domenica 22 agosto 2010

Io canto l'opera sotto la doccia e ho un carattere di merda!

Il mio vecchio maestro ed amico Roberto Brambilla si è sentito urtato dall'ultimo articolo del mio blog. Mi ha accusato, in buona sostanza, di pressapochismo e di superficialità, dicendomi che è difficile rispondere in poche parole ad un questionario ed invitandomi a rispondere a mia volta alle stesse domande e a sottoporgli il risultato che poi egli avrebbe commentato da par suo.
Conosco l'uomo e gli voglio bene sincero, oltre che rispettarlo profondamente per la sua calda umanità (ancorché di idee piuttosto lontane dalle mie) e per la sua abilità tecnica.
Io gli contesto il mio diritto di controbattere a tutto ciò che viene pubblicato, e ciò per tre buoni motivi:
  1. come lettore che compra un giornale ho il diritto di fare il contraddittorio a ciò che leggo
  2. chi scrive qualche cosa si può aspettare che qualcuno sia contrario a ciò che dice
  3. la formula del blog permette a chi non fosse d'accordo di dirlo sulle mie stesse pagine
Ma tuttavia non sia mai che mi nego ad una sfida del mio vecchio Maestro. Eccomi qui. Prendo le stesse domande che Di Stefano ha fatto a Michela Marzano e rispondo io.

Il tratto principale del suo carattere?
La pigrizia.

La qualità che preferisce in un uomo?
Le palle.

E in una donna?
Il culo. E' la prima cosa che noto. A seguire sguardo, bocca e tette

Il suo migliore amico?
Ho almeno cinque persone cui attribuisco questo ruolo. Uno di essi è, ovviamente, il Roberto Brambilla di cui sopra

Il suo principale difetto?
La pigrizia. Subito, a ruota: la permalosità, l'allergia alla gente, la gola

L’ultima volta che ha pianto?
Due volte: una qualche mese fa quando una persona cui voglio molto bene mi ha detto che aveva intenzione di farla finita; poi quando ho dimesso dall'ospedale una paziente speciale cui sono rimasto legato

Il giorno più felice della sua vita?
Diversi: quando mi sono sposato; quando è nato Giacomo; quando per la prima volta qualcuno ha portato a casa la pelle grazie a me

Autori preferiti?
Fra i tanti: Georges Simenon, José Saramago e Jeffery Deaver

Attore e attrice preferiti?
Cary Grant e Ingrid Bergman in "Notorius"

La canzone che fischia più spesso sotto la doccia?
Di sicuro NON "Ne me quitte pas": infischiabile! Io CANTO sotto la doccia tutta l'opera lirica che mi viene in mente, come ben sa chi mi conosce (ad esempio Roberto Brambilla)

Il dono di natura che vorrebbe avere?
Essere magro e muscoloso come Brad Pitt, affascinante come Cary Grant e dotato come Rocco Siffredi

Il regalo più bello che abbia mai ricevuto?
L'orologio che mi ha regalato Cristina quando eravamo fidanzati

Le colpe che le ispirano maggiore indulgenza?
Nessuna, con gli altri ho un carattere di merda

A seguire metto alcuni dei brani che più frequentemente canto sotto la doccia. Roberto Brambilla vi può confermare che è vero!








sabato 21 agosto 2010

Una battaglia da combattere


Ancora una volta, l'allegato Io donna del "Corriere" odierno mi fornisce materiale interessante per qualche disamina. L'oggetto delle mie riflessioni è il filosofo Michela Marzano, classe 1970, docente di Filosofia morale e politica presso l'Università di Parigi V. Suoi ambiti di ricerca sono: il corpo umano e il suo statuto etico; l'etica sessuale; l'etica medica; gli aspetti teorici del ragionamento morale e delle norme e dei valori che possono giustificare una condotta.
Nel numero odierno della rivista, Marzano è fatta oggetto di un "mini questionario Proust", a cura di Paolo di Stefano. Vi riporto qui sotto il questionario e le risposte di Marzano. In diverso carattere e colore metto qualche mia considerazione.

Il tratto principale del suo carattere?

La tenacia.

Capirai: una grande novità. La donna che si è fatta da sola. La donna che non deve chiedere. Mai.
Ma ci sarà mai una donna di successo che dia alla lettrice media una possibilità, una scorciatoia, un'idea, qualcosa insomma in cui identificarsi e che la faccia sentire potenziale artefice del proprio destino senza sentirsi presa per il culo? Forse che tutte le donne hanno nel loro DNA la possibilità di diventare docenti universitarie a Parigi solo con la tenacia?
Perché, tanto per cambiare, non c'è qualcuna che a questa domanda risponde "il culo"? Magari non è vero, ma consolerebbe molto le lettrici di Io donna



La qualità che preferisce in un uomo?

La dolcezza.

Ma proprio a nessuna piace il trucidone bifolco rifatto palestrato con le ascelle depilate e le mutande aderenti col pacco in bellavista come un salmone in gelatina? No? E allora come mai è il fenotipo sessuale talmente rappresentato da diventare archetipico? Siamo ancora fermi alla profondità dello sguardo per descrivere l'attrazione sessuale? Pensavo che queste fossero puttanate maschili: almeno io ammetto di guardare per prima cosa in una donna il culo


E in una donna?

La dolcezza.

Splendida risposta, che fa ripiombare la questione femminile in epoca oscurantista antecedente persino alle suffragette. Chissà se, oltre a essere dolce, la donna deve essere anche tenace come lei!


Il suo migliore amico?

L’uomo con cui vivo.

