- come lettore che compra un giornale ho il diritto di fare il contraddittorio a ciò che leggo
- chi scrive qualche cosa si può aspettare che qualcuno sia contrario a ciò che dice
- la formula del blog permette a chi non fosse d'accordo di dirlo sulle mie stesse pagine
domenica 22 agosto 2010
Io canto l'opera sotto la doccia e ho un carattere di merda!
sabato 21 agosto 2010
Una battaglia da combattere
Proponiamo invece adesso "Fossi figo" di Elio e le Storie Tese (con l'amabile partecipazione di Gianni Morandi), a nostro modesto avviso molto più proponibile per la stessa finalità:
venerdì 20 agosto 2010
Il Barba ve la racconta così: l'agosto e il calcio pret-à-porter
martedì 17 agosto 2010
Luce
venerdì 13 agosto 2010
Il Barba ve la racconta così: l'outlet e il risparmio che non t'aspetti
giovedì 12 agosto 2010
Vittime
mercoledì 11 agosto 2010
Il concetto di crisi nell'eroismo quotidiano
Cosa mi affascina in Simenon?
Essenzialmente due aspetti:
- l - la capacità di dipingere vicende che hanno per protagonista l’uomo comune alle prese con le proprie crisi
- l- la capacità di spostare con un tratto appena percettibile la prospettiva da cui ci aveva obbligato, sino ad un certo punto, a considerare i suoi personaggi
Per quanto riguarda il primo punto, è qualcosa che si percepisce benissimo anche nelle inchieste di Maigret, il suo personaggio più famoso, quello con cui solitamente si familiarizza al primo approccio con lo scrittore belga. Maigret, uomo comune alle prese con le proprie inquietudini e incertezze, è l’antitesi dei protagonisti dei grandi romanzi hard-boyled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler; ama farsi permeare dall’ambiente in cui è maturato il delitto su cui indaga, in modo da arrivare egli stesso ad esserne parte; indaga sulla vittima più che sull’assassino, la scoperta del quale arriverà in modo inevitabile e talvolta quasi casuale.
Per quanto riguarda il secondo aspetto – che Simenon condivide con un altro grande scrittore, anche se di area geografico-culturale diversa come William Somerset Maugham – è una prospettiva veramente affascinante ma non gratuita. Le mutazioni che portano i personaggi alle rivoluzioni che ne modificano la prospettiva sono, per lo più, delle crisi profonde nelle quali Simenon entra con precisione chirurgica.
Cos’è una crisi?
È la consapevolezza di un disallineamento di noi stessi all’ambiente che ci circonda: famiglia, lavoro, società.
Alla crisi possiamo reagire essenzialmente in due modi: assorbendola all’interno del cuore, del nucleo più profondo di noi stessi; oppure fare in modo che esploda e lasciando che le conseguenze di ciò distruggano tutto ciò che trovano sul loro cammino.
Ne “L’orologiaio di Everton” la crisi coinvolge tre generazioni successive: il nonno e il padre la assorbono, il figlio la fa esplodere in modo dirompente uccidendo un uomo quasi per caso e scatenando su se stesso e la sua fidanzatina una caccia all’uomo non diversa da quella che braccò Bonnie Parker e Clyde Barrow.
Ne “La verità su Bébé Donge” la protagonista, una giovane donna madre di famiglia, benestante, raffinata e apparentemente un po’ svampita versa una generosa dose di arsenico nel bicchiere del marito nel bel mezzo di una festa di famiglia.
Perché lo fanno? Per uscire dagli schemi? Per segnalare al mondo la propria esistenza?
No, lo fanno perché non hanno scelta, perché hanno raggiunto una consapevolezza superiore di se stessi, del loro definitivo distacco da una realtà che non li può più contenere. È una prospettiva affascinante, ricca di implicazioni e tristissima sul futuro di un’umanità dolente che non ha più nessuna possibilità di riscatto se non nella ribellione al conformismo da anime morte in cui chiunque di noi, a vario livello, è calato.
