ti faranno amare da tutte le donne; probabilmente anche un po' puttana, non nel senso che si fa pagare (mai!), ma nel senso di quella che molla un uomo per passare ad un altro senza rimpianto veruno. Ma questo lo dicono soprattutto le donne invidiose che la odiano come odiavano Bocca di Rosa, un altro personaggio del Poeta genovese, quella che "lo faceva" solo "per passione": la odiano con "l'ira funesta delle cagnette cui aveva sottratto l'osso". E la odiano perché, in fondo, è la donna che esse vorrebbero a loro volta essere.
Donna. E' la donna che ogni uomo vorrebbe incontrare almeno una volta nella vita. Ti travolge con la sua sincerità, con la sua disarmante franchezza, con la sua ferocia. E - si badi - è una ferocia sempre indirizzata a fini costruttivi, quella di chi riesce a vedere nel fondo dell'animo di un uomo e intende dargli quella possibilità che non ha ancora avuto. A José, soldato rinnegato, che per amore suo tradisce la patria, la mamma, la fidanzata e l'Arma, dice: "Sei come il nano che crede di essere diventato un gigante solo perché ha imparato a sputare lontano". Ti ama per solo tre mesi, ma in quei tre mesi ti senti il Re dell'Universo perché sei il suo Tutto: lei per te rinuncia a qualunque cosa, lei balla e canta per te e per te solo, quindi non puoi decidere improvvisamente di fare il bravo ragazzo e rientrare in caserma solo perché senti la ronda che passa. Lei ti devasta passando sopra di te come un rullo compressore: alla fine non ricorderai nemmeno più come ti chiamavi prima, nella vita precedente. Sì, perché nella vita dell'uomo che è stato devastato da questo uragano esiste un "prima di Carmen" e un "dopo Carmen", e il dopo ci racconta una vita che non è più nemmeno degna di essere vissuta.
Libera. Oggi facciamo un gran parlare di libertà, ma Carmen la libertà l'ha provata sulla sua pelle sin da quando era bambina, a forza di essere vento (e qui torniamo ancora a Faber), perché è nella sua stessa natura e nella natura della sua gente. Ma in lei questa libertà diventa archetipica: per essa sacrifica la sua vita anche di fronte alla constatazione che, probabilmente, come indovinato da diversi registi non superficiali, lei aspetta José in quel momento finale con la consapevolezza non tanto o non solo che la ucciderà, ma che lui, e solo lui, è l'unico vero e grande tragico amore della sua vita. Lei mente, ancora una volta, quando gli getta in faccia l'idea di amare un altro - il torero Escamillo che, in quel momento, ignaro del dramma che si svolge fuori dalla Plaza de toros, sta matando il toro: lei conosce benissimo l'uomo che le è davanti per il semplice fatto che José è l'altra parte di sé. Ma non l'accetta: libera è nata e libera morrà.
Concludo queste note riportando il testo di Khorakhanè e un bel video: è un omaggio al grande Poeta genovese che, con la sua canzone, ci ha aiutati a penetrare nel mondo di Carmen
Khorakhanè - di Fabrizio De Andrè
Il cuore rallenta la testa cammina
in quel pozzo di piscio e cemento
a quel campo strappato dal vento
a forza di essere vento
porto il nome di tutti i battesimi
ogni nome il sigillo di un lasciapassare
per un guado una terra una nuvola un canto
un diamante nascosto nel pane
per un solo dolcissimo umore del sangue
per la stessa ragione del viaggio che è il viaggiare
Il cuore rallenta e la testa cammina
in un buio di giostre in disuso
qualche rom si è fermato italiano
come un rame a imbrunire su un muro
saper leggere il libro del mondo
con parole cangianti e nessuna scrittura
nei sentieri costretti in un palmo di mano
i segreti che fanno paura
finché un uomo ti incontra e non si riconosce
e ogni terra si accende e si arrende la pace
i figli cadevano dal calendario
Yugoslavia Polonia Ungheria i soldati prendevano tutti
e tutti buttavano via
e poi Mirka a San Giorgio di maggio
tra le fiamme dei fiori a ridere a bere
e un sollievo di lacrime a invadere gli occhi
e dagli occhi cadere
ora alzatevi spose bambine c
he è venuto il tempo di andare
con le vene celesti dei polsi
anche oggi si va a caritare
e se questo vuol dire rubare
questo filo di pane tra miseria e sfortuna
allo specchio di questa kampina
ai miei occhi limpidi come un addio
lo può dire soltanto chi sa di raccogliere in bocca
il punto di vista di Dio
Cvava sero
po tute i kerava
jek sano ot mori i taha
jek jak kon kasta
Poserò la testa sulla tua spalla
e farò un sogno di mare
e domani un fuoco di legna
vasu ti baro nebo
avi ker kon ovla so
mutavia kon ovla
perché l'aria azzurra diventi casa
chi sarà a raccontare chi sarà
ovla kon ascovi me
gava palan ladi me gava palan bura ot croiuti
sarà chi rimane io seguirò questo migrare
seguirò questa corrente di ali

domenica 6 dicembre 2009

Massimiliano e il senso della vita




Proprio in questi giorni ho ricevuto la notizia che un mio collega più giovane lascerà il posto di lavoro che condividiamo per un'avventura che gli auguro grande in un altro posto. Sin qui niente di strano: fa parte della normale evoluzione della vita. Sennonché Massimiliano - è questo il nome del mio collega - è uno di quei giovani sui quali io e altri illuminati (mi si passi la presunzione) avevamo programmato la costruzione del nostro lavoro con l'idea di elaborare il futuro. A parte il vuoto umano che Massimiliano lascia nei cuori delle persone da cui si separa - e il mio in particolare, me lo si conceda - rimane la considerazione che, grazie anche all'insipenza di chi non è stato in grado di trattenerlo con una controfferta degna di tal nome, ci perdiamo un erede. Quella dell'erede non è una parola priva di senso: senza i giovani che raccolgono il testimone di quello che abbiamo costruito, che futuro possiamo sperare di avere? Lavoreremo giorno dopo giorno, ma con l'idea che il nostro lavoro avrà ben poco senso se, dopo di noi, non ci sarà un Massimiliano che raccolga e migliori le nostre idee, dando loro quel senso di continuità che è il sale della vita.

Tanti anni fa, a lezione di Biologia, il Prof. Milanesi domandò agli studenti il significato della parola "vita".
Provate a farlo voi: sembra facile, ma fummo tutti imbarazzati dalla domanda.
Per facilitarci, il Prof. Milanesi iniziò ad esaminare le forme più evolute, dall'uomo in giù, chiedendoci quali attività caratterizzassero la vita: mangiare? dormire? lavorare? comunicare? No, nulla di tutto ciò.
Scendendo nella scala biologica arrivammo al virus, la forma più elementare di quella che noi definiamo vita. Il virus non ha un'intelligenza e nemmeno si alimenta. Il virus ha un solo scopo: la riproduzione. Nasce e muore solo con questo scopo: trasmettere il proprio DNA (o RNA, a seconda) all'interno di un'altra struttura vivente, in modo tale che questo codice genetico possa mettersi una "tutina" (si chiama capside) e, con l'esplosione della cellula parassitata, andare su un'altra cellula e ricominciare il gioco.
Siamo d'accordo: non esiste il finalismo in Natura, eppure possiamo dire in modo un po' empirico che, da un punto di vista strettamente biologico, vivere è riprodursi e che questa, solo questa, è l'unica spinta veramente insopprimibile dell'essere vivente.
Ecco: Massimiliano se ne va e la nostra vita, al di là del mero valore affettivo, rimane quasi irrisolta e si arcua come una specie di punto di domanda. che ne sospende il significato
Chi può bearsi dell'idea che "Après moi le diluge"? Solo un cretino che non ha consapevolezza e, forse, nemmeno istinti.
Non io, decisamente

sabato 21 novembre 2009

Il Grande Vuoto

Uno dei vantaggi di essere a casa di sabato (solo giorno, nel mio caso: stanotte lavoro) è quello di poter guardare i programmi che normalmente non vedresti mai. Mentre sto scrivendo sta andando Amici di Maria De Filippi ma, per me, è ancora presto: aspetto con ansia le puntate serali, quelle in cui ognuno dà veramente il peggio di sé, per ora i concorrenti sono ancora troppo impacciati.
Ma non è di Nostra Signora della Televisione che voglio parlare adesso - ci sarà tempo - bensì del Grande Fratello, con cui non mi misuro più da anni perché è un'impresa troppo superiore alle mie misere forze: posso anche essere amante del trash televisivo ma, per quanto mi sforzi, non riesco a scendere al di sotto di uno standard minimo. Invece oggi, nella sonnolenza dell'immediato dopopranzo, mi sono lasciato piacevolmente andare godendomi la visione di una decina di minuti dello spettacolo di cui vorrei parlare ai miei lettori.
Premesso che non faccio parte di quel gruppo di snob a tutti i costi che si negano aprioristicamente la visione di un programma (a maggior ragione se trash) per una questione di principio, dopo tante edizioni mi rimane una doppia curiosità:
  1. cosa vogliano raccontarci gli Autori di un programma che ormai ha esaurito la spinta iniziale, quella che aveva stimolato la curiosità di molti a sintonizzarsi sulle vicende della caaasaaa (come la chiamava Daria Bignardi, prima conduttrice del programma, colei che - in virtù del suo essere di sinistra - aveva donato alla trasmissione una patina di intellettualismo)
  2. cosa vogliano trovarci gli spettatori che ogni anno si trovano di fronte a dei replicanti che non hanno più la freschezza dei primi partecipanti, ma solo l'atteggiamento di chi vuole apparire a tutti i costi

Ho la sensazione che gli Autori si stiano spingendo sempre più in basso per stimolare il voyeurismo del teleutente e che ormai manchi veramente poco per arrivare all'hard propriamente detto; dopo di che, ovviamente, calerà l'interesse degli utenti attuali e potenziali, attualmente infoiati solo per la possibilità che la cosa avvenga.

Ma quello che maggiormente mi angoscia nel vedere le avventure (?) di quella dozzina di squinternati rinchiusi nella caaasaaa è il vuoto totale delle conversazioni che, guarda caso, riflette il vuoto parimenti assoluto delle attività che vi si svolgono. I reclusi fra le quattro mura possono fare ben poche cose: mangiare, dormire, evacuare, accoppiarsi, parlare, litigare: è proibito loro fare qualsiasi altra cosa. Vero è che - stante il cervello dei soggetti - sarebbe difficile ipotizzare qualsiasi altra attività creativa o ricreativa, a cominciare ovviamente dal leggere; e tuttavia l'utente medio rimane sconcertato di fronte all'assoluta mancanza di idee in conversazioni di un'idiozia agghiacciante che hanno per unico scopo la maldicenza, la gioia di poter parlar male di Tizio o Caio, in una deprimente esibizione di muscoli, tette o culi quale unica manifestazione di femminilità, machismo di ritorno, outing di omosessualità o di transessualità.

Credo che ci sia veramente da spararsi all'idea di passare cinque mesi in un mortorio del genere; mi viene da pensare, a tale proposito, alla mia amica XY, psicologa, che ha affrontato professionalmente il mondo del reality vedendolo nella cornice esotica dell'Isola dei Famosi, in cui i protagonisti (dei quali XY era consulente) erano alle prese con situazioni estreme e i morsi della fame. Per disagiate che potessero essere le situazioni nelle isole in cui il reality è stato ambientato (una particolarmente affascinante era una palafitta ove stava un solo concorrente, continuamente inquadrato da una telecamera, senza nessuna assistenza e senza neanche un tonno con cui parlare), credo che fosse nulla rispetto alla prova del vuoto che devono affrontare i poveri mentecatti barricati dentro Cinecittà: credo che la mia amica XY avrebbe vita molto più dura in un contesto del genere. Forse mollerebbe il colpo...

venerdì 20 novembre 2009

Scenda l'oblio




Ecco una notizia interessante che ho sentito questa mattina mentre mi recavo al lavoro, che vi cito da tiscali.notizie. Non è la prima volta che succede qualcosa del genere, ma oggi mi è venuto da rifletterci sopra. Ecco il fatto:



"Los Angeles, 20 nov. (Ap) - Un tribunale della Florida (Stati Uniti) ha condannato il produttore di sigarette Philip Morris a pagare oltre 300 milioni di dollari (circa 200 milioni di euro) a una ex fumatrice di 61 anni, Cindy Naugle, costretta su una sedia a rotelle a causa di un enfisema polmonare. Si tratta del risarcimento più consistente mai imposto finora in oltre 8.000 casi davanti alle corti di giustizia americane.
Cindy Naugle, 61 anni, aveva cominciato a fumare nel 1968 quando aveva 20 anni, aveva smesso nel 1993 quando aveva cominciato ad essere malata.
Il risarcimento consiste in 56,6 milioni di dollari per spese mediche passate e future e altri 244 milioni di dollari per danni materiali
".
Essendo medico, e avendo un passato di (molto moderato) fumatore, devo dire che rimango piuttosto divertito di fronte a sentenze come queste che, a dirla tutta, mi sembrano oltremodo demagogiche.
La Philip Morris, colosso del tabacco della Virginia Old Belt, fa un prodotto molto popolare e famoso e non lo fa esattamente per beneficenza: lo fa per venderlo.
Ora proviamo così per gioco a rispondere a qualche semplice quesito.
  1. E' forse proibita la vendita delle sigarette? Nossignori. A condizione che uno sia adulto e consenziente, nulla vieta che si acquisti il suo bel pacchetto da spipazzarsi come e quando vuole. Incidentalmente segnaliamo che l'attualmente enfisematosa Cindy aveva iniziato a 20 anni, quando cioè - come si suol dire in questi casi - aveva l'età
  2. C'è forse qualcuno che ignora che il fumo faccia male? Nossignori: è noto a tutti da un sacco di tempo, ed era sicuramente noto anche in quel Sessantotto in cui la nostra amica Cindy provò l'emozione di mettersi in bocca il cilindro del desiderio (astenersi i maliziosi), tant'è vero che era il periodo in cui si fumava nel cesso aprendo poi la finestra per non farsi beccare da genitori o professori. Cindy quindi sapeva benissimo anche nei suoi verdi vent'anni che fumare non le avrebbe migliorato la salute, eppure ha scelto consapevolmente di farlo
  3. L'enfisema è qualcosa che ti colpisce di botto? Assolutamente no, e non occorre essere medici per saperlo. E' una marea montante. Ci si ammala progressivamente e - vi garantisco - ci se ne accorge. E' chiaro che se si continua a fumare anche respirando con le branchie, la patologia respiratoria peggiora
  4. E' veramente impossibile smettere di fumare? No. La nostra amica Cindy, per esempio, ha smesso da quando deve rimanere attaccata alla bombola dell'ossigeno. Quindi è stato possibile anche per lei e, se avesse avuto un po' di cervello, le sarebbe stato possibile anche prima. Basta volerlo: e chiunque lo può volere. Anche perché arriva il momento in cui, anche se non lo si vuole, lo si deve fare: Cindy ne è la dimostrazione