Ho chiesto a mia moglie se io sono il suo migliore amico e mi ha riso in faccia, aggiungendo epiteti non ripetibili. Può un uomo essere il migliore amico di una donna, per di più filosofo? Mai e poi mai. A meno che lo stoicismo - inteso come corrente filosofica - non sia fonte per la donna filosofo (ma solo per lei) di atarassia catastematica per sopportare un uomo che rutta, scoreggia, russa come un mantice, lascia in giro pedalini e mutande sporche, non sa dove trovare le cose che lo guardano in faccia dai ripiani degli armadi e dai cassetti, non sa fare la spesa senza comperare un mucchio di cazzate di cui nessuna casa avrà mai bisogno, non sa nemmeno dove sia la scuola dei figli, passa la sera inchiodato davanti alla televisione almeno per il tempo necessario ad addormentarsi come un tasso e, sulla spiaggia, si trincera dietro alla Gazzetta dello Sport


Il suo principale difetto?

La cocciutaggine.

Ohlalà! (come si direbbe in quella Parigi in cui Marzano vive e lavora): ecco la domanda più rappresentata nelle riviste femminili, a cominciare da quelle per ragazzine prepuberi sino a Cosmopolitan. "La cocciutaggine" è proprio la risposta più frequente: è un difetto, ma fa simpatia, specie se abbinata alla tenacia che, infatti, è stata la prima risposta di Marzano. La donna moderna sa trasformare i vizi in virtù emancipatorie. La variante peggiorativa è "la testardaggine". Esiste poi un'altra possibile risposta a questa domanda, e un po' mi dispiace che Marzano non ci abbia pensato: "Sono troppo sincera", sottintendendo che l'incapacità di mentire la rende una donna troppo sola. E per questo è anche una donna che piange, perché è troppo sensibile. Il che ci porta direttamente alla questione seguente


L’ultima volta che ha pianto?

Un quarto d’ora fa.

Siamo onesti: un bel pianto catartico non esibito ma raccontato fa fine e non impegna. Per cosa piange la donna filosofo? Per le sorti dell'umanità? Per il VHS di "Luci della ribalta" appena rivisto? Per il réportage dello sfruttamento del lavoro minorile in Pakistan? Oppure per la mattanza dei tonni a Carloforte? Nessuno lo sa ma, comunque sia, l'uso sapiente delle lacrime è sempre un'arma invincibile per qualunque donna, filosofo o no


Il giorno più felice della sua vita?

Ogni giorno ha un’ora di felicità.

E se non è filosofia questa...


Autori preferiti?

Hannah Arendt, Cesare Pavese, Eugenio Montale.

Hai capito? Mica Michael Crichton o JK Rowling. Quest'anno sulla spiaggia di Celle Ligure ho visto fior di intellettuali che leggevano "La banalità del male" e "Ossi di seppia". Io che, per parte mia, nella mia vita ho fatto qualche discreta pensata, mi sono fermato a Simenon; in questo momento sto leggendo "Il fidanzamento del Signor Hire", e in comoda traduzione italiana. Io non sono un filosofo: che lo si sappia


Attore e attrice preferiti?

James Cromwell e Meryl Streep.

Quella della Streep è, ovviamente, una scelta obbligata e non mi meraviglierebbe se il filosofo ne apprezzasse la crudeltà espressa in "Il diavolo veste Prada". Mi spiazza invece la scelta di James Cromwell, simpatico caratterista che ha guadagnato una modesta popolarità con il ruolo di Mister Hoggett, il proprietario di "Babe maialino coraggioso": desiderio inespresso di ritorno a valori bucolici? Singolare.
Le sue pari età - o di poco più vecchie - si fermano alla faccia da schiaffi di Brad Pitt, o alle ambiguità di Johnny Depp, per tacer di George Clooney, auspicabilmente gay da ricondizionare


La canzone che fischia più spesso sotto la doccia?

Ne me quitte pas.

Certo. Come no.
Provate a fischiare "Ne me quitte pas", anche non necessariamente sotto la doccia: è impossibile. Nemmeno Juliette Greco sarebbe arrivata a tanto! E' più facile cantare l'Inno alla gioia della IX di Beethoven, magari fischiando una a una le parti orchestrali compreso l'ottavino e il controfagotto. Ma "Ne me quitte pas" è impossibile! E poi... Vi immaginate l'amico-compagno che entra in bagno mentre la compagna è sotto la doccia? Magari la vede in trasparenza e gli viene... l'ispirazione e la sente fischiare "Ne me quitte pas": non vi viene da pensare a Elio e alla sua invocazione alla cubista in "Fossi figo"?...


Il dono di natura che vorrebbe avere?

La pazienza.

Non si era detto che era tenace? La sua allora è una tenacia precox, la sveltina della determinazione morale, la fellatio della caparbietà


Il regalo più bello che abbia mai ricevuto?

Il perdono di un amico.

Dio, questa m'ha fatto impazzire.
Ne ho dedotto che il suo miglior amico - il suo compagno, of course - anziché regalarle quei due carati di diamanti che fanno diventare matte tutte le donne non-filosofo, le regala il ben più economico perdono. Sì, per la spudoratezza esibita nelle interviste


Le colpe che le ispirano maggiore indulgenza?

Pigrizia e golosità.

E questa è l'unica cosa che mi sento di condividere.

Manca, a dire il vero, la domanda che avrebbe sballato tutto: Una battaglia da combattere?, la cui risposta obbligata sarebbe stata, ovviamente, "La pace nel mondo", il che avrebbe assicurato a Marzano un posto fisso alla prossima edizione di Zelig, con Claudiano, al posto di Katia e Valeria

Questa Marzano, sulla cui sincerità ognuno è libero di esprimere il proprio giudizio, fa il paio - quanto ad attendibilità come modello femminile - con la Monica Bellucci di cui abbiamo parlato qualche giorno fa, che ha fatto un figlio a 45 anni perché "ha voluto farlo".
A questo punto proporrei ai redattori di Io donna di lasciar perdere questi modelli impraticabili di femminilità e di passare decisamente ad altro: un'intervista a Rocco Siffredi, per esempio. Uno cioè che le donne le prende per il culo tanto quanto (anzi, di più, se consideriamo che lui lo fa nel senso fisico del termine), ma almeno lo fa con professionalità.