Nella maggior parte dei casi la crisi viene riassorbita da chi la vive: è più semplice e, alla fine dei conti, porta a meno complicazioni per noi stessi e per chi ci circonda. Ma ogni tanto esplode, nonostante tutto e contro tutto, trasformando ciascuno di noi che la vive in un eroe romanzesco, positivo o negativo che sia poco conta. Oppure, forse, eroe è colui che riesce a riassorbire la crisi in sé, evitandone la deflagrazione potenzialmente distruttiva.
Leggere le vicende della quotidianità alla luce di queste considerazioni ci permetterebbe di valutare in modo più pertinente anche alcuni eventi che non avrebbero molte spiegazioni, ma ci obbligherebbe anche ad annusare con attenzione la cocacola che ci viene servita dal(la) consorte sorridente e che siamo abituati a considerare apparentemente felice: non è che dobbiamo aspettarci necessariamente l’arsenico, però…
martedì 10 agosto 2010
O dolci baci o languide carezze...
L’afa che torna lentamente ad installarsi sopra il mio cielo nascosto dagli ulivi.
Il disperato frinire delle cicale impazzite dal caldo.
Mario Cavaradossi che canta il proprio amore pazzo e disperato per Tosca, in attesa nonostante tutto consapevole dell’ultimo inganno di Scarpia.
Il mio MacBook che accoglie con silente, serena sopportazione e in egual misura le mie parole e i miei dischi.
Maigret che fuma Semois nero e forte nella pipa ingrommata sotto la pioggia livida che dilava una Parigi dolente.
Me stesso sbranante una focaccia grondante olio ligure, immortalato e partecipato su Facebook.
La voce che torna lentamente, ma non così la voglia di cantare.
L’iPhone che, col suono tintinnante ed argentino denominato “Rintocco” che tanto mi piaceva sino ad una settimana fa, mi porta pensieri che vorrei accantonare ancora per un po', solo per un po', non chiedo molto, no?...
E non ho amato mai tanto la vita
lunedì 9 agosto 2010
Archetipi di risparmio solo maschile
Nella quiete di un tiepido mattino di un’estate ideale sotto tutti i punti di vista, squilla il mio iPhone: è il mio vecchio amico Barba (al secolo Stefano Barbetta, scrittore ed editore, già noto ai lettori di questo blog) che mi racconta di essere all’outlet di Serravalle, ove è giunto con moglie e parte della prole, la giovane donna a nome Giulia, datasi la situazione che lo scaltro primogenito di sesso maschile a nome Filippo abbia marcato visita.
Ora, voi non lo conoscete da quasi quarant'anni come me, ma io mi figuro il Barba preso nella morsa di due donne: una già in carriera, l’altra in costruzione ma – a suo dire – con già tutte le caratteristiche che ne faranno quella creatura meravigliosa, adorabile, capricciosa e testarda che farà impazzire il mondo maschile. Me lo figuro ampiamente a disagio, pur se – in fondo – abbastanza soddisfatto, anche se non lo ammetterà mai. Il Barba adora le sue donne, ma non è fatto per una cosa del genere: è un uomo nel pieno senso del termine, ragiona da uomo e, quindi, oggi ricopre il ruolo di desperate houseman al servizio della parte femminile della sua famiglia. Tutto ciò sedimenta nella mia anima sensibile e mi porta ad alcune riflessioni che vorrei parteciparvi.
Lasciamo perdere le minchiate di Sophie Kinsella sulla pulsione allo shopping che riguarda soprattutto le donne single; non le consideriamo in questa trattazione non perché non siano interessanti, ma perché il Barba e io siamo sposati, quindi ci interessano le altre donne: le mogli; le madri di famiglia.
La donna come l’intendiamo noi, quella cioè che ha le caratteristiche di essere moglie, o madre di famiglia, o entrambe – e che per semplicità chiameremo proprio “donna” – è attratta come una falena dalle occasioni di risparmio.