In definitiva, abbiamo una condanna contro la ditta che ha fabbricato qualcosa che è sempre stata di libera vendita e che un adulto consenziente ha scelto deliberatamente di comperare ed assumere, pur consapevole ab initio atque in itinere dei rischi cui andava incontro, e che ha continuato ad assumere anche quando stava già male. Quando un tribunale giudica un caso di omicidio, mette sotto processo chi ha sparato, oppure l'industria che ha fabbricato i proiettili? La risposta è intuitiva per tutti, tranne che per il tribunale della Florida, per il quale evidentemente se nessuno facesse i proiettili, nessuno sparerebbe: un'idiozia talmente perfetta da costringermi a fermarmi, ammirato, come Faust di fronte a quel famoso attimo d'eternità che lo costrinse al patto col diavolo

domenica 1 novembre 2009

Pet sematary


Oggi ho aderito ad un'iniziativa singolare: in occasione della ricorrenza della commemorazione dei defunti siamo andati in gruppo a deporre un fiore sulla tomba dei morti dimenticati, in particolare i bambini.
Esiste a Melegnano un angolo del locale cimitero in cui ci sono alcune tombe diroccate, mezzo sfasciate: sono quelle dei bambini che nessuno ricorda più. Il Comune ha disposto che ognuna di esse abbia un mazzetto di fiori finti, ma ho provato ugualmente una pena infinita a scorrere sulle lapidi i nomi di questi bambini, alcuni di essi morti anche di recente, che non hanno la fortuna di avere una mano che ne accudisce i sepolcri.
Ho letto i nomi: Giuseppe, Chiara, Salvatore, Maria, Elena, c'è persino Smeralda che è nata e morta lo stesso giorno, magari di parto - noi non lo sappiamo - la vita consumata in un unico soffio; la mano dei genitori che ha dettato allo scalpellino la frase "Ci aspetti lassù per abbracciarci la prima volta"; e lo sguardo del visitatore che contempla il disfacimento della povera tomba sulla quale sono ancora abbandonati alcuni piccoli giocattoli ormai arrugginiti e più tristi di una fotografia sbiadita, di un'immagine che il tempo ha cancellato.

C'è un che di laido, di osceno, di innaturale nella morte di un bambino.
Nessun genitore dovrebbe assistervi: credo che sia l'unico evento in grado di togliere improvvisamente il lume della ragione.
Stephen King ha dedicato a questo obbrobrio il suo libro probabilmente più terrificante, di sicuro uno dei suoi più intensamente lirici, ed è "Pet sematary". Non fatevi ingannare dal brutto film che ne hanno ricavato: lasciatelo decisamente da parte e, se non l'avete mai letto, dedicatevi senza indugio al libro, che è una profonda riflessione tipica del Re sul concetto di perdita e su come può far diventare pazzo un essere umano, che può arrivare al punto di sfidare ogni legge naturale.
Oggi, girando per quei sepolcri contemplavo con le lacrime agli occhi quelle lapidi diroccate, quei miseri giocattoli, quelle foto sbiadite, pensavo a quei corpicini abbandonati lì sotto, macerati anche dal dolore dei genitori abbandonati e che non hanno saputo tornare a confortare le spoglie dei loro piccoli.
Non riuscivo a biasimarli: alle volte dimenticare è un modo per cercare di sopravvivere

mercoledì 28 ottobre 2009

Un giorno in Pretura


Insisto nel dire che se uno cerca il peggio che l'essere umano può dare, non deve fare molto sforzo. Ieri sera al TG, per esempio, ne ho sentita una carina. Al processo Thyssen Group in corso a Torino sono stati sentiti due dirigenti che si sono avvalsi della facolta' di non rispondere. E mentre riflettevo sul fatto che appare ben bizzarra la scelta di non rispondere da parte i un imputato o testimone e che, se fossi giudice, la valuterei malissimo, e' arrivata anche la spiegazione: i due, che si chiamano Harald Espehnahn e Gerard Priegnitz (mica Mario Rossi e Giuseppe Bottazzi, insomma), i due alti dirigenti della Thyssengroup sono tedeschi e non capivano le domande del PM. Imputati a Torino per il rogo che nel 2007 uccise sette operai, hanno spiegato che non conoscono l'italiano tanto bene da affrontare un interrogatorio in assenza di un interprete. La corte, che inizialmente aveva respinto tale richiesta della difesa, ha deciso di ascoltarli con l'interprete il 4 novembre. La seduta e' quindi spostata alla settimana ventura, quando la Procura mettera' a disposizione un interprete.

Si fa - e giustamente - un gran parlare delle spese giudiziarie, delle lungaggini spaventose di un processo, di quanto costa ogni singola seduta. E poi, ecco, si portano in aula due testimoni tedeschi, che non parlano una sola parola d'italiano, si riunisce la Corte e si scopre che occorre l'interprete. Anzi, peggio: lo si sarebbe potuto scoprire prima, se si fosse data retta alla difesa.
Come pensavano di capire e di farsi capire? A gesti? Oppure pensavano di chiedere se in aula ci fosse qualcuno che se la cavava col tedesco?
Io - farsa per farsa - continuo a preferire Totò e Peppino in questo episodio de "La cambiale" che propongo anche alla vostra attenzione

domenica 25 ottobre 2009

Un chirurgo per il PD


Sono molto incuriosito dagli esiti delle primarie del PD. All'una oltre ottocentomila persone avevano votato nei chioschetti dimostrando con i fatti una voglia di "far politica" che non può che fare onore, soprattutto se consideriamo il momento attuale in cui, alle ninfette ed escort del Premier, vengono contrapposti trans e drag queen dell'opposizione. Il che, se ci pensiamo, non dovrebbe stupire: a parte la corrente teo-dem della Binetti, esiste nel PD un'anima trasgressive che si contrappone alla fallocrazia berlusconiana.
A parte le facezie, devo dire che sono rimasto discretamente colpito da Ignazio Marino. Sarà che mi accomuna a lui la professione, ma devo dire che c'è stata molta dignità nelle considerazioni che ha fatto al solito giornalista che gli chiedeva se si sentisse ago della bilancia nella sfida fra gli altri due contendenti: "Io non voglio essere l’ago della bilancia come dicono. Dario, Pierluigi davvero siete così intrisi delle vecchie posizioni da non capire che qualcuno vuole correre solo per le sue idee?".
Ecco: a Sinistra c'è qualcuno che parla di idee! Poi, si capisce, l'antiberlusconismo non manca mai, ma c'è finalmente qualcuno che rifiuta i modelli precostituiti e mette in campo le proprie idee!
Non quindi - per dire - un Franceschini che di idee non ne ha mai avute e che il meglio che ha pensato, per stimolare gli elettori a votarlo, è di promettere di eleggere come vicesegretari una donna e un africano. E neppure un Bersani che, al di là della simpatia umana che mi suscita per il suo essere un vecchio comunistone emiliano col sigaro in bocca e le maniche della camicia arrotolate come un Peppone qualsiasi, dimostra di essere ancora arroccato sul Sinistrese come unico mezzo di comunicazione.
Marino mi sembra la vera novità di questa simpatica kermesse che ormai segna in modo democratico le scelte del partito omonimo ma che - per inciso - mi pare che porti una sfiga orrenda al medesimo. La mia speranza è che ce la faccia e che la gente lo scelga per le sue idee, visto che Berlusconi sta subendo l'attacco finale e - mia idea, potrei ovviamente sbagliare - non credo che arriverà indenne alla fine della Legislatura

giovedì 22 ottobre 2009

In queste tenebre


Ogni tanto salta fuori il "negazionista": solitamente un povero coglione che, per soddisfare il proprio desiderio di apparire, inventa teorie secondo cui l'Olocausto non si sarebbe mai verificato, le camere a gas sarebbero servite per sterilizzare i vestiti, i forni per fare il pane e via elucubrando.
Questa volta è il turno di un fine intellettuale, di nome Antonio Caracciolo, un ricercatore 59enne di filosofia del diritto dell'università La Sapienza di Roma. Quest'ometto, che fisicamente ricorda il ben più celebre Enzo Cannavale - protagonista di celebri film con il parimenti noto Bombolo (ricordiamo fra gli altri "Una vacanza del cactus") - dimostra di essere molto meno divertente del modello, pur se di quello assai più surreale nell'eloquio.
Il Rettore della Facoltà lo ha invitato a farsi una passeggiata a Dachau; l'ometto riferisce di aver già visitato il posto, trovandolo molto più aggraziato di certe cittadine calabresi.
Nell'invitarlo a mia volta a leggere lo splendido "In quelle tenebre" di Gitta Sereny (Ed. Adelphi), esemplare intervista dell'autrice a Franz Stangl, comandante dei campi di Sobibor e Treblinka, esprimo il mio personale rammarico per il fatto che il professore di filosofia non sia nato qualche anno prima, e invece che in questo cazzo di Paese ove ognuno può dire qualunque cosa gli passa per la testa (con buona pace di chi pensa che non ci sia libertà d'opinione), magari proprio in Germania e in epoca assai meno libertaria dell'attuale. In tale contesto, esprimere opinioni a vanvera solo per il gusto di apparire, l'avrebbe portato dritto filato in quegli stessi luoghi di cui nega l'esistenza

domenica 11 ottobre 2009

Educazione sentimentale


Ci sono alcuni momenti della cinematografia che sono a buon diritto non solo entrati nella Storia, ma che hanno in vario modo contribuito alla crescita spirituale di chi vi si è - per così dire - abbeverato.
Lo spezzone che vi propongo in questa sonnacchiosa domenica ha giocato un ruolo fondamentale per molti di quelli della mia generazione che hanno da esso tratto spunto per apprendere l'arte della seduzione di una donna. Ancora una volta il protagonista è un grande attore italiano che qui ha accettato di fare una simpatica comparsata, un cameo che ne valorizza le capacità istrioniche. Riconosciamo facilmente in lui il nostro Peter O'Toole. Se un regista italiano avesse scelto di tradurre in immagini "I sette pilastri della saggezza", solo questo grande istrione sarebbe potuto essere la personificazione di TH Lawrence: lui, l'immortale creatore di Donatella Erezione

E' domenica


Si sa, la domenica tutti cercano il calore della famiglia; in casa si spargono i deliziosi profumi del buon cibo, quello che ormai viene cucinato solo nelle occasioni in cui ci si ritrova tutti insieme, impresa sempre più difficile da realizzare per gli impegni lavorativi di ognuno.
Ed è per festeggiare degnamente la domenica che offro ai lettori di questo blog un breve spezzone tratto da un vecchio film di un grande attore italiano. Bastano poche frasi sapientemente assemblate da un fine dicitore e subito, come per magia, si viene proiettati nell'atmosfera di una bella giornata di festa

venerdì 9 ottobre 2009

I primi della classe

Sto ultimando in questi giorni una lettura particolarmente interessante. È un ottimo libro di Luca Ricolfi, pubblicato da Longanesi, e si intitola “Perché siamo antipatici? La sinistra e il complesso dei migliori prima e dopo le elezioni del 2008”.

Per chi non lo conoscesse, Luca Ricolfi è Professore straordinario di Metodologia della ricerca psicosociale, presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Torino nonché direttore dell'Osservatorio del Nord-Ovest. Segni particolari: è un uomo di sinistra, giustamente preoccupato della piega pericolosa presa dalla sua parte politica. Contrariamente a molti uomini di sinistra, si preoccupa anche di cercare di capire le cause della flessione della sua area politica e le ragioni del successo della parte avversaria. Ne è nato questo libro – che si legge molto facilmente grazie ad una chiarezza espositiva che trova pochi confronti nella letteratura politica – che è una disamina acuta, precisa e ficcante delle ragioni che hanno portato la Sinistra ad una sconfitta pesante nel 2001, alla vittoria risicatissima del 2006 (quando, per usare un francesismo, avrebbero dovuto spaccare il culo ai passeri) che ha portato al fallimentare governo Prodi bis e ad una sconfitta catastrofica nel 2008.

Ricolfi ha un’impostazione molto lucida che lo porta ad identificare quattro problemi, i primi tre dei quali sono verbali:

  1. l’utilizzo di schemi secondari. Si tratta delle “scuse” con cui giustificare i propri fallimenti: qualcosa di simile a quello che dovettero inventare i Testimoni di Geova quando non si verificò la fine del mondo preconizzata da Rutherford. Di questo ambito fanno parte anche le giustificazioni per i massacri stalinisti, giudicati una fase transitoria e necessaria, e analogamente le repressioni di Praga, la strage di Piazza Tienanmen o i massacri di Pol Pot. Di questa categoria, inoltre, fanno parte tutte le ragioni che dovrebbero spiegarci perché un determinato lavoro pubblico fatto da Prodi sarebbe una grande opera, e fatto da Berlusconi sarebbe un atto mafioso
  2. la paura delle parole e la ricerca angosciata e continua del politically correct. Questa tendenza è stata mutuata dall’America, ma non un’America reale, bensì quella immaginata dai nostri uomini di sinistra in modo non diverso da quella cui pensava Nando Mericoni/Alberto Sordi nel film “Un Americano a Roma”: quella cioè in cui al posto degli strani piatti inventati da Nando ci sono gli “I care”, i Kennedy reinterpretati da Veltroni, Clinton esponente oltreoceano dell’Ulivo planetario e via elucubrando. È quella tendenza per cui il cieco diventa “non vedente”, lo spazzino “operatore ecologico”, l’handicappato prima “disabile” e poi addirittura “diversamente abile”. È un linguaggio molto elegante e forbito, cui però non fa riscontro una realtà quotidiana
  3. il linguaggio codificato, quello che dovrebbe servire per parlare fra addetti ai lavori, e che in realtà serve solo a confondere le acque in casa propria, per nascondere agli stessi militanti il vuoto pauroso di idee e di mete da identificare
  4. il complesso di superiorità etica. Questo è l’aspetto più interessante, perché è intrinseco alla vocazione esclusiva della sinistra. C’è un atteggiamento sprezzante nella sinistra che parla sempre alla parte migliore del Paese, dando per scontato che la parte peggiore sia quella che ha dato il voto all’odiato Berlusca. Nell’ambito della parte politica avversaria la Sinistra identifica il cosiddetto elettorato motivato (quello, cioè, leghista e post-fascista), costituito dai duri e puri che non sono potenzialmente arruolabili; e l’elettorato affascinato, quello sostanzialmente rincoglionito dalla televisione ma potenzialmente redimibile. Questo criterio, che Ricolfi definisce “esclusivo” perché tende ad escludere aprioristicamente un’area giudicata degenere che non potrà mai essere recuperata alla causa dell’umanità, va contro decisamente al criterio definito “inclusivo” che invece è tipico di questa destra, che chiama alla raccolta tutti i potenziali elettori.

Quale scenario si prepara? Difficile da dire. Ricolfi molto saggiamente ammette che questa sinistra, per com’è messa, sembra vivere solo in funzione dell’esistenza di Berlusconi: ha perso da molti anni il suo elettorato tipico, la classe operaia è ormai definitivamente andata in paradiso oppure vota per la Lega, non è stato ancora identificato un nuovo elettorato e nel frattempo ci si continua a rifugiare in un linguaggio che sembra uscito dalla scuola dei dirigenti delle Frattocchie.

Potranno anche farlo fuori – di fatto ci stanno forse riuscendo – ma poi bisognerà sostituirsi a lui, riprendere a parlare, essere credibili, evitare gli schemi secondari, abbassarsi al livello dell’elettore (qualunque elettore), smettere di pensare di essere la parte migliore, quella che ha nel suo bagaglio genetico la superiorità morale, quando invece raccontano palle tanto quanto gli altri. Ricolfi cita – e giustamente – la promessa elettorale di Prodi. Nel corso del dibattito televisivo da Vespa, il pretone di Scandiano affermò categoricamente “Noi non met-te-re-mo le mani nelle tasche degli italiani”, agitando il ditone tanto per sottolineare il concetto. Infatti. Escalation spaventosa della pressione fiscale a cura dei due vampiri Padoa Schioppa-Visco; il cosiddetto “tesoretto” con cui hanno preso per il culo tutta la nazione; la presunta lotta all’evasione fiscale smentita clamorosamente dai fatti riportati da Ricolfi.

Si sveglino, i compagni: forse i tempi sono maturi ma, finito Berlusconi, non avranno più niente di cui parlare

mercoledì 7 ottobre 2009

C'è chi chi non ci sta e chi ci deve stare


Oggi la Corte Costituzionale ha espresso un importante giudizio sul lodo Alfano, quello cioè che stabilisce per postulato l'impunità per le quattro più importanti cariche dello Stato per tutta la durata del loro mandato.
E' - a mio modo di vedere - una decisione assolutamente giusta che afferma la bontà di uno dei principi costituzionali di base, e cioè che tutti gli uomini sono uguali davanti alla Legge e che rispondono delle loro azioni anche e soprattutto nell'esercizio di quelle funzioni che gli elettori hanno attribuito loro direttamente o attraverso il voto alle coalizioni che li sostengono.
E' una sentenza politica?
Dipende: se la applichiamo a un Mario Rossi qualunque, sicuramente no; se la applichiamo a Silvio Berlusconi, sicuramente sì, ma in fondo chi se ne frega? Se ha la coscienza tranquilla, non ha bisogno di un lodo Alfano per difendersi; se ha la coscienza sporca, allora è giusto che risponda alla Legge.
Il caso si potrebbe chiudere qui e non fornirebbe materiale per il blog di uno qualunque (come ho scelto di chiamarmi in onore di quel Giovannino Guareschi che da sempre è per me un modello di riferimento), se non fosse che questa sentenza della Consulta, giusta e doverosa, mi ha riportato alla memoria il buon vecchio Oscar Luigi Scalfaro, noto ai più per aver insultato a morte nel 1953 la Signora Edith Mingoni Toussan rea di offendere la morale girando per Roma con le spalle scoperte e per essersi coperto di disonore avendo indegnamente ricoperto la carica di Presidente della Repubblica dal 1992 al 1999. In data 3 novembre 1993, alle 22.30 in un messaggio trasmesso a reti unificate, il vibrante moralista novarese pronunciò con voce commossa il famoso: "A questo gioco al massacro io non ci sto!", riferendosi all'indagine per i fondi SISDE che, durante la sua permanenza al Viminale, avrebbero portato 100 milioni di vecchie lire (mica bruscolini) nelle sue tasche. Il pio Oscar attribuì l'accusa ai cascami dei disciolti partiti della Prima Repubblica che avevano complottato contro di lui e si avvalse, per sostenere la sua linea di difesa, di un "lodo Alfano" ante litteram: i magistrati ricorsero ad un'interpretazione piuttosto estensiva dell'articolo 90 della Costituzione che recita che "Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione". La faccenda dei fondi del Sisde non aveva nulla a che fare con le funzioni di Oscar Luigi Scalfaro quale Presidente della Repubblica, trattandosi di fatti avvenuti diversi anni prima, quando il Nostro sedeva ancora al Viminale. Ma la linea estensiva prevalse (citazione da www.loccidentale.it).
Nel 2008, l'ex Presidente della Repubblica che aveva scansato l'inchiesta con la sua forza di volontà e con l'intercessione di magistrati quanto meno compiacenti, dimostrando di possedere una faccia con un taglio verticale tale da ricordare altra sede anatomica, così si espresse in un'intervista al Corriere della Sera (sempre dal sito sopra citato): "Caro presidente [riferito a Berlusconi, ovviamente, ndr] - dice Scalfaro dalle colonne del quotidiano di via Solferino -, nell'interesse del nostro popolo, faccia un grosso sacrificio e affronti la sofferenza di una procedura dove penso che le sue dichiarazioni e l'appoggio dei suoi avvocati possano giungere a una soluzione di verità. Il servizio alla cosa pubblica molte volte porta a pagare un prezzo elevato, ma questo è infinitamente più meritorio che assumersi la paternità di una rottura e precipitare il Paese in uno scontro di cui non si comprenderebbe l'esito".

Senza commenti: qui l'esigenza era solo documentaria a beneficio di coloro che pensassero che il lodo Alfano fosse solo un'invenzione di Berlusconi.
La supposta (e l'aggettivo qui è fortemente voluto) autorità morale della Sinistra sarà oggetto del prossimo articolo che, lo premetto, prende spunto da uno splendido libro di Luca Ricolfi, sociologo e uomo di Sinistra che, se si presentasse alle elezioni, voterei oggi stesso ad occhi chiusi.
Nel frattempo, una volta di più e per ritornare a bomba: sono d'accordo con la sentenza della Consulta. Il lodo Alfano era un obbrobrio e doveva essere eliminato. Personalmente sono sempre stato contrario all'immunità parlamentare sin dai tempi della Prima Repubblica.
Ma, sempre nel frattempo, non ce li scaramellino (i coglioni, ovviamente) con lezioncine morali, perché abbiamo memoria lunga. Molto lunga.
E non ci stiamo

lunedì 5 ottobre 2009

Ancora pugili suonati: il gerontorock


Immagino che la cosa sarà sfuggita ai più, ma in questi giorni è uscito – e dopo tanti anni di distanza dal precedente – il nuovo album dei Kiss. Aggiungendolo ad altri nuovi album di altri complessi rock (hard, glam o classic che sia) come gli AC/DC, quando non francamente heavy come gli Iron Maiden, abbiamo un dato piuttosto interessante che mi induce a riflettere sul geronto-rock come nuovo evento culturale degli ultimissimi tempi.

Ma kis-sono i Kiss? Io ne devo la conoscenza al già citato Sandro, mio amico di Liceo e curatore di http://citarsi.splinder.com; oggi non lo ammetterà mai, ma ai tempi era un fan piuttosto sfegatato della band.
A stare a quanto afferma la sempre precisa ed affidabile Wikipedia, si tratta di un complesso musicale statunitense, fondato dal bassista Gene Simmons e dal chitarrista Paul Stanley nel 1972 dalle ceneri dei Wicked Lester di cui facevano parte. Al gruppo si unirono poi il chitarrista Ace Frehley e il batterista Peter Criscuola, poi più noto come Peter Criss. Il complesso ha praticato diversi generi: Wikipedia parla di hard rock, glam rock, heavy metal, pop metal, hair metal e shock rock, ma io aggiungerei anche la disco music che ha sicuramente influenzato il brano con cui si sono fatti maggiormente conoscere dal grande pubblico della radio, e cioè “I was made for lovin’ you”. La loro fama si è basata soprattutto sull’eccessivo make up facciale volto a ricreare dei personaggi che, sul palcoscenico, ne combinavano di ogni: gli sputi simil-ematici di Gene Simmons, peraltro dotato di lingua lunghissima (e non solo la lingua, a giudicare dalle 5600 donne con cui si sarebbe a suo dire accoppiato nei sinora 60 primi anni della sua vita), scintille (ebbero addirittura in dotazione la macchina per scintille del primo film di Frankenstein del 1931), fumo e fuoco e altre dotazioni che, teoricamente, con la musica c’entrerebbero pochino. Abbandonarono il make-up nel 1983 ma vi ritornarono nel 1996; cambiarono varie volte i due elementi del gruppo che non facevano parte della premiata ditta Simmons-Stanley; pubblicarono l’ultimo disco in studio prima dell’attuale nel 1998 (si trattava di “Psicho Circus”).
Complessivamente una band di notevole successo fra gli appassionati, che ha sempre suonato una bella musica trascinante, che ha sempre puntato su uno spettacolo un po’ kitsch ma indubbiamente d’effetto e che – possiamo dirlo sommessamente? – non ha inciso in modo particolarmente rilevante sulla Storia della Musica. Se non ci fosse stato il trucco esagerato e le allusioni erotiche; se non ci fosse stata l’ambiguità sul nome (si diceva che Kiss fosse l’acronimo di Knight In Satan’s Service), peraltro mai smentita completamente; se non ci fossero state quelle due S finali che somigliavano, nella grafica, ad altre e più tenebrose SS di rimembranza nazistoide; se non ci fossero state le alluvioni di sangue finto di Gene Simmons ad ogni concerto; se fosse mancato tutto ciò – insomma – i Kiss se li sarebbero filati davvero in pochi. Invece così riuscirono a ottenere molto più credito di quanto meritassero i loro motivi, non sempre orecchiabili e non sempre di ottima lana.
Avremmo pianto disperati se la loro produzione discografica si fosse fermata al 1998? Francamente no; anzi, ci sarebbe stato – per loro – di che leccarsi abbondantemente le dita, considerando che con le non moltissime idee (musicali) messe insieme avevano comunque ottenuto un certo numero di dischi di platino.
Sentivamo il bisogno di un nuovo LP? Ancora una volta, la risposta non può che essere negativa. Il tempo li ha abbondantemente superati, gli appassionati di un tempo sono invecchiati con loro e i giovani di oggi – il teorico target della loro musica – sono troppo smaliziati per farsi circuire dal Barnum che mettono in piedi ad ogni concerto.
Il disco è brutto? Sì e no. Un bel rockaccione ruspante, con qualche finezza di mestiere, ma nessuna ispirazione che renda almeno un brano orecchiabile. Non a caso, i nostri hanno assemblato una specie di “paghi uno, prendi tre”: il disco con i brani nuovi, un altro disco con un’antologia di vecchi successi e un dvd con estratti di concerti. Esaurita in poco più di dieci minuti la curiosità di vedere cosa riesce a combinare ancora la gloriosa band di vecchietti, si corre subito al cd di evergreen per godersi ancora “Detroit rock city” e “Rock’n’roll all nite” che non saranno i Grandi Capolavori della storia del rock ma che, almeno, hanno il pregio della riconoscibilità immediata.

Il caso dei Kiss è particolarmente emblematico perché c’è sempre stato l’aspetto coreografico che spesso ha fatto premio sulle intrinseche qualità musicali; ma non diversa mi pare la situazione degli AC/DC, arzilli vecchietti australiani con anzianità di servizio uguale a quella della band americana ma anagraficamente appena più giovani (hanno comunque passato abbondantemente la cinquantina). Rispetto ai Kiss, mi sembra di poter dire che gli AC/DC hanno fatto musica complessivamente migliore: si pensi, per esempio, a brani come “Riff raff”, “Whole lotta Rosie” oppure “Hells bells”. Ciò che invece li accomuna è l’assenza – nell’ultimo disco – di quella scintilla di ispirazione che trasformi un prodotto da onesto a memorabile; senza di che, mi sembra inutile ostinarsi a cercare di replicarsi a tutti i costi in un’età in cui – dato anche il genere praticato – non sarebbe male appendere la chitarra al chiodo (e anche i calzoncini, per il vero ormai piuttosto patetici, nel caso di Angus Young)

Qui sotto un esempio dei Kiss più genuini e ruspanti: "100000 years" da un concerto del 1976

venerdì 2 ottobre 2009

La signora ce l'ha panoramica



Anche ieri – per l’ennesima volta nella mia vita familiare – si è verificata la solita storia che proverò a sintetizzare come segue:

1.Cristina, mia moglie, mi chiede di cercare una determinata cosa nello stanzino

2. Io la cerco e non la trovo, per cui torno indietro e le chiedo timidamente e sottovoce se, per caso, è possibile che di quel determinato articolo non ce ne sia più assortimento in casa

3. La risposta invariabile è: “Ne abbiamo a decine” (notare il quantitativo, volutamente esagerato)

4. Io torno nello stanzino e continuo a non trovare la cosa in questione. Chiamo la moglie, le reitero la domanda su dove sia l’oggetto e mi sento rispondere: “E’ lì che ti guarda”

5. Dopo attesa inutile di faticosi tentativi da parte mia, arriva lei, preleva l’oggetto da sotto il mio naso lasciandomi a riflettere sull’inutilità dell’apporto maschile nella vita domestica


Credo sia noto a tutti che l’inveterata incapacità degli esseri umani di sesso maschile a trovare le cose sia dovuta, oltre che alla perfidia delle donne che fanno di tutto per nascondere oggetti come calzini, mutande e flaconi di detersivo, ad un fatto fisiologico ed ancestrale ben dimostrato. In pratica: gli uomini hanno una visione cosiddetta “a cannocchiale” (nessuno equivochi, per favore) le donne invece ce l’hanno “panoramica” (vedi nota fra parentesi precedente); questo perché nella notte dei tempi gli uomini andavano a caccia a procurare il cibo per la famiglia e dovevano inquadrare la preda, mentre le donne dovevano comprendere con un solo sguardo tutta la caverna per sorvegliare la prole dall’assalto di animali feroci. Non sono balle: è tutto provato in modo abbastanza scientifico e disponibile su alcune pubblicazioni di tipo divulgativo, come i bei libri di Allan e Barbara Pease (ovviamente marito e moglie nella vita di tutti i giorni) tipo “Perché le donne non sanno leggere le cartine e gli uomini non si fermano mai a chiedere?” oppure "Perché gli uomini lasciano sempre alzata l'asse del water e le donne occupano il bagno per ore?" (ce ne sono altri, molto divertenti), che mi sentirei di consigliare a tutti.

Poste queste premesse che sembrerebbero indirizzare il problema su un versante scientifico e quindi accettabile da chiunque, si tratta solo di convincere le donne della ragionevolezza del nostro punto di vista: e qui cominciano i problemi, come ognuno può verificare nell’ambito della propria realtà domestica.

Perché non riusciamo a convincere le mogli del fatto che non è colpa della nostra pigrizia intellettuale, bensì del fatto che siamo fatti diversamente? Perché andare sempre a pensare che siamo noi a non voler mai vedere le cose che ci guardano? Forse perché c’è un aspetto di delizioso sadomasochismo che rende particolarmente attraente la vita di tutti i giorni e che fa parte di quel gioco delle parti indispensabile ad ogni intesa riuscita?

Non lo so, e forse non lo saprò mai.

Il mio suggerimento è quindi di continuare così. Siamo autorizzati da Madre Natura a non trovare i calzini che ci guardano e a continuare a procurare prede con (e per) il nostro cannocchiale.

E hony soit qui mal y pense

domenica 27 settembre 2009

Annozeru tituli


Sul “Giornale” di oggi il direttore, Vittorio Feltri, prova a lanciare una specie di campagna di disobbedienza civile invitando i lettori a disdire l’abbonamento RAI.
Qual è la ragione? La prima puntata di “Annozero”, la trasmissione del solito Michele Santoro coadiuvato dal solito Marco Travaglio – che pur di apparire in televisione accetta anche di non essere pagato – e dal vignettista satirico Vauro, che avrebbe iniziato in grande stile con le solite puttanate. Uso il condizionale perché non ho visto la trasmissione quindi mi baso solo su quello che leggo sui giornali che consulto su Internet (varie testate dell’una e dell’altra sponda per par condicio), e il termine “puttanate” perché il simpaticissimo conduttore – noto per l’equilibrio con cui propone le sue opinioni e per la correttezza con cui gestisce il contraddittorio – avrebbe invitato e affidato alle cure del parimenti equilibrato Travaglio l’escort Patrizia D’Addario, nota per le orge con il Cavaliere di Hardcore e i suoi ospiti.
Pur condividendo in astratto il pensiero di Feltri che, dalla Televisione di Stato, si aspetta giustamente trasmissioni di ben altro profilo culturale che non – oltre al già citato “Annozero” – “Ballarò”, “Porta a porta”, “X-factor” e “L’isola dei famosi” (tanto per rimanere nello stesso ambito culturale), io penso che abbia torto.
Innanzitutto non si può stimolare la gente a non pagare le tasse – tale è l’abbonamento, anche se chiamarlo così fa fine e non impegna – perché come diceva l’indimenticato Tomaso Padoa Schioppa, ministro delle Finanze dell’ultimo governo Prodi, “pagare le tasse è bello”.
In secondo luogo, l’esistenza di un meraviglioso strumento noto ai più come “telecomando” permette a chiunque non solo di scegliersi il programma preferito, ma anche di scartare di default quei canali che non offrono una programmazione adeguata. Io, per esempio, sapendo di principio che su TeleKabul non troverò mai pane per i miei denti, scarto aprioristicamente RaiTre dai miei palinsesti. A prescindere da ciò, è veramente raro che orienti le mie preferenze sulle reti nazionali Rai, i cui programmi sono di una povertà di contenuti francamente imbarazzante.
Terzo, Berlusconi deve smetterla di preoccuparsi di quello che viene detto contro di lui. L’opposizione ha il diritto di ritagliarsi gli spazi da cui cantare: è il suo compito e, se non lo facesse, sarebbe inaccettabile, innanzitutto agli occhi dei suoi elettori. Ragione per cui, questo continuo tuonare contro i “farabutti”, per di più amplificato dal “Giornale” del partito, non fa altro che ritorcerglisi contro dimostrando al mondo che lui non è diverso da quel D’Alema che fece licenziare Forattini da “Repubblica”.
Infine, la presenza di due trasmissioni come “Annozero” su RaiDue e “Ballarò” su RaiTre taglia la testa al toro sulla cosiddetta “questione bulgara”: semplicemente non esiste. Provate a vedere se in Venezuela, per esempio, l’opposizione ha la possibilità di inscenare contro Chavez teatrini come quelli di Santoro e Travaglio.
Per tutti questi motivi, se potessi farlo, suggerirei al partito di maggioranza di accettare serenamente le campagne mediatiche scatenate dalle trasmissioni della Rai: in uno Stato di diritto chiunque ha diritto di esprimere il proprio dissenso nel modo che ritiene più opportuno, e il fatto che il suo parere venga ospitato sulle reti della televisione di Stato è la miglior dimostrazione che non è vero che Berlusconi mette il naso dappertutto e che ci sono isole di felicità ove il dissenso ha una sua casa.
Santoro, Floris e Travaglio hanno tutto il diritto di fare fronda, così come l’utente ha tutto il diritto di scegliere se vederli oppure no. Non c’è nemmeno bisogno di farsi mettere i sigilli al televisore, come suggerito da Feltri e Belpietro: basta non guardarli e ci penserà l’Auditel a decretare con lo share se le trasmissioni hanno successo oppure no. In fin dei conti, penso che i suddetti personaggi abbiano anche troppo la puzzetta sotto il naso per accettare di vedersela con questi banali strumenti di rilevazione, come se fossero Maria De Filippi con la nuova edizione di “Amici” o Simona Ventura a “X-Factor”. Gli è che il loro ruolo di fustigatori di costumi, di cui essi si sentono investiti quasi per missione divina, si presterebbe meglio alla elitaria carta stampata, piuttosto che a quella televisione che appare troppo volubile e attualmente votata ai casi quasi umani da reality o talent show. Ben l’ha capito, infatti, quello complessivamente più furbo della compagnia, e cioè Marco Travaglio, che non a caso esce anche con almeno quattro libri all’anno, tutti riempiti con le stesse cose ma si sa: repetita juvant, no?

L'uomo delle percentuali


C’è qualcuno che si è accorto della sagacia e dell’acume tattico di José Mourinho?
Io no, e vorrei che qualcuno me li facesse vedere. Voglio dire: si parla di lui come del raffinato stratega, di colui che ha rivoluzionato il calcio come nemmeno Arrigo Sacchi ai bei tempi, e ci si dimentica che, forse, con squadre come quelle che ha avuto fra le mani lo Special One, probabilmente avrebbe potuto vincere qualche cosa anche Paolino Paperino.
Guardiamo ai fatti:
1. Con la squadra che aveva l’anno scorso, si è limitato (si parva licet) a vincere il campionato, esattamente come il suo predecessore, il tanto criticato Roberto Mancini, che ci è riuscito due volte prima di lui pur non essendo precisamente un prodigio di tattica. Avrebbe dovuto vincere la Champions, che era la vera mission affidatagli dal padrone della Federcalcio, cioè Massimo Moratti, ma non è stato capace: non l’ha imbroccata. A dire la verità non l’ha imbroccata Zlatan Ibrahimovic, il campione più rappresentativo che aveva fra le mani, ma lui, il geniale Special, non aveva una contromossa a disposizione, il che ci porta dritti al punto successivo
2. L’acume tattico dello Special si è manifestato l’anno scorso nello schema: “Palla a Ibra e poi ci pensa lui”. Ora, siamo onesti: valeva veramente la pena di spendere un pacco di milioni di euro per far venire in Italia il genio tattico di questo portoghese che ha fatto la stessa cosa che avrebbe fatto anche Aldo Agroppi, se solo ne avesse avuto l’opportunità? Cosa ha portato in più quanto a gestione tecnico-tattica del materiale umano a sua disposizione il simpaticissimo tecnico portoghese? Niente. Doveva vincere la Champions, l’unico trofeo che Moratti non riesce a comperare, e ha fallito
3. L’unica vera novità che ha portato nel panorama del nostro calcio è l’arroganza del furbetto del quartierino. Questo era qualcosa di veramente nuovo nel nostro panorama calcistico e merita parlarne un po’ più approfonditamente

Sino ad ora avevamo a che fare con il maleducato tout-court, l’ignorante, l’arrogante. Inutile fare nomi, anche perché ognuno di noi ne potrebbe avere una lista pronta e non basterebbero le pagine di questo blog a citarli tutti. Altrimenti detto: di Balotelli presuntuosetti ed arroganti ne abbiamo sempre avuti ad abundantiam nello scenario calcistico italiano e, bene o male, abbiamo sempre saputo come gestirli.
La novità tattica di un Mourinho è l’attacco pianificato e sgradevole ad personam che, lì per lì, aveva indotto tutti ad una generica perplessità. “Ma come – dicevamo – questo qui si permette di insultare gli avversari, di dar loro addosso, di irriderli perché porteranno a casa i famosi zeru tituli e gli altri zitti, quasi intimiditi?...”. Non avevamo capito che il Nostro, stratega sì, ma di tipo verbale, aveva imparato l’arte dell’aggressione con la parola in sostituzione della tattica, di quelle idee che avevano caratterizzato tecnici assai più sagaci di lui, come il già citato Arrigo Sacchi, ma anche Fabio Capello o il taciturno Carlo Ancelotti: gente che con lo spostamento di un giocatore, o con un’intuizione, è in grado di cambiare l’andamento di una partita oppure di una finale di Champions. E sì, certo, c’è qualcuno di essi che la finale l’ha anche persa, magari anche ai rigori dopo che vinceva 3-0, ma che intanto c’è arrivato e l’anno successivo s’è rifatto, accontentandosi di valorizzare il materiale umano che la Dirigenza – negli ultimi anni di braccino piuttosto corto – gli passava con parsimonia, e senza andare a piangere miseria perché manca il trequartista, che all’Inter di oggi sta come le sottocoppe di peltro in una villa palladiana: una decorazione.
Mourinho non è un tattico del calcio, ma un ottimo valorizzatore di risorse umane; esaurita la curiosità dell’anno scorso verso un personaggio così fortemente caratterizzato, dopo questo inizio di campionato penso che se ne siano accorti un po’ tutti. A parte la trionfale cavalcata contro i quattro guitti squinternati del mio povero Milan, le altre partite non hanno convinto nessuno; le ultime due, in particolare, denunciano un calo pauroso di idee. Con il Cagliari hanno rischiato di brutto, mentre invece con la Sampdoria le hanno prese sacrosantamente. Sarà forse perché gli mancava il trequartista? Questioni di tifo a parte, credo che anche gli avversari più accaniti gli perdonerebbero una o due partite storte se lui non invocasse sempre – a mo’ di giustificazione – tutta una serie di potenze occulte che ce l’avrebbero con lui e la sua squadra. Invece di fare tante querimonie e di invocare sempre i poteri nascosti che tramano contro la sua grande squadra, provi, l'Uomo delle Percentuali ("resto al 93%" oppure "abbiamo il 10% di possibilità di vincere la Champions", affermazione quest'ultima che avrà fatto particolarmente felice il suo datore di lavoro che, tanto per cambiare, si è svenato per fare la Squadra di Mourinho), provi a chiedere al suo collega Ancelotti come si vincono due Coppe dalle Grandi Orecchie con una squadra scelta da una dirigenza micragnosa.
E senza il trequartista, per dire.