Proponiamo di seguito "Ne me quitte pas" cantata dal suo autore, Jacques Brel, cosicché ognuno possa vedere quanto sia fischiabile la canzone sotto la doccia:



Proponiamo invece adesso "Fossi figo" di Elio e le Storie Tese (con l'amabile partecipazione di Gianni Morandi), a nostro modesto avviso molto più proponibile per la stessa finalità:


venerdì 20 agosto 2010

Il Barba ve la racconta così: l'agosto e il calcio pret-à-porter


Siamo poco oltre Ferragosto e la stagione calcistica è più che avviata.
Si contano più preliminari che nei film di Gabriel Pontello (che non è l'ex presidente della Fiorentina) e sono alle porte due finali che porteranno attenzione mediatica, trofei ufficiali e vagonate di milioni di euro nelle casse di chi alzerà i trofei.
E siamo poco oltre Ferragosto.
A me sta bene, per carità. Sono d'accordo con la Sandrelli per la quale il calcio non è mai sufficiente (che si riferisca all'elemento chimico dal numero atomico venti?!) ma mi rendo conto non sia per tutti 'sta gran festa. lMia moglie, ad esempio, la Sandrelli non la sopporta mica tanto. L'anno scorso poi ha fatto filotto: tutto il Campionato, tutta la Coppa Italia, tutta la Champions League. Una botta di culo che nemmeno al Superenalotto! Se poi ci si aggiunge come numero jolly il Mondiale, il quadro è completo.
Una volta tanto sarò obiettivo.
Ripenso a quando ad agosto non c'era altro che il primo turno di Coppa Italia, trasmesso in sintesi ad orari improponibili nelle notti estive per pochi insonni. Ripenso al fremere nell'attesa di sapere il risultato di Spezia - Inter (visto che si giocava in trasferta il pari andava benone) o di Milan - Varese (che peraltro non era una primizia di coppa), alle Gazzette del giorno dopo nelle quali ci si tuffava come in preda ad un'astinenza troppo lunga.
Penso alla mia maglietta da trentacinquemila lire 100% acrilico, maniche lunghe, usata anche sotto il sole dei mesi più caldi. Era la maglietta ufficiale, e come me pure i miei beniamini bestemmiavano verso il termometro. Altro che microclima o dry fit.
Sarà che l'età era diversa, sarà che nella memoria tutto si scontorna rendendo poetico il ricordo, però a me quel calcio manca.
Fermo restando che se mi trasmettono Entella - Pro Cisterna, su Rai Sport sono in prima fila. Con o senza patatine e birra

di Stefano Barbetta

martedì 17 agosto 2010

Luce


Nella spasmodica ricerca di una meta per sfuggire alla routine casa-spiaggia-casa-spiaggia-casa, oggi mi sono imposto riguadagnando nella gerarchia famigliare quel ruolo che - a regola - non dovrebbe competermi e ho proposto la fantozziana gita fuori porta. Scartate le mete più appetibili come le Cinque Terre (troppo lungo e difficile arrivarci, specialmente in alta stagione) e la Costa Azzurra (perché i francesi ci stanno pur sempre sulle balle), abbiamo optato per un Acqui Terme e Sassello. Quindi, riuniti moglie, figlio e bassotto, e aggregata all'allegra brigata la dolce Lara dagli occhi verdi, siamo partiti via Ovada per la località termale vicina ad Alessandria.

Sarò sintetico sull'aspetto coreografico-paesaggistico: Acqui è la più classica delle cittadine termali, con tanto di Fonte Bollente che eroga acqua in ragione di 560 litri al minuto a 74.5° C; dicono che anticamente vi venivano immersi i bimbi neonati: chi sopravviveva veniva chiamato "Scottato". Su è giù per i saliscendi sono arrivato alla Cattedrale, nel più puro stile ligure (Acqui è sul territorio di confine con la regione delle mie vacanze), e lì mi sono fermato, colpito da un annuncio: il 25 settembre Chiara "Luce" Badano verrà proclamata Beata.
Chi era? Incuriosito mi sono fermato a sfogliare qualche libercolo, dopodiché mi sono attaccato all'iPhone per qualche ragguaglio supplementare, trovando questo sito. Chiara, nata nel 1971, morì nel 1990 per un osteosarcoma metastatico. Il suo grido di battaglia è stato: "Se lo vuoi Tu, Gesù, lo voglio anch'io"; e dicono che molti si siano riaccostati alla fede stando solo in sua presenza.
Ora, credo che sia davvero arduo ai nostri tempi, in un mondo così difficile, proporre un modello di questo genere, tanto più per chi credente non è, o per chi è provato davvero dalle vicende quotidiane e non ha né voglia né tempo di confrontarsi con un modello di questo tipo: abbia tutta la mia laica comprensione. Vado provocatoriamente oltre: si potrebbe quasi obbiettare che è facile essere santi quando non si ha niente di meglio. Chiara Badano, consapevole portatrice di una malattia dall'esito segnato già al momento della diagnosi, è facilmente santa perché la vita non ha nulla di meglio da offrirle.
Il problema è: cosa intendiamo per "meglio"?
La nostra vita quotidiana, fatta di un lavoro che diventa la mèta stessa della nostra esistenza?
Una serie di esigenze di secondo piano (prevalentemente di tipo consumistico) che diventano imprescindibili puntelli del nostro confort?
Gli egoismi e le meschinerie quotidiane che ci fanno vivere i rapporti con chi ci circonda all'insegna della ripicca, della vendetta di basso profilo, dell'attesa fremente del fallimento altrui?
Se queste esigenze sono ciò che noi mettiamo alla voce "meglio", è ovvio che Chiara - anima semplice, innamorata della vita e degli uomini, con una spiccata predilezione per i diseredati - abbia avuto gioco facile nella scelta; e, a onor del vero, c'è da dire che Chiara aveva già scelto la sua strada molto prima di scoprire la malattia che poi se l'è mangiata viva.
Chiara è un'eccezione?
In realtà non so rispondere. I malati con cui mi confronto ogni giorno, persone spesso meravigliose cui voglio bene per il modo stoico e sorridente con cui sopportano guerre con la malattia che qualche volta superano il decennio (ho un esempio particolare in mente), per lo più non hanno la vocazione dei santi, sono assolutamente attaccati ai loro valori terreni senza il bisogno di una trascendenza da cui non si sentono attratti, eppure riescono ad essere degli esempi umani inimitabili anche nella luce di un laicismo che ha una valenza simbolica ricca di verità e calore umano. E, con questa considerazione, la mia domanda si arcua come un infinito punto interrogativo ed è destinata a rimanere senza risposta.