Cos’è il risparmio? È un’illusione, un astratto, un non-sequitur. Esiste nella mente della donna, ma non è un valore assoluto. L’uomo lo sa benissimo e tuttavia accetta di assoggettarsi ad esso per la quiete domestica: ecco quindi spiegata la ragione di tutte le giardinette e monovolume incolonnate sulla Milano-Genova al mattino di un giorno feriale. Nessuno regala nulla: questo assioma che vale per ogni vicenda della vita dell’essere umano comune, ha una valenza ancora maggiore se applicato al commercio. I commenti odierni del Barba vanno tutti nella stessa direzione:
“Bello, sì, ma risparmi solo sulle collezioni vecchie…”
“Bello, sì, ma non ci sono le taglie…”
“Elena è dentro da Prada con la bimba; io aspetto fuori…”
Ecco il mondo! direbbe il vecchio Mefistofele a Faust alla ricerca dell’attimo da inquadrare, da poter fermare per dire almeno una volta nella vita: “Arrestati! Sei bello!”, e poi morire, e invece dopo aver strisciato abbondantemente la tua carta di credito tornerai al domicilio con la consapevolezza di non aver fatto gli affari che tua moglie sperava. La quale moglie invece millanterà clamorosamente dicendo: “Niente male, eh? Abbiamo proprio speso bene i nostri soldini” per poi concludere con la frase più tremenda: “Bisogna che ci torniamo con più calma”.
In fondo, il tutto non è diverso dall’Ikea.
Cos’è l’Ikea? È un magazzino di arredamenti di origine svedese, di prezzo relativamente basso e di qualità e gusto discutibili (anche se assai migliorati rispetto al passato).
L’Ikea ti minaccia con i cataloghi che arrivano a domicilio; tu non sai come abbiano il tuo indirizzo, ma loro – analogamente alla vecchia “Selezione” del Reader’s Digest – sanno sempre come raggiungerti.
Tu torni a casa dal lavoro e scopri la metà della tua vita intenta a sfogliare il temutissimo catalogo. Lei è assorta e quasi non risponde al tuo saluto:
“…è arrivato oggi. Sembra interessante”
“Ah…”, rispondi distrattamente.
“Sai – riprende l’altra metà della luna, buttando la considerazione in modo incidentale – Hanno aperto una nuova sede a C. vicino a casa nostra”
“Da non credersi”, rispondi tu dirigendoti verso il frigorifero in cerca del salame da sacrificare al tuo stomaco vuoto, in attesa del contenuto delle pentole che borbottano sul fuoco.
“Potremmo andarci!”, conclude la consorte e, dal momento in cui la frase è detta alla realizzazione dell’evento, il passo è molto più che breve; ed è per questo che ti ritroverai il primo fine settimana utile a girare negli stand in mezzo a circa cinquantamila altre persone. Solo che, a quel punto, si creerà una curiosa dicotomia. Da una parte ci sarai tu che considererai con interesse i mobili laccati, le comode poltrone e, soprattutto, le mitiche librerie componibili ed estensibili ad libitum; dall’altra ci sarà la tua consorte che considererà il tutto con disgusto crescente.
Esempio di dialogo:
“Bella questa libreria! Sembra anche resistente!”
“…”
“E questa poltrona? Parliamone!”
“Certo! Qualunque cosa serva per appoggiarci il tuo grasso culo per te va sempre bene!”.
Non rinuncio e vado avanti; sono decisamente più entusiasta di lei:
“Guarda che bello! Un arredamento completo per uno spazio ristretto. Per una seconda casa andrebbe benissimo”
“Io non sbatto via i miei soldi. E poi non abbiamo una seconda casa”
Veramente abbiamo il buco al mare e glielo faccio notare, ma non mi considera nemmeno. Tocco una cucina di legno, molto carina:
“Guarda! È bella e costa poco!”
“E allora? Non ci serve”
Allargo le braccia sconsolato:
“E allora cosa ci siamo venuti a fare?”
“Certo! Fosse per te, te ne staresti sempre su quel cavolo di computer. Mai che mi accompagni a vedere qualcosa!”
Dopo di che la signora decide che deve acquistare qualcosa per giustificare l’uscita e compra un po’ di candele “carinissime e profumatissime”. Poi, uscendo, dice in modo tranchant:
“Andare in questi posti è solo una grande perdita di tempo. Troppo dispersivi”.
Poi soggiunge:
“Ho visto un sacco di belle cosine. Bisogna che ci torniamo con calma”, e sono soprattutto le ultime due parole a terrorizzarmi, perché non c’è niente di peggio al mondo di una donna determinata a fare le cose con calma.
L’Ikea è fatta per uomini soli. Ma l’Ikea, con il suo carico non sostenibile di risparmio, è un pensiero lontano. Attualmente la preoccupazione maggiore è il mercatino sulla spiaggia, un’altra icona del risparmio. Lei mi guarda con commiserazione:
“Potresti andarci. Ci sono un sacco di short da bagno e tu ne hai bisogno. Col tuo peso, i tuoi li hai sfondati tutti. E poi è un bel risparmio”
Io mi trincero ancora di più nella lettura del mio libro di Simenon, per cui lei sbuffa e si allontana.
La vedo tornare dopo un po’, incazzata nera. Decido di tastare il terreno:
“Allora? Trovato qualcosa?”
Lei mi guarda torva; i suoi occhi mandano scintille:
“Quello stronzo! Mi ha detto che non potevo provare i vestiti con su la crema! Erano tutti bagnati perché le altre zoccole li provavano dopo il bagno!”
“Ah – rispondo – E tu che hai fatto?”
“L’ho mandato a cagare”
“Testualmente?”
Non mi risponde nemmeno e si volta furiosa verso il mare ribollente.
Il risparmio a casa mia è un’ipotesi di lavoro impraticabile
sabato 7 agosto 2010
Modelli praticabili di femminilità
Il sabato il “Corriere della sera” propone in vendita obbligata col quotidiano la rivista “Io donna”: ebdomadario dalle pagine patinate, dai contenuti glamour e vagamente gossip piuttosto raffinati destinati – come suggerisce il nome – ad un pubblico femminile. La prima pagina del numero che ho avuto fra le mani esibisce nientemeno che Monica Bellucci.
La Diva, col musetto atteggiato a broncio sensuale, si concede al pubblico in estasi raccontando della sua seconda recente maternità (a 45 anni!) dicendo all’intervistatore: “L’ho voluto fare, e l’ho fatto”. Così, semplicemente.
Proseguendo nella lettura dell’intervista apprendo anche quanto segue:
- oltre alla pargola recentemente partorita – immagino senza scompigliare nemmeno la coiffure della mamma – e cui è stato imposto nome Leonie (in onore dell’attrice Arletty, mica cotica), esiste un’altra bimba di nome Deva, di 6 anni di età ma naturalmente già molto brava e responsabile
- il marito della Diva, il regista francese Vincent Cassel, è un mammo perfetto che si alterna con lei nella gestione della prole; nell’articolo non è specificato, ma non escluderei che lui stesso provveda all’allattamento naturale della neonata
- tutte possono avere un bambino a 45 anni, basta volerlo: è stato così anche per Isabelle Huppert, altro esempio di comune attrice cui tutte le donne possono tranquillamente ispirarsi
- il sesso, ormai liberato dall’ansia di procreazione (sic!), può essere vissuto senza più patemi. Nessuno ha fatto notare alla Diva che, per la maggior parte delle donne di 45 anni, si dà proprio il problema contrario, e cioè l’ansia da rischio di procreazione, costringendo a cercare l’anticoncezionale che non ingrassi, che non gonfi le gambe e che non alzi la pressione
Adesso non vorrei passare per uno squallido e manicheo moralista: adoro Monica Bellucci, per me una delle poche, pochissime icone della carnalità allo stato puro. L’avevo amata alla follia sin dalla sua performance in un film di poche pretese come “I mitici – Colpo gobbo a Milano” in cui vestiva i panni della pupa di una banda di squinternati: ricordo ancora la mano di Claudio Amendola (o forse Ricky Memphis?) appoggiata sul suo meraviglioso, poeticissimo fondoschiena fasciato da un paio di jeans attillati mentre lei si gira urlando con greve accento umbro: “Che me stai a scippà ‘r culo?”: deliziosa. Ma forse la performance più straordinaria era quella di un film di cui non ricordo il titolo, in cui lei è una mignotta di cui s’innamora un omarino sfigatissimo e cui lei si concede per compassione sulle note de “Madre pietosa Vergine” della verdiana Forza del destino; in questo film per me splendido c’è una scena in cui lei sta male, l’omarino chiama il dottore che arriva, la fa spogliare e muore d’infarto al cospetto di lei nuda.
Ecco: questa è Monica Bellucci: una vamp, una Diva, la moglie di un regista francese, la madre di due bambine che si chiamano Deva e Leonie (mica Martina e Giuseppina, pardon: Josephine!) che vengono allattate dal padre, una che scopa serenamente perché non ha più l’ansia di procreare.
Siamo onesti: è un modello di femminilità praticabile per una lettrice di “Io donna”? Non so, una qualunque sua coetanea che magari, pur non ancora completamente disfatta dal peso di tre o quattro figli con cui ha esaurito già da un bel po’ di anni la sua ansia procreativa, deve fare la guerra quotidiana con: lavoro indispensabile per arrivare a fine mese, e non quindi superfluo gadget di un’esistenza gaia e spensierata, specie se consideriamo che non stiamo parlando di Eleonora Duse o Sarah Bernhardt; marito che sta fuori tutto il giorno e che magari, con un valore aggiunto di fancazzismo domestico, la sera di tutto ha voglia fuorché star dietro ai figli; suoceri oppressivi; impegni scolastici-sportivo-socio-culturali dei figli; un’oretta di tempo ogni 2-3 giorni da ritagliarsi per andare in palestra e cercare di sembrare non dico come la Bellucci, ma almeno diversa dalla lavatrice dell’angolo est della cucina.
Adesso, per carità: nessuno si aspetta che una Diva si comporti come una donna normale. Farebbe ridere. Monica Bellucci, strafiga se mai se n’è vista una, che vive recitando probabilmente anche in mentre partorisce figlie dai nomi strani o mentre si prepara (ammesso e non concesso) un uovo al tegamino, non può non tirarsela da qui all’infinito: essere Diva per lei non è più un atteggiamento, è ormai uno status, una forma mentis: quanto lontano, quindi, da quella Deborah che nel già citato film di Vanzina ciacolava ancora in dialetto perugino!
Viene il sospetto che, in realtà, il settimanale “Io donna” sia diretto ad un lettore maschile che, cercandovi i canoni della Femminilità Assoluta, si ispiri alla Bellucci per fare in modo che la propria compagna di vita possa diventare, quanto meno nel proprio pensiero, anche dopo tanti anni passati insieme, qualcosa del genere: perché in ogni donna meravigliosa madre, splendida amante che – dopo tanti anni di convivenza – conosce tutti i trucchi per portarci ancora fuori di testa, grande pianificatrice delle nostre energie dissipate, profondamente ricca di comprensione per le nostre debolezze, c’è una Diva sdraiata languidamente che aspetta solo di essere risvegliata dal nostro desiderio.
E pazienza se è su un divano Ikea e non una chaise-longue Le Courboisier.
Dedicato a tutte le donne che sono Dive senza rendersene conto: