giovedì 8 aprile 2021

Nel buio, come sempre

 

Ho terminato il libro di Marco Clementi dedicato alla ricostruzione del momento più buio della nostrastoria del secondo Dopoguerra: “La pazzia di Aldo Moro” (BUR 2001).

Alla fine di una lettura così complessa che avrebbe la pretesa di essere storicamente attendibile (rispetto quanto meno alle versioni definite come variamente “complottare” dai nostalgici in servizio permanente effettivo), i dubbi sono più delle certezze.

Innanzitutto, si deve accettare la visione di Clementi che – pour ainsi dire – non disprezza (a essere generosi) il punto di vista delle BR: anche l’uso della terminologia accorda ai vecchi terroristi lo status di rivoluzionari che, a regola, non meriterebbero, considerando anche e soprattutto presupposti e conseguenze del sequestro stesso che, della loro azione rivoluzionaria, dovrebbe essere stato il culmine.

Infatti, dovremmo proprio presupporre un’organizzazione esterna all’Italia, con Moretti e soci in guisa di utili idioti, per farci una ragione precisa della progettazione di un sequestro che non aveva nessuna possibilità di riuscita “politica”, o “strategica” in senso più lato; solo qualcuno di poco calato nella realtà italiana di quel periodo avrebbe potuto pensare all’efficacia un’azione di questo tipo.

Il presidente della democrazia cristiana Aldo Moro era da tempo uno dei possibili candidati al sequestro e, a quanto si legge, sarebbe stato scelto per il suo ruolo di alto funzionario del partito più odiato, e perché sarebbe stato più facile rispetto ad altri. Quello che non si capisce, invece, è come Moretti e soci possano aver pensato di avere un successo “politico” in un contesto come quello italiano di inizio 1978 che vedeva il PCI di Berlinguer approssimarsi alla maggioranza di governo, con la benedizione (o tolleranza) degli USA, grazie alla realizzazione del famoso “compromesso storico” di cui lo stesso Moro era – se non promotore – quanto meno pacifico e consenziente ratificatore.

Appare quindi ovvio anche con gli occhi dell’epoca, e sin dalle premesse, che le BR avrebbero trovato due ostacoli pressoché insormontabili nella DC e nel PCI; "quasi amici" di maggioranza dediti – com’era logico – alla conservazione di quelle istituzioni di cui erano garanti, i primi per vocazione e lunga militanza; ma, in fondo, anche i secondi. Non va infatti dimenticato che il PCI aveva fornito risorse importanti per la Resistenza, per la nascita della Repubblica e per la scrittura della Costituzione; che lo stesso Togliatti non solo se ne era fatto garante, ma aveva bloccato qualunque tentativo di insurrezione, ivi compreso quello che sarebbe potuto esitare dopo l’attentato di Pallante del Luglio del 1948. I quadri del PCI (nonostante avessero avuto nei lombi i brigatisti che facevano parte dell'album di famiglia, come diceva Rossana Rossanda), non avevano la rivoluzione nel proprio DNA; e, dopo aver fatto tanto per arrivare alla maggioranza di governo, non se ne sarebbero fatti scalzare da quella conventicola di squinternati che, almeno teoricamente,  tale rivoluzione aveva invece proprio in programma di realizzare.

La DC – per ragioni analogamente istituzionali – a sua volta non avrebbe mai ceduto di fronte al ricatto destabilizzante.

Le conclusioni di Clementi, in tal senso, sono fuorvianti: lui punta tutto sull’assunto che la DC abbia la responsabilità morale di non aver fatto nulla per salvare il Presidente. Ma, contrariamente a quanto affermato alla fine del libro, nessun notabile democristiano aveva fatto sfoggio di ignavia, bensì esattamente del contrario: una fermezza ai limiti del cinismo, che ha trovato compatto un fronte che, per sua natura, abitualmente non lo era. Piccoli, Andreotti, Fanfani, Zaccagnini e tutti gli altri dimostrarono la forte determinazione non tanto a non rilasciare i “prigionieri politici” (probabilmente un pretesto anche per le BR), quanto nel non riconoscere lo status di interlocutori ai terroristi; che era il vero target della manovalanza che aveva in mano Moro. Ne deriva che la tesi vagamente adombrata da Clementi - che cioè la colpa della morte di Moro sia in capo alla DC - sia assolutamente comoda e falsa: per le forze di maggioranza fu inevitabile resistere, la colpa dell'assassinio di Moro fu solo ed esclusivamente di chi lo ammazzò.

L’altro aspetto che fa pensare è il ridicolo “processo” cui Moro è stato sottoposto da Moretti, Gallinari e gli altri sicari presenti in via Montalcini. A leggere la documentazione di cui Clementi fa ampio sfoggio, c’è da chiedersi cosa realmente volessero ottenere i terroristi dal Presidente della DC; e per quali colpe, alla fine, lo abbiano condannato a morte. Rivelazioni? Loro non sapevano nemmeno – per dirne una – dell’esistenza di Gladio; e Moro, stando a quanto si legge, è riuscito ad evitare di parlarne. A ben vedere, quello poteva essere l’unico argomento di un certo interesse per loro, invece delle tendenze politiche della famiglia Agnelli o di fantomatiche trame di un presunto imperialismo trasversale. Addirittura, a leggere Clementi, sembra che Moretti e soci non sapessero nemmeno cosa chiedere all’attento presidente DC, per propria consuetudine e formazione molto più abile nella dialettica rispetto ai suoi interlocutori.

Infine, l’esito. L’inevitabile omicidio del Presidente DC ha ottenuto da un lato il risultato di far vedere con chiarezza che razza di belve sanguinarie fossero questi assassini; e dall’altro, di compattare nel segno di una fermezza bipartisan un Paese lacerato e diviso, portando alla morte il terrorismo politico.

Se questa era una risoluzione strategica, un attacco al cuore dello Stato, abbiamo corso il rischio di essere governati da un gruppo di idioti.

Ma gli idioti – e questo è abbastanza bizzarro – sono riusciti a mantenere un ostaggio di quel genere nascosto non sull’Aspromonte, ma in un appartamento a Roma, senza che delatori o infiltrati dessero a investigatori non particolarmente solerti un’idea di dove fosse la “prigione del popolo”.

Quindi, ecco: la “versione così com’è” di Clementi lascia più dubbi e perplessità di quanti uno ne avesse prima di leggere. Ma uno, soprattutto: per capillare che fosse l’organizzazione di questi personaggi, resta difficile credere che potessero organizzare da soli un sequestro di un personaggio così importante, protrattosi per quasi due mesi, con i responsabili del medesimo liberi di andare a lavorare, di fare la spesa o di scorrazzare in lungo e in largo per l’Italia. E, anche fosse stato possibile nei termini in cui Moretti e Clementi vogliono farcelo credere, qual è stato il fine ultimo del sequestro? A chi ha giovato? Era scritto nelle premesse che sarebbe andato malissimo, che sarebbe stato un suicidio politico e “strategico”. Chi avrebbe potuto organizzare un’azione che non aveva nessuna possibilità di riuscita in un contesto come quello italiano di quel periodo? Solo qualcuno che era talmente esterno da non avere nessuna idea sul medesimo, ma che puntava a una destabilizzazione per evitare di perdere agganci geo-politici. Il partito comunista più importante fra quelli delle nazioni non allineate col Patto di Varsavia, nel contesto dell’unica penisola europea stabilmente democratica, stava per entrare nella maggioranza parlamentare assieme alla democrazia cristiana. Se consideriamo anche gli avvenimenti degli anni successivi, che sarebbero culminati con l’attentato al Papa, credo che la lettura degli eventi sia tutta lì.


In conclusione: un libro interessante, se si riesce a superare il disgusto per le affermazioni filo-BR del suo autore; ma decisamente non un libro risolutivo su un tema che, analogamente ad altri in Italia, non troverà una risposta definitiva


lunedì 15 febbraio 2021

Duro e puro

 


Vorrei scrivere qualche considerazione in merito all’ennesima richiesta di lockdown duro avanzata dal solito Walter Ricciardi (il quale peraltro, un anno fa, diceva che il nuovo coronavirus era meno pericoloso dell’epidemia dell’influenza).

Non entro in meriti politici, perché mi sembra che la vicenda sia cavalcata abbastanza da diverse fazioni che stanno mettendo in campo interessi che poco hanno a che fare con la salute pubblica.

Non entro nemmeno in meriti epidemiologici e statistici, sui quali non ho nessuna esperienza professionale; mi limito a ragionare per conto mio, proponendo la riflessione su una serie di punti.


Primo: la pandemia ha fatto danni non solo sulla salute, ma anche sull’economia. Danni gravissimi, probabilmente incalcolabili, forse paragonabili agli effetti devastanti di una guerra mondiale. Credo che sia questa la ragione per cui i governi dei paesi meno abbienti (il nostro, per esempio) hanno provato a confrontarsi con la possibilità di navigare a vista dopo la “prima ondata”, quella appunto del lockdown duro e generalizzato che, di fatto, NON ha eliminato il virus; ne ha ridotto l'impatto, certo, ma provvisoriamente e permettendo la sua sopravvivenza in un "santuario" che ha fatto da serbatoio. 
In compenso, il lockdown ha fatto fallire un numero spropositato di persone che non sono state aiutate adeguatamente da chi avrebbe dovuto sovraintendere a un periodo tanto difficile


Secondo: il lockdown, in altre nazioni (Germania, per esempio), viene adeguatamente supportato dallo Stato. 
Da noi, i cosiddetti “ristori” erogati (in ritardo e in scarsa misura) per le categorie penalizzate, sono le proverbiali quattro pelli di peperone, che non servono a niente e a nessuno. Da noi, cade il governo. Da noi, i cittadini vengono abbandonati a sé stessi. Abbiamo la forza di sopportare una chiusura totale di almeno tre mesi, visto che i due mesi dell’anno scorso non sono serviti a niente (il miglioramento dei dati è stato solo transitorio…? Questa secondo me è la domanda vera cui dare una risposta


Terzo: il rischio della “terza ondata” è sicuramente reale, ci mancherebbe, ma attualmente siamo in una fase di oggettiva, discreta gestibilità di un contagio che – in questo momento – per preoccupante che possa essere, non ha i numeri di qualche mese fa. Per proporre una misura così drastica e drammatica, devi essere molto, molto credibile; e non in modo retrospettivo, ma prospettico, portando dati statistici attendibili
E questi dati mancano, perché non abbiamo la tracciabilità


Quarto: a questo proposito, Ricciardi afferma che un lockdown duro ma breve permetterebbe di riprendere il tracciamento che attualmente sfugge. Anche Nino Cartabellotta, della Fondazione GIMBE (altro grande sponsor del lockdown), afferma: Chiudere tutto per 2 settimane significherebbe abbassare la curva per poter riprendere il tracciamento
, ma secondo Cartabellotta, «non tutte le regioni sono pronte all’attività di testing e tracciamento. Dobbiamo decidere se siamo disponibili ad accettare una restrizione maggiore per abbassare la curva, oppure se accettiamo di avere un 2021 che andrà avanti con stop & go».


Quinto: la concentrazione delle risorse  sul solo Coronavirus come unico problema sanitario meritevole di cure, ha portato, come conseguenza, il peggioramento di altre malattie - i tumori, per esempio - che sono state trascurate, sia come diagnosi che come terapia e, ovviamente, follow-up. 
Il peggio si è verificato proprio durante e subito dopo il lockdown. I cosiddetti “centri hub“ (centri di elevata specializzazione nella diagnosi e cura di determinati cluster di patologie), si sono rivelati ampiamente insufficienti alla gestione delle patologie non Covid. Credo che solo fra molti anni riusciremo a fare il bilancio di tutte le morti che si sono verificate per colpa del Covid come causa indiretta di mancato accesso alla diagnosi e alle cure


 Sesto: il lockdown può durare due, tre, quattro, dieci settimane, anche venti o cento, tutto il tempo che vogliamo. Ma prima o poi finisce. E, a quel punto, è inevitabile che alla riapertura delle stalle, il bestiame si riversi in massa sull’alpeggio, con gli inevitabili assembramenti che abbiamo visto l’estate scorsa, quella dominata – in guisa di simbolo squisitamente italico – dalla decerebrata di “Non ce n’è coviddi”. Il problema poi non è solo nazionale: porti, aeroporti e stazioni ferroviarie permetteranno l’ingresso di tutte le varianti, quelle che già conosciamo e quelle che devono ancora arrivare, ma che si stanno già selezionando sulla popolazione di tutto il mondo

giovedì 30 agosto 2018

Nel baratro


La notizia che il concorso per un numero non specificato di posti di lavoro per il PS dell'Ospedale di Parma è andato deserto, deve fare riflettere profondamente. 

Risultati immagini per baratroIniziamo dalla prima riflessione: il concorso era per incarichi a tempo determinato. Adesso vanno molto di moda, ai miei tempi - cioè, quando io ero un giovane medico - no. A tempo determinato vuol dire che hai un contratto di collaborazione continuativa, non sei "fisso": e non sono più i tempi in cui puoi proporre un lavoro difficile e senza tutela per le proverbiali quattro pelli di peperone e senza sicurezza del posto di lavoro. 
Ai miei tempi, il Pronto Soccorso era la prima destinazione per un aspirante medico ospedaliero; oggi, la situazione è molto diversa e i medici - sempre meno - possono scegliere se, come e dove fare il Pronto Soccorso. La scelta è abbondante, e un giovane può permettersi il lusso - se ha voglia di dedicarsi all'urgenza - di scegliere ciò che vuole e di rifiutare contratti a tempo determinato. La situazione di Parma non è unica, in Italia: anche a Milano, in grossi ospedali, i contratti a tempo determinato non vengono nemmeno presi in considerazione. Se faccio un lavoro impegnativo, voglio il posto fisso: c'è di che far luccicare gli occhi a tutti gli emuli di Checco Zalone.
Quindi, se si vuole occupare uno slot vacante - e ce ne saranno sempre di più - il contratto a tempo determinato NON è una buona scelta.

Seconda riflessione: il numero dei medici.
I medici sono sempre meno.
A questo risultato poco ambibile concorrono alcuni elementi fondamentali, il primo dei quali è l'accesso alle Facoltà di Medicina che è vincolato da un demenziale concorso nazionale ed è a numero chiuso, chiusissimo. Oddìo, sembrerebbe che quest'anno il MIUR  abbia aumentato la disponibilità di 900 posti, ma è un provvedimento palliativo: i progetti di professionisti cui apre oggi le braccia l'Alma Universitas diventeranno disponibili fra oltre 11 anni, dopo cioè Laurea e indispensabile specializzazione, ammesso che il neolaureato sia riuscito ad accedervi in tempo reale. Il che è praticamente impossibile.
Il numero chiuso in Medicina è stato introdotto in un momento storico in cui esso era del tutto inutile. Quelli della mia generazione non ne hanno avuto bisogno: ci sono stati i professori che hanno provveduto a selezionare i più attrezzati. Nel 1984 a Milano ci siamo immatricolati in circa 1200, divisi in 12 linee didattiche ognuna da circa 100 studenti. Della mia linea didattica ci siamo laureati in corso in circa sei. Ripeto: sei.

Risultati immagini per università di milanoQuelli della mia generazione ricordano sicuramente nomi terribili di autentici killer seriali: Molho,Galli Kienle, Tredici, Ventura, Petruccioli, D'Angelo, Mancia, Mocarelli, lo stesso Rugarli e tanti, tantissimi altri. Quasi tutti noi siamo stati bocciati in lungo e in largo da questi professori. Qualcuno di noi ha mollato strada facendo per la difficoltà di rimanere attaccati a un carro che procedeva inesorabile senza aspettare nessuno. Ma quelli di noi che sono diventati medici non hanno sofferto per pretese ingiustizie: sapevamo che erano belve assetate di sangue, ci siamo difesi.
Sarebbe proprio così sbagliato tornare a un sistema del genere? Nessun feedback dello studente e massima libertà al professore di triturare chi non sa.
Oltre a tutto, chiunque avrebbe la possibilità di provarci, e questo sarebbe assolutamente democratico.
E, particolare non trascurabile: molti di più pagherebbero le tasse scolastiche.

Terza riflessione: la follia forcaiola.
Nel mio precedente ospedale sono stato - fra le altre cose - anche tutor universitario. Nessuno - dico: nessuno - vuol fare professioni maggiormente a rischio di contenzioso, a cominciare quindi dalla chirurgia e da tutto ciò che ha a che fare con l'urgenza. 
Nel mio libro "Reato di cura" ho cercato di analizzare il problema partendo dalle colpe dei medici che poco o nulla hanno fatto per arginare questa demenziale deriva giustizialista e ho offerto la mia disponibilità per ragionare su come uscire da questa impasse, ma - al di là di una generica solidarietà - non ho trovato risposte. 
L'Italia è uno dei tre (!) paesi al mondo assieme a Polonia (!) e Messico (!) a collocare la colpa medica in ambito penale. 
Le consulenze tecniche sono affidate a persone che non hanno poche o nulle competenze in ciò che vanno a giudicare. 
Gli avvocati stimolano i pazienti a tentare la strada del risarcimento con compensi da stabilire alla fine (il teoricamente vietatissimo patto di quota lite). 
A ciò si aggiungano giornalisti che soffiano sul fuoco spacciando notizie di scarso rilievo in cui però è insito già il giudizio definitivo, che non fa altro che peggiorare il rapporto fra medici e pazienti.
Siamo sinceri: chi mai vorrà impegolarsi in professioni a rischio, per di più con coperture assicurative limitate e costosissime?

Quarta riflessione: mancanza di progettualità.
Si vive alla giornata.
I nuovi medici non arrivano a rimpiazzare quelli che vanno in pensione.
Non c'è un piano di formazione con adeguata tutorializzazione.
La didattica sul campo è vissuta come un fastidio perché è un lavoro (importante) supplementare che viene espletato isorisorse, anzi, con risorse sempre più limitate.

Ci sarebbero molte altre riflessioni da fare, ma mi fermerei a queste.
Sarà bene che ognuno pensi a dove ci troviamo e dove stiamo andando.
Ci troviamo in un baratro nel quale, peraltro, ci siamo cacciati come collettività con le nostre stesse mani al solo scopo di lucrare un misero, transitorio guadagno: quello di un malcalcolato risparmio sul numero di accessi all'Università, messo in campo quando non era più necessario; e quello dei risarcimenti sulle colpe mediche.
Stiamo andando verso il nulla, perché nessuno ha voglia di far qualcosa di propositivo, anche se impopolare, per recuperare il terreno perduto.
I medici saranno sempre meno, non solo in ambito di urgenza.
Se qualcuno vuol fare qualcosa, sarà meglio che batta un colpo in fretta.
Io ci sono, come già avevo scritto in passato.

giovedì 14 giugno 2018

Ai confini di sé stesso: vita da borderline


Risultati immagini per borderline

La relazione che instaura un borderline sarà sempre votata al controllo, in una condizione di stabilità precaria e di instabilità continua. Spesso le persone che hanno questo disturbo sono state vittime di violenza sessuale in giovane età... 
Il borderline vive di emozioni non di sentimenti: non riuscirà mai a instaurare un rapporto maturo di condivisione empatico con l’altro. E questo è il paradosso che caratterizza la complessità del borderline: quando si crea la possibilità di una relazione intima, il borderline percepisce, anche in maniera psicotica, questo senso di ansia generalizzata, tendendo all’autosabotaggio della relazione e alla rottura della stessa.
La rottura nasce proprio dalla paura dell’abbandono: abbandona prima di essere abbandonato. 
Proprio perché l’altro diviene importante, troppo importante, che il suo rifiuto può causare un male ancora maggiore, allora l’autosabotarsi (e, ovviamente, sabotare il partner) è l’unica scelta possibile per superare l’ansia di abbandono. Dopo questa fase, il borderline ritornerà come se niente fosse successo a rivolgersi a un nuovo salvatore, ricominciando il ciclo di idealizzazione-controllo e poi svalutazione, in una relazione che mai riuscirà ad essere stabile. 
Un po’ come un flipper, dove si evitano gli estremi: troppa lontananza e troppa vicinanza generano angoscia e quindi rottura. Per questo motivo chi soffre di questa patologia difficilmente riuscirà a coltivare relazioni a lungo termine e in maniera stabile. Le relazioni che instaurano sono caratterizzate da una tempesta emotiva continua (cit. https://it.quora.com/In-cosa-consiste-il-disturbo-Borderline-di-personalit%C3%A0  modif)

Lievemente modificato, l'articolo sopra riportato (fra parentesi l'URL dell'originale) riporta ciò che può capitare a chi si imbatte in un borderline.

Nella mente del border ci sarà sempre una zona nera, un pozzo in cui annegano tutti i tentativi di sentimenti, sostituiti da emozioni violente.
Il border non se ne accorge, ma uccide tutti coloro che gli gravitano intorno.
Il border è involontariamente e patologicamente egoista e autocentrato.
Il border non si riconosce ammalato, ma lo è più di chiunque altro.
Il border vive sempre ai limiti, ai confini di sé stesso. Ogni volta che tenta una relazione più profonda, il suo personalissimo mostro esige il tributo di sangue e il border uccide chi gli sta accanto.

Non c'è speranza di salvezza per  un border, perché penserà di essere sempre nel giusto e non accetterà l'idea di essere ammalato.
Non c'è spazio per la vita nel cuore del border



martedì 3 giugno 2014

Come un fungo velenoso


"Le manifestazioni cliniche cui andò incontro il paziente Luca Ernesto Olivotto durante la degenza nella struttura 'Universal Hospital Group' di Tirana sono riconducibili agli effetti della somministrazione di bicarbonato di sodio". E' quanto scrivono i consulenti della Procura di Catania, delegati dal pm Attilio Pisani della Procura di Roma, titolare delle indagini sulla causa che ha determinato il decesso di Luca Olivotto, il giovane 28enne che si ricoverò nell'ottobre dello scorso anno presso la Universal Hospital Group di Tirana su indicazioni di Tullio Simoncini, l'ex medico, radiato da vent'anni, secondo il quale il cancro è un fungo da debellare con infusioni massicce di bicarbonato di sodio".
Il fungo sarebbe la candida albicans; Simoncini sarebbe arrivato a questa geniale conclusione osservando il colore biancastro di alcuni tumori ma, per sua stessa ammissione, senza nemmeno cercare un'ifa in nessun tumore.
La notizia - che ho sentito questa sera al telegiornale - mi ha colpito.
E' da un po' che sono attivo contro le bufale agghiaccianti che girano nell'universo alternativo e incontrollato dei bassifondi della Rete.
Vaccini - nella migliore delle ipotesi - totalmente inutili; forse anche dannosi; sicuramente governati da interessi finanziari delle Multinazionali Farmaceutiche e dei medici prezzolati.
Chemioterapie assassine che curerebbero il 2.5% dei pazienti che vi si sottopongono (questa era talmente pesante che l'ho denunciata al mio Ordine dei Medici).
Il cancro può essere guarito con una bella dieta vegana.
Il cancro può essere guarito da una bella dose di bicarbonato. Questa, fra tutte, è particolarmente agghiacciante. Cito dal sito pilastridiluce.net, gestito da tale sedicente Iside: "Il bicarbonato di sodio applicato ai tumori alla fine li fa scomparire rapidamente, che molti dei trattamenti chemioterapici attualmente includono bicarbonato di sodio, con la scusa che “aiuta” a proteggere i reni, il cuore e il sistema nervoso del paziente è un dato di fatto. Ed è stato già stabilito che la somministrazione di chemioterapia senza bicarbonato può uccidere il paziente. Così , quando sentiamo parlare sui “successi” della chemioterapia è proprio il bicarbonato di sodio che agisce, non solo per fermare metastasi ma anche per ridurre al minimo gli effetti collaterali dannosi della tossicità chemioterapica"

Nella testa di una persona ammalata, si formano immediatamente due pensieri: 
  1. Il bicarbonato guarisce il cancro perché lo dice Facebook
  2. Più ne prendo, prima guarisco
  3. Quando sono guarito, denuncio i medici bastardi che non me lo hanno voluto dare
Ed ecco che il poveretto parte per il viaggio della speranza e si ferma al punto 2, perché il guru gli fa sette flaconi endovena o intra-arteriosi (qui la vulgata non è chiarissima) di bicarbonato e il paziente muore di alcalosi metabolica.

E adesso vi aspetterete il solito pistolotto contro l'ignoranza della gente che, invece di consultare i medici, si fa un giro su Internet con lo stesso spirito con cui prima leggeva la Garzantina medica.
E invece no: faccio il mea culpa, a nome e per conto della mia categoria.
Credo che la colpa di questa tragedia sia soprattutto dei medici. Categoria di cui - sia detto apertis verbis - NON fa parte Tullio Simoncini.

Adesso, non metterebbe nemmeno conto di parlare di questo impostore: un ignorante agghiacciante, un turlupinatore, un balordo criminale che ha già condanne penali alle sue spalle, oltre a una radiazione dall'Ordine dei Medici di cui faceva parte.
Il problema, paradossalmente, non è lui: lui è come il Mago Otelma, campa sulla credulità di persone disperate che accetterebbero qualunque cosa pur di non soffrire, per sentirsi dire una parola buona, una promessa. Lui cresce come un fungo velenoso su un humus marcio, sul putridume di una disperazione aggravata dall'incomprensione. 
E' come un'Amanita Phalloides: cresce, si espande, sembra bello, ma è mortale. Spande il suo veleno perché solo questo sa fare.
La colpa però è sua fino a un certo punto.
La colpa è di chi va a cercarlo, affidando a questo miserabile impostore la propria vita o quella dei propri cari.
La colpa è di chi lo lascia parlare, senza zittirlo e soprattutto senza offrire un'alternativa parimenti credibile.
Quindi, in definitiva, la colpa è di noi medici, quelli veri, quelli come noi che lottano ogni giorno contro il cancro in modo serio, scientificamente attendibile, facendo ricerca e pubblicando i risultati.
La colpa è nostra che non siamo in grado di dare al nostro lavoro una dignità anche solo lontanamente paragonabile a quella millantata da un miserabile che spara cazzate agghiaccianti e le diffonde attraverso blog e social forum; e lo stesso concetto valga per tutte le vaccate veicolate contro i vaccini.
Se noi non siamo in grado di farci capire, se bastano le stronzate di un social forum a creare aspettative che nessuno ha voglia di smentire molto spesso solo per pigrizia, è giusto che i pazienti facciano il viaggio a Tirana in cerca di una speranza che noi non siamo stati capaci di dar loro.

martedì 17 settembre 2013

Love boat

Ascolto il telegiornale: a cominciare da Enrico Letta, che ne ha parlato come di un mondiale di calcio (l'unico evento che unisce veramente gli italiani) sono tutti orgogliosi del successo squisitamente italiano della rimozione del relitto della Concordia al Giglio.
Italiano è Gabrielli, Capo della Protezione Civile.
Italiano è tale Franco Porcellacchia, responsabile della rimozione per Costa.
Italiano è Sergio Girotto, responsabile della rimozione per Titan-Micoperi.
Italiano NON E' Nick Sloane, salvage master sudafricano, che ha diretto le operazioni; ma in compenso pare abbia bevuto in abbondanza birra Peroni, Moretti, Pedavena e Ichnusa, per cui lo è quanto meno di adozione.
Italiani sono i 450 milioni di euro spesi per questa leggendaria impresa seguita con la stessa morbosa attenzione riservata trent'anni fa al pozzo di Vermicino.

Italiano - infine - è il comandante Francesco Schettino, la cui lungimiranza, sagacia, capacità di manovra e coraggio, ha reso possibile tutto questo trionfalismo mal riposto che, in nome di una fortuna di soldi pubblici dilapidati, ha unito tutti i suoi compatrioti a sprezzo del ridicolo internazionale.
Se ne sentiva proprio il bisogno

mercoledì 3 luglio 2013

E se tornasse davvero?...

Ogni tanto - specie in vacanza - mi lascio convincere dal tamtam pubblicitario dei libri best seller. Questa volta mi sono fatto convincere anche dalle insistenze del solito Barba che è uno che raramente si fa infinocchiare dalle suggestioni mediatiche, vuoi perché scaltro di suo, vuoi perché addetto ai lavori; e così ho scaricato sul mio Kindle "Lui è tornato", di Timur Vermes, edito in Italia da Bompiani, caso editoriale dell'anno.
Il plot narrativo è apparentemente piuttosto semplice, e già esperito da altri narratori (si pensi a Woody Allen con "Il dormiglione").
In sintesi: Hitler non è morto, ma è rimasto come ibernato per una settantina d'anni. Si risveglia improvvisamente, puzza ancora di tutta la benzina che gli hanno versato addosso. Smarrimento: non c'è più Eva, non c'è più il bunker, non ci sono né Bormann né Goebbels, soprattutto non c'è più la "sua" Berlino.
Che fare?
Non si è stati il Fuhrer per nulla, no?
Ecco che il nostro si industria, con sagacia e coerenza, a ricominciare da dove aveva finito, senza deflettere di una virgola dal suo vecchio piano di battaglia, dalle sue idee (antisemitismo in primis) e dalle sue mire espansionistiche, naturale filiazione del pangermanesimo che lo aveva prodotto.
La sua intelligenza e scaltrezza lo portano ad assimilare in fretta le nuove tecnologie: dalla televisione, di cui capisce rapidissimamente le potenzialità comunicative; al computer con tutte le sue declinazioni, da Internet a Youtube e forse anche Facebook.
La sua profondissima conoscenza della psiche della gente lo porta a toccare immediatamente i nervi scoperti dei suoi "nuovi" contemporanei, con un successo inimmaginabile.
La gente come lo prende?
Sul ridere.
Inizialmente Hitler è l'ospite surreale, grottesco e un filo démodé di una trasmissione condotta da un turco: i suoi interventi vengono male interpretati e fanno ridere il distratto pubblico berlinese.
Il successo è travolgente, e stupisce persino l'anziano leader. La gente lo prende in simpatia; e, particolare inquietante, lo prende in simpatia anche il lettore, anche se la questione ebraica è - diciamocelo - un filo scomoda, come gli ricorda la manager della rete televisiva che lo ha assunto.
Sinché...

Ecco, se devo dire la verità all'inizio non m'ha acchiappato e l'ho detto anche al Barba.
Essendo preparato anche dai commenti su Internet a un libro grottesco, l'ho trovato ben poco spassoso su questo specifico fronte, eccetto che in qualche inciso divertente soprattutto all'inizio, quando cioè Adolf si trova a confrontarsi con un mondo che non è più il suo, che non capisce e a cui fa fatica a prendere le misure.
Ma poi il libro cambia marcia.
Hitler è velocissimo nel capire il mondo che lo circonda, a mascherarsi, a sfumare, ad adattarvisi come un camaleonte. 
L'anziano dittatore non cambia di una virgola le sue idee; semplicemente trova il modo giusto di esporle, quello che le renda prima assimilabili, poi ambibili ai suoi nuovi contemporanei.
Terribile è l'episodio in cui riesce a convincere la nonna della sua segretaria. L'anziana signora, ebrea, che da bambina aveva visto la famiglia sterminata in un campo di concentramento, accetta non solo di confrontarsi con chi le aveva devastato la vita allora, ma addirittura di farsi convincere a "prestare"a Hitler la nipote per fargli da segretaria. E Hitler non ha nessun dubbio sulle proprie capacità di convincerla...

Ecco, questa è la vera chiave di lettura di un romanzo interessante, ricco di spunti e profondissimo, molto più acuto di quanto lascia intendere la superficie.
Il libro vive di un pessimismo profondo nei confronti dell'umanità, potenzialmente sempre pronta a farsi abbindolare dal nuovo iddio, purché abbia le parole giuste nel momento giusto.
Hitler lo spiega a Vera, la segretaria: "Crede che averi potuto fare tutto quello che ho fatto se non mi avessero creduto?".
Lui si era limitato a "leggere" - con eccezionale sagacia - nei bisogni della gente, soprattutto nell'eterna, immutevole necessità della stessa umanità di trovare un colpevole purchessia di tutto il male che ci circonda.
La gente prima lo aveva preso sul ridere.
Poi lo aveva rispettato.
Poi ci aveva creduto, sino al fanatismo.
Vermes, senza nessun atteggiamento nostalgico, ma con acuto senso dell'osservazione, fa una palingenesi inquietante e si ferma su quello che potrebbe essere nuovo "punto di partenza", che lascia l'amaro in bocca perché non c'è niente di strano o di disumano nella Berlino che circonda questo strano personaggio piombato inaspettato da una Storia che sembrava averlo ormai fagocitato e digerito.
A volte ritornano? Può essere.
Il problema è: riusciremmo oggi a evitare gli errori (e gli orrori) del passato? O corriamo il rischio di essere ancora una volta troppo superficiali?
Ormai è scientificamente appurato: ognuno di noi corre il rischio di dimenticare il proprio figlio in macchina, anche se nessuno pensa che possa mai capitare proprio a lui...
Libro davvero inquietante