Lungi da me l'idea di trasformare questo blog in una rubrica agiografica. Ma oggi, passeggiando per il meraviglioso entroterra ligure da Acqui sino a quella Sassello che ha visto nascere Chiara, mi sono trovato a riflettere su quelle cosucce che mi piace definire i Massimi Sistemi del Mondo e Oltre. Senza essere manicheo, so che non rinuncerò a nulla di quelle cose che anch'io ritengo indispensabili al mio benessere, perché non sono un santo; e tuttavia, in qualche modo, lo sguardo di Chiara mi ha rasserenato.
Chi l'ha amata, l'ha chiamata con il soprannome "Luce"

venerdì 13 agosto 2010

Il Barba ve la racconta così: l'outlet e il risparmio che non t'aspetti

Il Barba - al secolo Stefano Luigi Barbetta, giornalista sportivo, scrittore ed editore - ha benignamente accettato di collaborare con questo blog in un modo che mi auguro non sporadico. Ho il privilegio di essergli amico da circa 40 anni, per cui posso sembrare di parte, ma amo il suo modo di porgere la frase e spero che lo amerete anche voi, in modo da convincerlo a essere qualcosa di più che un collaboratore occasionale.
Per questo suo primo articolo ha scelto di parlarci a modo suo della gita che ha fatto con moglie Elena e figlia Giulia (il maschio primogenito, Filippo, ha avuto facoltà di non aggregarsi alla comitiva) all'outlet di Serravalle.
Gli lascio la parola: buon divertimento!

Partiti. E sai già che le ore a venire saranno indimenticabili. Il cruscotto segnala una velocità media intorno ai 90 km/h e, mai come in questo viaggio, la destinazione appare più vicina della realtà. I numeri sono un pensiero ricorrente di questa mattinata iniziata ad un orario tutt'altro che estivo. Quelli che hanno studiato la chiamano budgettizzazione delle uscite; i più pratici prefigurano il numero di strisciate su ciascuna carta di credito o bancomat disponibili.
Non si può nemmeno sbagliare strada, visto che le segnalazioni rassicurano i viaggiatori con continui aggiornamenti della decrescente distanza.
L'outlet è un non-luogo. Quando ti si staglia innanzi ti fa capire di essere prossimo a una dimensione spazio temporale posticcia. Pure l'aria sembra diversa, e l'impressione è che dei bocchettoni magistralmente nascosti pompino (accento sulla prima "o", please) sostanze capaci di stimolare la pulsione all'acquisto.
Saggiamente, le aree di parcheggio regalano un biglietto da visita gradito ai maschietti: per chi arriva da Milano una spianata di righe bianche a propria disposizione è la classica oasi nel deserto. Mossa subdola: inizi ad abbassare la guardia.
Varchi la soglia e ti rendo ben presto conto che è l'inizio della fine. Bvlgari, Prada, D&G. Come un cavallo bolso sul quale puntai una fortuna anni fa, dall'improbabile nome Your worst nightmare.
È entusiasmante constatare come, in questo non-luogo, il valore del danaro non segua il verso abituale. Se duecentosessanta euro in qualsiasi angolo del Paese sono una cifra che genera apprensione se associata a un bene surrogabile e superfluo, qui rappresentano un'occasione di spesa irrinunciabile. E tu ti senti messo in mezzo, incapace di reggere lo sguardo di una moglie e di un'addetta alle vendite coalizzate inscindibilmente. Fossero state gemelle non avrebbero avuto lo stesso feeling. E manca poco che una delle due, quella che ti conosce da più tempo, ti butti in faccia quella volta in cui al fantacalcio hai speso oltre cento milioni di euro per Ibrahimovic.
Hai perso. Abbassi lo sguardo abbozzando e giuri a te stesso che quest'anno col cazzo che partecipi, al fantacalcio.
Non c'è high tech, non c'è un'edicola o qualcosa che possa distrarti. Strano che non abbiano schermato lo spazio circostante per isolarti dalla realtà.
Cinque ore. Un dead man walking con un corridoio lungo trecentocinquanta interminabili minuti. E i sacchetti che si moltiplicano, che prendono il posto della piccolina sul passeggino. E la piccolina, anni tre, che essendo donna (benché in fieri) cede volentieri il posto per avere maggiore autonomia nel decidere la direzione da seguire.
Quando la carta di credito emette il triplice fischio comprendi che il turno non l'hai passato, che lo score recita di una sonora batosta.
Metti le borse in macchina (un monovolume sette posti appena sufficiente a contenere i nuovi acquisti) e inizi a pensare al modo in cui porgere ad amici e conoscenti la novità.
I casi sono due: o ti fai compatire o punti alla pandemia.
Sono stronzo: mi sono divertito, ti tirano dietro la roba. Vacci, mi raccomando!

di Stefano Barbetta

giovedì 12 agosto 2010

Vittime


Oggi, a passeggio per Varazze, sono stato fermato da tre signori che mi hanno chiamato:
"Lei è il dottor Bagnoli?"
Ho annuito, incerto: i tre che m'hanno fermato erano sorridenti e cordiali, ma di questi tempi non si può mai sapere il motivo per cui qualcuno ferma un medico. Poi uno dei tre, un uomo ancora giovane con i baffi i cui lineamenti mi dicevano qualcosa, mi ha stretto la mano e mi ha detto:
"Lei ha operato mio cognato, Massimo C. Volevamo ringraziarla ancora per quello che ha fatto per lui"
Massimo! Certo, come dimenticarmelo? Incidente in moto, fegato spaccato, e non solo dal trauma: alcolemia 4.5, con 0.5 ti ritirano la patente. Litigata con anestesista che minacciò la sua partenza (messa in atto, effettivamente, ma con biglietto di ritorno; ma questa è un'altra storia). Una lunga trafila in ospedale, una sfilza d'interventi, la forzata astensione dalla bottiglia e la promessa di tenersene lontano per sempre. Promessa da marinaio, a conti fatti.
Lo rividi la penultima volta in sala operatoria dei chirurghi plastici che dovevano rifinire un risultato non ancora ottimale; ricordo che con l'occasione, a seguito di un sospetto, gli chiesi se aveva ripreso a bere, lui aveva distolto lo sguardo e aveva annuito.
L'ultima volta che lo vidi fu alla fine dell'estate scorsa, e l'alcol aveva vinto: era devastato da un cancro del pancreas e aveva la parola "fine" scritta in faccia. Me lo conferma oggi il cognato:
"E' morto a novembre".
Rimango triste e imbarazzato: me l'aspettavo, ma è sempre triste sentirselo dire.
Lui sorride e ripete:
"Volevamo ringraziarlo per quello che ha fatto per lui". Accanto la moglie e la sorella, quest'ultima la vedova di Massimo, con il bambino ancora piccolo.
Ci salutiamo e ci separiamo; loro si dirigono verso uno dei bagni di Varazze, io proseguo la mia passeggiata con Cristina, Giacomo e il bassotto che strepita contro tutti i cani che incontra.

Massimo.
La cronaca di questi giorni ci porta in casa i racconti di tutti i danni terziari dell'alcol. Quelli cioè non sulla persona che lo assume, ma sui malcapitati che la persona incontra mentre è in preda all'incoscienza dal alcol, che è tale in quel momento ma non nel momento in cui uno beve sapendo che poi si metterà in macchina.
Massimo non fece danni a terzi, quanto meno al momento del trauma (ne fece, eccome, oltre che a se stesso, alla moglie che sopportava silenziosamente e al bambino inconsapevole), ma solo perché era su un motorino che andò ad impastarsi contro a un palo.
Ora non credo che una campagna proibizionista possa improvvisamente moralizzare chi ha deciso di farsi danno: la Storia ci ha insegnato che chi ha voluto fare del proibizionismo una bandiera, ha contribuito solo ad alimentare contrabbando e mercato clandestino. Eppure qualcosa di più si potrebbe fare per evitare quanto meno i danni su terzi, come per esempio i due bimbi gemelli di 10 mesi travolti dal solito pazzo ubriaco fradicio che, se va bene, si prenderà solo un'imputazione per omicidio colposo.
Qualche tempo fa si era parlato di affibbiare l'omicidio volontario a chi ammazza qualcuno essendo alla guida di automezzo con un tasso alcolemico superiore alla media; poi naturalmente i soliti garantisti di merda si sono levati come un solo uomo a tutelare chi fa un danno consapevolmente. Io infatti considero un potenziale assassino consapevole chi si mette al volante dopo aver bevuto: è vero che dopo non è più padrone di se stesso, ma prima di bere lo è eccome, e sa che dopo non lo sarà più.
Oggi ho pensato a Massimo con tristezza e malinconia. Massimo era un ragazzo simpatico, spiritoso, dotato di un ottimo sense of humour che lo portava a scherzare su se stesso, ma che non si è mai liberato di quell'orribile dipendenza da una sostanza psicotropa la cui vendita è legale e che - sono costretto a convenirne con Umberto Veronesi - fa più danni di quella cannabis il cui consumo è invece proibito. E' probabile che per me - quasi astemio (se eccettuiamo uno sporadico bicchierino di grappa o di single malt, che mi gusto con piacere proprio perché occasionale) - sia un discorso anche troppo facile da fare, ma sono davvero stufo di ascoltare queste storie di vittime inutili che non avranno redenzione.
Da una parte e dall'altra

mercoledì 11 agosto 2010

Il concetto di crisi nell'eroismo quotidiano


Cosa mi affascina in Simenon?

Essenzialmente due aspetti:

- l - la capacità di dipingere vicende che hanno per protagonista l’uomo comune alle prese con le proprie crisi

- l- la capacità di spostare con un tratto appena percettibile la prospettiva da cui ci aveva obbligato, sino ad un certo punto, a considerare i suoi personaggi

Per quanto riguarda il primo punto, è qualcosa che si percepisce benissimo anche nelle inchieste di Maigret, il suo personaggio più famoso, quello con cui solitamente si familiarizza al primo approccio con lo scrittore belga. Maigret, uomo comune alle prese con le proprie inquietudini e incertezze, è l’antitesi dei protagonisti dei grandi romanzi hard-boyled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler; ama farsi permeare dall’ambiente in cui è maturato il delitto su cui indaga, in modo da arrivare egli stesso ad esserne parte; indaga sulla vittima più che sull’assassino, la scoperta del quale arriverà in modo inevitabile e talvolta quasi casuale.

Per quanto riguarda il secondo aspetto – che Simenon condivide con un altro grande scrittore, anche se di area geografico-culturale diversa come William Somerset Maugham – è una prospettiva veramente affascinante ma non gratuita. Le mutazioni che portano i personaggi alle rivoluzioni che ne modificano la prospettiva sono, per lo più, delle crisi profonde nelle quali Simenon entra con precisione chirurgica.

Cos’è una crisi?

È la consapevolezza di un disallineamento di noi stessi all’ambiente che ci circonda: famiglia, lavoro, società.

Alla crisi possiamo reagire essenzialmente in due modi: assorbendola all’interno del cuore, del nucleo più profondo di noi stessi; oppure fare in modo che esploda e lasciando che le conseguenze di ciò distruggano tutto ciò che trovano sul loro cammino.

Ne “L’orologiaio di Everton” la crisi coinvolge tre generazioni successive: il nonno e il padre la assorbono, il figlio la fa esplodere in modo dirompente uccidendo un uomo quasi per caso e scatenando su se stesso e la sua fidanzatina una caccia all’uomo non diversa da quella che braccò Bonnie Parker e Clyde Barrow.

Ne “La verità su Bébé Donge” la protagonista, una giovane donna madre di famiglia, benestante, raffinata e apparentemente un po’ svampita versa una generosa dose di arsenico nel bicchiere del marito nel bel mezzo di una festa di famiglia.

Perché lo fanno? Per uscire dagli schemi? Per segnalare al mondo la propria esistenza?

No, lo fanno perché non hanno scelta, perché hanno raggiunto una consapevolezza superiore di se stessi, del loro definitivo distacco da una realtà che non li può più contenere. È una prospettiva affascinante, ricca di implicazioni e tristissima sul futuro di un’umanità dolente che non ha più nessuna possibilità di riscatto se non nella ribellione al conformismo da anime morte in cui chiunque di noi, a vario livello, è calato.

Nella maggior parte dei casi la crisi viene riassorbita da chi la vive: è più semplice e, alla fine dei conti, porta a meno complicazioni per noi stessi e per chi ci circonda. Ma ogni tanto esplode, nonostante tutto e contro tutto, trasformando ciascuno di noi che la vive in un eroe romanzesco, positivo o negativo che sia poco conta. Oppure, forse, eroe è colui che riesce a riassorbire la crisi in sé, evitandone la deflagrazione potenzialmente distruttiva.

Leggere le vicende della quotidianità alla luce di queste considerazioni ci permetterebbe di valutare in modo più pertinente anche alcuni eventi che non avrebbero molte spiegazioni, ma ci obbligherebbe anche ad annusare con attenzione la cocacola che ci viene servita dal(la) consorte sorridente e che siamo abituati a considerare apparentemente felice: non è che dobbiamo aspettarci necessariamente l’arsenico, però…

martedì 10 agosto 2010

O dolci baci o languide carezze...


L’afa che torna lentamente ad installarsi sopra il mio cielo nascosto dagli ulivi.

Il disperato frinire delle cicale impazzite dal caldo.

Mario Cavaradossi che canta il proprio amore pazzo e disperato per Tosca, in attesa nonostante tutto consapevole dell’ultimo inganno di Scarpia.

Il mio MacBook che accoglie con silente, serena sopportazione e in egual misura le mie parole e i miei dischi.

Maigret che fuma Semois nero e forte nella pipa ingrommata sotto la pioggia livida che dilava una Parigi dolente.

Me stesso sbranante una focaccia grondante olio ligure, immortalato e partecipato su Facebook.

La voce che torna lentamente, ma non così la voglia di cantare.

L’iPhone che, col suono tintinnante ed argentino denominato “Rintocco” che tanto mi piaceva sino ad una settimana fa, mi porta pensieri che vorrei accantonare ancora per un po', solo per un po', non chiedo molto, no?...

E non ho amato mai tanto la vita


lunedì 9 agosto 2010

Archetipi di risparmio solo maschile


Nella quiete di un tiepido mattino di un’estate ideale sotto tutti i punti di vista, squilla il mio iPhone: è il mio vecchio amico Barba (al secolo Stefano Barbetta, scrittore ed editore, già noto ai lettori di questo blog) che mi racconta di essere all’outlet di Serravalle, ove è giunto con moglie e parte della prole, la giovane donna a nome Giulia, datasi la situazione che lo scaltro primogenito di sesso maschile a nome Filippo abbia marcato visita.

Ora, voi non lo conoscete da quasi quarant'anni come me, ma io mi figuro il Barba preso nella morsa di due donne: una già in carriera, l’altra in costruzione ma – a suo dire – con già tutte le caratteristiche che ne faranno quella creatura meravigliosa, adorabile, capricciosa e testarda che farà impazzire il mondo maschile. Me lo figuro ampiamente a disagio, pur se – in fondo – abbastanza soddisfatto, anche se non lo ammetterà mai. Il Barba adora le sue donne, ma non è fatto per una cosa del genere: è un uomo nel pieno senso del termine, ragiona da uomo e, quindi, oggi ricopre il ruolo di desperate houseman al servizio della parte femminile della sua famiglia. Tutto ciò sedimenta nella mia anima sensibile e mi porta ad alcune riflessioni che vorrei parteciparvi.

Lasciamo perdere le minchiate di Sophie Kinsella sulla pulsione allo shopping che riguarda soprattutto le donne single; non le consideriamo in questa trattazione non perché non siano interessanti, ma perché il Barba e io siamo sposati, quindi ci interessano le altre donne: le mogli; le madri di famiglia.

La donna come l’intendiamo noi, quella cioè che ha le caratteristiche di essere moglie, o madre di famiglia, o entrambe – e che per semplicità chiameremo proprio “donna” – è attratta come una falena dalle occasioni di risparmio.

Cos’è il risparmio? È un’illusione, un astratto, un non-sequitur. Esiste nella mente della donna, ma non è un valore assoluto. L’uomo lo sa benissimo e tuttavia accetta di assoggettarsi ad esso per la quiete domestica: ecco quindi spiegata la ragione di tutte le giardinette e monovolume incolonnate sulla Milano-Genova al mattino di un giorno feriale. Nessuno regala nulla: questo assioma che vale per ogni vicenda della vita dell’essere umano comune, ha una valenza ancora maggiore se applicato al commercio. I commenti odierni del Barba vanno tutti nella stessa direzione:

“Bello, sì, ma risparmi solo sulle collezioni vecchie…”

“Bello, sì, ma non ci sono le taglie…”

“Elena è dentro da Prada con la bimba; io aspetto fuori…”

Ecco il mondo! direbbe il vecchio Mefistofele a Faust alla ricerca dell’attimo da inquadrare, da poter fermare per dire almeno una volta nella vita: “Arrestati! Sei bello!”, e poi morire, e invece dopo aver strisciato abbondantemente la tua carta di credito tornerai al domicilio con la consapevolezza di non aver fatto gli affari che tua moglie sperava. La quale moglie invece millanterà clamorosamente dicendo: “Niente male, eh? Abbiamo proprio speso bene i nostri soldini” per poi concludere con la frase più tremenda: “Bisogna che ci torniamo con più calma”.

In fondo, il tutto non è diverso dall’Ikea.

Cos’è l’Ikea? È un magazzino di arredamenti di origine svedese, di prezzo relativamente basso e di qualità e gusto discutibili (anche se assai migliorati rispetto al passato).

L’Ikea ti minaccia con i cataloghi che arrivano a domicilio; tu non sai come abbiano il tuo indirizzo, ma loro – analogamente alla vecchia “Selezione” del Reader’s Digest – sanno sempre come raggiungerti.

Tu torni a casa dal lavoro e scopri la metà della tua vita intenta a sfogliare il temutissimo catalogo. Lei è assorta e quasi non risponde al tuo saluto:

“…è arrivato oggi. Sembra interessante”

“Ah…”, rispondi distrattamente.

“Sai – riprende l’altra metà della luna, buttando la considerazione in modo incidentale – Hanno aperto una nuova sede a C. vicino a casa nostra”

“Da non credersi”, rispondi tu dirigendoti verso il frigorifero in cerca del salame da sacrificare al tuo stomaco vuoto, in attesa del contenuto delle pentole che borbottano sul fuoco.

“Potremmo andarci!”, conclude la consorte e, dal momento in cui la frase è detta alla realizzazione dell’evento, il passo è molto più che breve; ed è per questo che ti ritroverai il primo fine settimana utile a girare negli stand in mezzo a circa cinquantamila altre persone. Solo che, a quel punto, si creerà una curiosa dicotomia. Da una parte ci sarai tu che considererai con interesse i mobili laccati, le comode poltrone e, soprattutto, le mitiche librerie componibili ed estensibili ad libitum; dall’altra ci sarà la tua consorte che considererà il tutto con disgusto crescente.

Esempio di dialogo:

“Bella questa libreria! Sembra anche resistente!”

“…”

“E questa poltrona? Parliamone!”

“Certo! Qualunque cosa serva per appoggiarci il tuo grasso culo per te va sempre bene!”.

Non rinuncio e vado avanti; sono decisamente più entusiasta di lei:

“Guarda che bello! Un arredamento completo per uno spazio ristretto. Per una seconda casa andrebbe benissimo”

“Io non sbatto via i miei soldi. E poi non abbiamo una seconda casa”

Veramente abbiamo il buco al mare e glielo faccio notare, ma non mi considera nemmeno. Tocco una cucina di legno, molto carina:

“Guarda! È bella e costa poco!”

“E allora? Non ci serve”

Allargo le braccia sconsolato:

“E allora cosa ci siamo venuti a fare?”

“Certo! Fosse per te, te ne staresti sempre su quel cavolo di computer. Mai che mi accompagni a vedere qualcosa!”

Dopo di che la signora decide che deve acquistare qualcosa per giustificare l’uscita e compra un po’ di candele “carinissime e profumatissime”. Poi, uscendo, dice in modo tranchant:

“Andare in questi posti è solo una grande perdita di tempo. Troppo dispersivi”.

Poi soggiunge:

“Ho visto un sacco di belle cosine. Bisogna che ci torniamo con calma”, e sono soprattutto le ultime due parole a terrorizzarmi, perché non c’è niente di peggio al mondo di una donna determinata a fare le cose con calma.

L’Ikea è fatta per uomini soli. Ma l’Ikea, con il suo carico non sostenibile di risparmio, è un pensiero lontano. Attualmente la preoccupazione maggiore è il mercatino sulla spiaggia, un’altra icona del risparmio. Lei mi guarda con commiserazione:

“Potresti andarci. Ci sono un sacco di short da bagno e tu ne hai bisogno. Col tuo peso, i tuoi li hai sfondati tutti. E poi è un bel risparmio”

Io mi trincero ancora di più nella lettura del mio libro di Simenon, per cui lei sbuffa e si allontana.

La vedo tornare dopo un po’, incazzata nera. Decido di tastare il terreno:

“Allora? Trovato qualcosa?”

Lei mi guarda torva; i suoi occhi mandano scintille:

“Quello stronzo! Mi ha detto che non potevo provare i vestiti con su la crema! Erano tutti bagnati perché le altre zoccole li provavano dopo il bagno!”

“Ah – rispondo – E tu che hai fatto?”

“L’ho mandato a cagare”

“Testualmente?”

Non mi risponde nemmeno e si volta furiosa verso il mare ribollente.

Il risparmio a casa mia è un’ipotesi di lavoro impraticabile


sabato 7 agosto 2010

Modelli praticabili di femminilità


Il sabato il “Corriere della sera” propone in vendita obbligata col quotidiano la rivista “Io donna”: ebdomadario dalle pagine patinate, dai contenuti glamour e vagamente gossip piuttosto raffinati destinati – come suggerisce il nome – ad un pubblico femminile. La prima pagina del numero che ho avuto fra le mani esibisce nientemeno che Monica Bellucci.

La Diva, col musetto atteggiato a broncio sensuale, si concede al pubblico in estasi raccontando della sua seconda recente maternità (a 45 anni!) dicendo all’intervistatore: “L’ho voluto fare, e l’ho fatto”. Così, semplicemente.

Proseguendo nella lettura dell’intervista apprendo anche quanto segue:

- oltre alla pargola recentemente partorita – immagino senza scompigliare nemmeno la coiffure della mamma – e cui è stato imposto nome Leonie (in onore dell’attrice Arletty, mica cotica), esiste un’altra bimba di nome Deva, di 6 anni di età ma naturalmente già molto brava e responsabile

- il marito della Diva, il regista francese Vincent Cassel, è un mammo perfetto che si alterna con lei nella gestione della prole; nell’articolo non è specificato, ma non escluderei che lui stesso provveda all’allattamento naturale della neonata

- tutte possono avere un bambino a 45 anni, basta volerlo: è stato così anche per Isabelle Huppert, altro esempio di comune attrice cui tutte le donne possono tranquillamente ispirarsi

- il sesso, ormai liberato dall’ansia di procreazione (sic!), può essere vissuto senza più patemi. Nessuno ha fatto notare alla Diva che, per la maggior parte delle donne di 45 anni, si dà proprio il problema contrario, e cioè l’ansia da rischio di procreazione, costringendo a cercare l’anticoncezionale che non ingrassi, che non gonfi le gambe e che non alzi la pressione

Adesso non vorrei passare per uno squallido e manicheo moralista: adoro Monica Bellucci, per me una delle poche, pochissime icone della carnalità allo stato puro. L’avevo amata alla follia sin dalla sua performance in un film di poche pretese come “I mitici – Colpo gobbo a Milano” in cui vestiva i panni della pupa di una banda di squinternati: ricordo ancora la mano di Claudio Amendola (o forse Ricky Memphis?) appoggiata sul suo meraviglioso, poeticissimo fondoschiena fasciato da un paio di jeans attillati mentre lei si gira urlando con greve accento umbro: “Che me stai a scippà ‘r culo?”: deliziosa. Ma forse la performance più straordinaria era quella di un film di cui non ricordo il titolo, in cui lei è una mignotta di cui s’innamora un omarino sfigatissimo e cui lei si concede per compassione sulle note de “Madre pietosa Vergine” della verdiana Forza del destino; in questo film per me splendido c’è una scena in cui lei sta male, l’omarino chiama il dottore che arriva, la fa spogliare e muore d’infarto al cospetto di lei nuda.

Ecco: questa è Monica Bellucci: una vamp, una Diva, la moglie di un regista francese, la madre di due bambine che si chiamano Deva e Leonie (mica Martina e Giuseppina, pardon: Josephine!) che vengono allattate dal padre, una che scopa serenamente perché non ha più l’ansia di procreare.

Siamo onesti: è un modello di femminilità praticabile per una lettrice di “Io donna”? Non so, una qualunque sua coetanea che magari, pur non ancora completamente disfatta dal peso di tre o quattro figli con cui ha esaurito già da un bel po’ di anni la sua ansia procreativa, deve fare la guerra quotidiana con: lavoro indispensabile per arrivare a fine mese, e non quindi superfluo gadget di un’esistenza gaia e spensierata, specie se consideriamo che non stiamo parlando di Eleonora Duse o Sarah Bernhardt; marito che sta fuori tutto il giorno e che magari, con un valore aggiunto di fancazzismo domestico, la sera di tutto ha voglia fuorché star dietro ai figli; suoceri oppressivi; impegni scolastici-sportivo-socio-culturali dei figli; un’oretta di tempo ogni 2-3 giorni da ritagliarsi per andare in palestra e cercare di sembrare non dico come la Bellucci, ma almeno diversa dalla lavatrice dell’angolo est della cucina.

Adesso, per carità: nessuno si aspetta che una Diva si comporti come una donna normale. Farebbe ridere. Monica Bellucci, strafiga se mai se n’è vista una, che vive recitando probabilmente anche in mentre partorisce figlie dai nomi strani o mentre si prepara (ammesso e non concesso) un uovo al tegamino, non può non tirarsela da qui all’infinito: essere Diva per lei non è più un atteggiamento, è ormai uno status, una forma mentis: quanto lontano, quindi, da quella Deborah che nel già citato film di Vanzina ciacolava ancora in dialetto perugino!

Viene il sospetto che, in realtà, il settimanale “Io donna” sia diretto ad un lettore maschile che, cercandovi i canoni della Femminilità Assoluta, si ispiri alla Bellucci per fare in modo che la propria compagna di vita possa diventare, quanto meno nel proprio pensiero, anche dopo tanti anni passati insieme, qualcosa del genere: perché in ogni donna meravigliosa madre, splendida amante che – dopo tanti anni di convivenza – conosce tutti i trucchi per portarci ancora fuori di testa, grande pianificatrice delle nostre energie dissipate, profondamente ricca di comprensione per le nostre debolezze, c’è una Diva sdraiata languidamente che aspetta solo di essere risvegliata dal nostro desiderio.

E pazienza se è su un divano Ikea e non una chaise-longue Le Courboisier.



Dedicato a tutte le donne che sono Dive senza rendersene conto: