mercoledì 28 luglio 2010

Essere perno

L’idea del perno è quella di qualcosa intorno a cui gira tutto.

Ogni tanto a tutti quanti noi capita di essere “perno”: è normale, no?

Se – come capita nel mio caso – sei un po’ avanti negli anni e gli altri sono più giovani di te, è ovvio che ti riversino problemi di vario genere grado sperando che tu li risolva, o che comunque tu dia indicazioni per trovare la strada giusta.

Se sei un medico – sempre come si dà nel mio caso – è normale che i pazienti aspettino da te la parola definitiva, quella che tolga tutti i dubbi e le preoccupazioni.

Pazienza se tu stesso non hai le idee chiare, o se la medicina – oltre a non essere esatta – forse non è nemmeno una scienza. Parole di Karl Popper, mica cotica.

Pazienza se tutte queste cose accadono preferibilmente prima delle vacanze, quando sei stanco morto, quando tutti gli altri “perni” sono a loro volta in qualche posto esotico.

Pazienza se hai già spiegato le cose a dodici persone di una stessa famiglia che, evidentemente, negano con la loro stessa esistenza il Principio di Comunicazione fra Congiunti: arriverà comunque il tredicesimo elemento che, sentendosi escluso, cercherà di avere l’esclusiva della spiegazione e chiederà di te. O meglio: non di te come tale, ma come “perno”.

E che dire poi dei colleghi più giovani?

Si dà il caso di una dottoressa che ha dieci anni meno di me e che mi riversa addosso una situazione mal gestita. Io individuo un paio di possibilità di cui vorrei farle carico, non perché lei abbia la colpa della mal gestione, ma perché lei ha il tutoraggio della paziente e perché io l’indomani non ci sarò.

Risposta della dottoressa: “Nemmeno io”.

E se ne va, lasciandomi leggermente allibito.

Il ruolo del perno è difficile e per lo più ingrato.

Molte volte non lo richiedi: ti viene cucito addosso. Non è difficile: basta usare una frase come quella coniata dal mio Primario che sorride sotto i baffi, mi appoggia la mano sulla spalla e mi dice: “Pietrone, ci pensi tu?...”

Ma soprattutto il ruolo del perno è stancante, e tanto.

Le soddisfazioni, se pure, sono scarse; e, soprattutto, sono ingannevoli: la tua idea di essere un problem solver è strettamente correlata a quello che gli altri vogliono che tu sia. La tua investitura a perno ingenera nel tuo prossimo l’idea che tu sia disponibile sempre e comunque a risolvere qualunque genere di problema. Alla fine è una gran rottura di scatole, e basta.

È in momenti come questi che desidero starmene per i cavoli miei, a leggere, scrivere e ascoltare musica. Come oggi, putacaso.

E bere caffè, che così poi non dormo.

E a sognare di fumare quel toscanello al caffè che l’altro giorno mi ha fumato in faccia RR, nel suo studio


domenica 18 luglio 2010

Con quella faccia un po' così

Primo mare oggi, per me.

L'aria è calda, il sole è caldo, persino il mare è caldo. Mi cospargo di crema solare a fattore di protezione 30 (quella dei bambini, insomma) le molli carni opime e corrotte da ore e ore passate sotto la luce artificiale delle lampade scialitiche. La spiaggia dei Bagni Lido di Celle Ligure mi accoglie con tutto il suo carico di morchiosa ed indolente prevedibilità; penso alla mia amica Antonella che giovedì prossimo partirà per l'India con solo uno zaino in spalla e mi rendo conto di quanto io sia tragicamente più pigro di lei, sdraiato sotto l'ombrellone a muto colloquio con il mio iPhone.

Intorno a me, e più pigramente di me, si muovono campioni di varia umanità; fra di essi fanno capolino anche fantasmi di un passato lontano come – incredibile dictu – XYZ, pediatra di quella parte della provincia che la mia nonna Nella buonanima avrebbe chiamato "busina".

XYZ! Santa pace, erano vent'anni che non lo vedevo e Dio solo sa quanto poco ne sentissi la mancanza! Lo osservo con attenzione: da quel pomposo imbecille che è, sta con i piedi in acqua e le mani sui fianchi, nella posa dell'autentico maschio da spiaggia, con la generosa virilità contenuta a malapena da un paio di short molto aderenti che io non potrei permettermi nemmeno nell'arco di dieci vite, circondato da una piccola folla di oche starnazzanti in calore, una delle quali so essere la momentanea e provvisoria titolare ufficiale dell'attributo.
Lo guardo con un accenno d'invidia: al suo paragone faccio ridere. Non potrei immaginare contrasto maggiore fra la mia trippa bianca per la cronica assenza di sole e l'emulsione anti ustione, e la sua pelle abbronzata che copre muscoli guizzanti. I suoi capelli sale e pepe fanno piacevole contrasto con l'abbronzatura, mentre la mia pelata riluce pallida al sole.
Eppure basta sentirlo parlare per far passare in me ogni residuo d'invidia per la sua fisicità, per il suo sorriso ebete e plastificato che probabilmente si pone ogni mattina sulla bocca come un lipstick, come un qualunque stereotipo. E' un medico, XYZ, di quelli cui piace sentirsi al centro dell'attenzione con domande sulla salute. La sua specializzazione - la pediatria - lo predispone a circondarsi di mammine in fregola giustificando così il grazioso soprannome dell'autostrada Milano-Genova-Ventimiglia: "Strada dei Cornuti".

Decido che ne ho abbastanza di lui e passo oltre. La parte buona della spiaggia e' dietro di me, verso sinistra.

Mi ci dirigo senza indugio.

Luciano.
Vecchio coriaceo ligure del capoluogo, di Genova profonda, della parte di Sampierdarena, si fa vedere ai Bagni Lido solitamente il sabato e la domenica, e solo di mattino. La pelle e' cotta dal sole e contrasta col bianco dei capelli ancora folti, del sorriso e con l'oro della catena che porta al collo. Luciano ha avuto una vita intensa in giro per il mondo, ma Genova gli è rimasta attaccata al cuore ed e' una costante di tutti quelli che vengono da questa strana città, se considerate che mio zio Gino, dopo oltre 50 anni vissuti in America, ha voluto essere seppellito a Staglieno...

Gli sono simpatico. Quando arrivo al mattino in spiaggia - lui e' già li - il rito prevede la consumazione del caffè al bar; poi torniamo al suo ombrellone, lui si accende un mezzo sigaro e ce la contiamo su.

Amo molto il suo modo sereno e disincantato di vedere la vita; la sua calata genovese, puntualmente intervallata da numerosi "Belin" di puntualizzazione, e' morbida e ha un sapore vagamente levantino che, col caldo torrido di stamane, ci sta a meraviglia.

Gli domando di Genova. Ho in mente lo zio Gino e il suo estremo desiderio di riposare a Staglieno dopo tutta la vita passata al di là dell'Oceano e ancora non riesco a capacitarmi di questa bramosia di tornare sulla Calate dei Vecchi Moli, in quell'aria spessa, carica di sale, gonfia di odori. Lui è stato due anni a San Francisco: mi conferma che anche lui ha patito la saudade.

“Luciano, cosa c'è in questa città che vi chiama, che vi lega a sé?”

Lui si gratta la testa, perplesso; sembra a disagio per la mia domanda:

“Belìn, non lo so – risponde – Sarà il mare”

Eh no, Luciano! Non puoi rispondermi così, come un qualsiasi Pasquale Cafiero col mandolino in una mano e la pizza nell'altra, che canta “Chist'è 'o paese d'o sole”!

L'Italia – Dio la strafulmini – è circondata per tre quarti dal mare e, se fosse colpa del Mediterraneo, tutti gli emigranti nostalgici dovrebbero tornare a casa fra quattro assi e non ci sarebbe terra a sufficienza per accoglierne le spoglie.

Seguo il filo dei miei pensieri e aggiungo:

“Ti dirò, Luciano, che questa storia me la ripete sino all'ossessione anche Nadia, col suo cazzo di mare di Bari, col polpo crudo e sempre quel mare che domina tutto e tutti, e ogni volta che la ascolto in sala operatoria o che leggo le sue litanie levantine su Facebook, mi sembra di aver di fronte l'agente letterario di Gianrico Carofiglio. Nel suo libro 'Né qui né altrove' c'è uno sfigato di barese che torna da Chicago alla sua città natale e dice che laggiù in America l'acqua ce l'ha, quella del lago Michigan, ma gli manca il puzzo del suo mare. Il puzzo! Ma ci pensi? Ma non è che noi italiani quando andiamo all'estero viviamo di luoghi comuni?...”

Luciano tira una boccata dal suo mezzo Mood, poi me lo punta contro e sorride:

“Belìn, io non so cosa sia. Tu me lo chiedi e io non so darti una risposta. Io so solo che a San Francisco avevo il pensiero fisso di tornare qui, e sono tornato. Hai girato per la città? Per i caruggi?”

Faccio cenno di sì. Lui riprende:

“E t'è piaciuta?”

“Sì, molto, e non so perché”

“Quella è la città, quella è Genova. Quando cammini per i caruggi non devi guardare per terra, dove c'è la merda. Devi camminare con il naso per alto. Fra le lenzuola stese e i muri stretti ci vedi il cielo azzurro”.

Guardo il suo sorriso franco e disarmante e ripenso per un attimo fugace a Nadia; anche lei ha nostalgia di una fetta di cielo azzurro fra le lenzuola stese?

Lo zio Gino, pellegrino nel mondo per sessant'anni della sua lunga vita, riposa felice a Staglieno.

Con quella faccia un po' così


mercoledì 14 luglio 2010

Come un ponte sulle acque agitate


Oggi Luigia - che poi sarebbe LA di un mio vecchio post - ha lasciato il reparto dopo qualche mese di degenza.
Stamattina sono arrivato molto presto in ospedale.
Dopo un rapido caffè alla buvette sono andato in auditorium a presentare le mie idee su un argomento di chirurgia del trauma, e cioè la Damage Control Surgery, la chirurgia di controllo del danno, quella che io considero un ponte sulle acque agitate, qualcosa che ho usato su molti pazienti e anche su Luigia.
Poi, prima di andare in sala, sono passato a salutarla.
E' piccola di statura, Luigia, come le sue belle figlie; ma è un donnino d'acciaio, ed è passata attraverso tante sventure che avrebbero ucciso uomini molti più grossi e robusti di lei. Lei era lì nel suo letto C, nella stanza 14 che l'ha ospitata da fine maggio, quando è tornata giù dalla Terapia Intensiva dove tutti, medici e infermieri, l'hanno coccolata e amata. L'ho guardata, le ho preso la mano, l'ho baciata ed abbracciata, lei m'ha guardato con quel suo sguardo così severo e un accenno di sorriso e poi m'ha detto una sola parola: "Grazie".
Ho rivisto tutta la storia che ho condiviso con questa splendida donna, da quella domenica 28 febbraio che ci siamo incontrati sino ad oggi.
Le corse in sala rossa a cercare di capire da dove stia uscendo la sua vita, con Marcello Vadalà che nel mio ricordo riassume in sé tutti gli infermieri del nostro grandissimo PS.
Le ore di angoscia in sala operatoria, con il sangue che allaga tutto e che non vuole restare nelle sue vene aperte.
La voce petulante - ma che mi sembra più forte di quella della Callas e più bella di quella della Tebaldi - di Stefania Brusa che ci chiama alla vita e ci tiene uniti nella corsa pazza contro la morte e il silenzio di Jana Balazova, che invece fa tutto senza parlare.
Martin D'Elia che è un razzo nell'allestire la sala con Cristina Badaracco.
Guido Giusti che mi dice "Fanculo al rene, cavaglielo" mentre ho un attimo d'indecisione perché non riesco a riparare quella maledetta vena stracciata, e Alessandra Melis preoccupata.
Stefania Cantoni che la tiene viva durante la notte e Laura Rocchi che per prima la vede sveglia, vigile e comincia a credere alla sua sopravvivenza.
E poi: le complicazioni, gli innumerevoli interventi (persino uno di notte in Rianimazione per emorragia, perché la sala operatoria è occupata, e la opero lì al suo letto come si faceva una volta), Fabio Baticci che mi dice di tener duro anche nei momenti in cui lo sconforto sembra sopraffarmi, la VAC cambiata ogni giorno, la fistola tracheo-esofagea e Luigia che mi sussurra in un grido afono: "Basta", e io che vorrei accontentarla e lasciarla andare ma ancora una volta Fabio e Vittorio Gavazzeni mi si mettono di traverso e mi obbligano a tener duro, insistere, perché la Vita deve sempre vincere, nonostante tutto.

Oggi guardo questo donnino d'acciaio che ha vinto la sua personalissima battaglia per la vita e mi metto a piangere senza particolare ritegno mentre la tengo per mano.
Ci guardiamo: sappiamo che le nostre rispettive vite in qualche modo sono rimaste segnate da un incontro casuale (e casuale lo fu davvero: quel 28 febbraio non dovevo essere io il Capoturno) che ha portato le nostre orbite a contatto, per un momento nell'eternità dell'Universo.
Ci rivedremo ancora: la partita non è conclusa e c'è ancora molta strada da fare.
Ma Luigia mi sorride serena perché sa che, quando ci saranno lacrime nei suoi occhi, sarò ancora pronto ad asciugargliele.
Come un ponte sulle acque agitate io mi stenderò


martedì 13 luglio 2010

Un uomo tranquillo


Se conosco un uomo tranquillo, quello è Leonardo Casale, in arte Leo. Decido di andarlo a trovare perché stasera mastico la mia solitudine continuando a fischiettare vecchie canzoni di Billie Holiday fra cui, ovviamente, "The man I love" e "Solitude".

Leo.
Lo conosco da dieci anni, da quando cioè abito a Melegnano. All'epoca lui aveva una pizzeria da asporto in via Dezza, ed era sempre piena come un uovo; attualmente il suo negozio di una volta vivacchia come bottega di kebab - peraltro pregevole - e ci vanno quattro gatti, il che la dice lunga su come Leo sapesse fare andare le cose.
Leo è un personaggio singolare. Laureato in giuriscprudenza, ha fatto l'accademia militare diventando tenente dei Carabinieri per poi decidere - strada facendo - che non era la sua strada. E' stato quindi Leo del deserto, in Algeria, a posare condutture per la SNAM. Ha messo su famiglia con Vita, mettendo al mondo tre splendide ragazze: Stefania, Laura e Francesca. E finalmente si è dedicato alla cucina, la sua vera passione, la meta della parte creativa della sua esistenza.
Leo non è un pizzaiolo, è un uomo tranquillo applicato alla cucina.
Figlio di Taurasi, località di quell'Irpinia che cresce in mezzo ai vitigni di Fiano e Falanghina (che a regola non sarebbe esattamente di Avellino, ma del beneventano), eredita dalla sua terra creatività, gusto per sapori decisi come quello del salame del pezzente (presidio Slow Food) e più miti ma antichi, come quello del purè di fave.
Ama sperimentare, Leo. Nel bugigattolo della sua pizzeria d'asporto di una volta fa la focaccia di Recco più buona di quella originale (e io di focacce me ne intendo) e la pastiera napoletana rivisitata da lui, secondo i suggerimenti delle vecchie signore del suo paese. Vende quintali di pizze alla gente che fa la fila in strada, ma medita di fare piatti di spaghetti al sugo di pesce al cartoccio da consumare come lunch per i frettolosi impiegati che si ingozzano di porcherie.
E finalmente il suo ristorante che chiama, manco a dirlo, "Taurasi", come il suo paese. Gli scettici gli ridono dietro: il ristorante è nascosto ed è passato più volte di mano. Si dice anche che porti sfortuna e molti preconizzano una fine precoce. Il risultato è che se non ci si prenota con qualche giorno di anticipo non si ha nessuna possibilità di trovare un tavolo libero.
Stasera il mio umore mutevole mi porta lì. Ho telefonato prima e ho trovato un tavolo libero, che Vita mi riserva. Al mio arrico Leo mi bacia e mi abbraccia: è sinceramente contento di vederti, andare da lui dà sempre la sensazione di essere un ospite gradito.
Ordino una selezione di salumi - eccellente - e la sua pizza. La lista in verità presenta tante cose, molte delle quali presidi Slow Food, un sacco di pesce freschissimo e cucinato con sapienza, ma la sua pizza è un must: la cura maniacale nella scelta delle materie prime, la sapiente lievitazione della pasta, la cottura perfetta - non troppo croccante, soavemente morbida - fanno di questa pizza un prodotto eccezionale, che sa di antico, che rimanda a Mergellina e Zi' Teresa, almeno quella di una volta.
Mi sporgo dal mio tavolo a spiare Leo che impasta: gli occhialini da presbite appoggiati sul naso, i baffoni, il gesto antico e sapiente; tutta la sua allure denuncia in lui l'uomo tranquillo che ha raggiunto lo scopo della sua esistenza: rendere felice il proprio prossimo.
La sua presenza, il suo gesto, il suo sorriso, la sua voce acuta mi mettono di buon umore e mi tranquillizzano l'anima in tumulto: avevo bisogno di essere coccolato dopo l'ennesima giornata vissuta solo contro tutti.
Penso al dolce che sceglierò stasera ma non arriverò a finire la pizza.
Abbraccio Vita e Leo e ritorno lentamente verso casa.

La voce roca di Billie mi fa ancora compagnia nella mia testa.
Il caldo appiccicoso è quasi palpabile, ma è una presenza intorno a me che sembra voler sottolineare la mia solitudine e me lo gusto.
Se fumassi ancora, sarebbe una sera adattissima

venerdì 2 luglio 2010

Treni

Dopo vent'anni ho ripreso un treno.
Si trattava di una tratta breve, da Bologna e Imola, per andare a trovare un amico, ma tanto bastava per darmi un po' di angoscia e di desiderio di essere altrove.
Il caso poi ha voluto che fosse anche una bella giornata critica, da bollino nero: tutta la gioventù del capoluogo emiliano che si riversa sulla costa adriatica, in cerca di divertimento a buon mercato e di un po' di refrigerio dal calore bollente che il sole impazzito riversa sull'asfalto.
L'androne della stazione centrale rigurgita di gente: code chilometriche davanti alle biglietterie e alle numerose macchinette che garantiscono semplicità d'esecuzione e velocità. Effettivamente i ragazzi scelgono di gran lunga quest'ultima soluzione e muovono le dita a velocità supersonica sul touch screen, come se fosse lo schermo del loro iPod o iPhone, o qualunque altra cosa che inizi per "i".
Erano vent'anni che non mettevo piede in una stazione, quando facevo avanti e indietro dalla caserma le volte che non potevo disporre della macchina che, all'epoca, era ancora in comune con mio fratello Stefano; e vent'anni fa l'odore era lo stesso di oggi: sudore, disinfettante da quattro soldi, fumo di sigarette, profumi dolciastri che si mescolano con l'afrore dei corpi madidi, ansiosi, stanchi. Chi arriva alla stazione non è mai rilassato: si prende il treno per scappare da una vita difficile, di lavoro al caldo, di pochi soldi, per cercare una vacanza a buon mercato e di pronto consumo; oppure per tornare a casa.
Faccio il mio biglietto, mi immetto nella fiumana di gente che è diretta in massa al binario 9, quello dove fermerà il treno diretto ad Ancona, il sogno della riviera romagnola a portata di mano di tutti. Sul binario c'è tutta l'umanità di cui mi ero dimenticato: quattro hippie fuori tempo massimo sono seduti per terra in cerchio e si tengono per mano, manca solo che si passino una canna e poi il revival sarebbe perfetto; due militari in mimetica con zaino enorme sulle spalle stanno tornando a casa per una "breve"; un improbabile professionista in gessato blu scuro ostenta bracciali e orologio d'oro o simil tale che lo fanno piuttosto assomigliare al magnaccia che forse in realtà è; un vecchietto sdentato con un buffo cappelluccio di paglia biascica un toscanello spento e ha lo sguardo perso nel vuoto; accanto a lui, una vecchietta fa le parole crociate. Giovani passano avanti e indietro, esponendo in eguale misura tette di marmo e muscoli palestrati; le ascelle puzzano alla stessa maniera.
Arriva il treno e ci si buttano sopra come su una metropolitana; il capostazione passa a pigiarli dentro, sono sulla tradotta della Strada della Felicità a buon mercato.
Non prenderò quel treno: non ci sto e, in fondo, nemmeno ci tengo. Prenderò quello dopo, diretto a Ravenna: transita anch'esso per Imola ma attraverso strade diverse, più tranquille, lontane dai grossi circuiti delle vacanze.
Una ragazza pallida, emaciata, con le vene in rilievo sugli avambracci scoperti mi passa accanto, mi stende la mano e mi chiede cinquanta centesimi per mangiare. Cazzo, dovevo tornare in una stazione per riscoprire gli ultimi tossici!...
Salgo sul treno: nessun vacanziero, solo qualche esemplare di varia umanità che coltiva la propria solitudine in un muto colloquio con la tastiera di un cellulare.
Guardo fuori dal finestrino sporco e grigio la campagna ancora assolata dagli ultimi raggi del tardo tramonto estivo e il mio cuore batte al ritmo del lento sferragliare dell'accelerato.
Il treno si ferma in tutte le stazioni di una campagna sonnolenta.
Il mio cellulare questa sera tace

giovedì 1 luglio 2010

Bologna at night


Bologna assolata, bollente, sembra spalmata su quel piattume che è l'estensione della pianura padana.
Ci arrivo di sera, dopo una giornata di tensioni in sala operatoria; e, in aggiunta alla mia stanchezza, devo girare come un pazzo intorno a viale dell'Indipendenza per trovare l'ingresso in via Galliera, perché l'Amministrazione Comunale ha invertito tutti i sensi unici senza avvisare il mio navigatore.
La mia camera all'Hotel Internazionale e' bellissima, il clima interno e' quello giusto, il letto sarebbe sovrabbondante anche se ci fosse accanto a me Fran Fullenwider, la cicciosissima e burrosa protagonista di "Una sera c'incontrammo", vecchio film tratto da un sapidissimo libriccino di Vaime (se lo trovate ancora s'intitolava "Amare significa") che sbertucciava parola per parola il lagnosissimo "Love story".
Tutto bello, tutto giusto, ma sono preso dalla solita angoscia sottile che mi assale sempre in una camera d'albergo, per bella che possa essere (e questa lo e' davvero): la sensazione di provvisorietà, di essere sempre in bilico fra realtà ed illusione, l'idea di solitudine che si fa palpabile.
In più ho tanti pensieri per la testa: alcuni sono tipici di questo periodo, altri sono tipicamente miei, altri infine sono maturati durante il viaggio e aspetto con un minimo di ansia il momento di chiarirmeli.
La sera ho voglia di tortellini. Girello per il centro di Bologna accostandomi a ristoranti e trattorie. Tutti sui cartelli esposti fuori, nei porticati, promettono pasta rigorosamente fatta in casa; ma ci sarà da fidarsi, o sarà roba surgelata per turisti americani? Non saprei come decidere, quindi mi faccio guidare dall'olfatto ed entro nella "Trattoria del biassanot", il mangia-notte, figura di nottambulo perdigiorno tipicamente felsinea immortalata dal grande Dino Sarti. Mi siedo a tavola, mi affido alla "reggitora" (la zdora), la offendo chiedendole spudoratamente se la pasta sia veramente fatta in casa, attendo che faccia il broncio di rito e le chiedo che sui tortellini che mi ha garantiti artigianali ci sia generoso ragù e forma. La zdora non batte ciglio - il cliente ha sempre ragione - mentre gli amici di Feisbuk cui partecipo la foto del piatto si scatenano in una ridda di considerazioni a sfondo gastro-filologico che mi fanno sorridere e non mi scompongono minimamente la pettinatura: il piatto e' buonissimo e il suo sapore, deciso e quasi violento nel ragù le cui asperità vengono ora esaltate dalla ruvidezza della pasta, ora ammorbidite dalla spolverata di parmigiano, mi riporta con struggente malinconia ai profumi mai dimenticati del sugo che la nonna Mariuccia preparava la domenica.
E' mentre sto sollevando la bocca dal fiero pasto, forbendola dal sugo del piatto ch'io avea in lungo e in largo guasto, mentre mi godo la piacevole sensazione di sazietà, è proprio in quel momento che a me, novello Conte Ugolino della Gherardesca, arriva la telefonata che stavo aspettando da qualche ora. Da un lato mi consola e mi da sorridere, dall'altro mi fa riflettere una volta di più sugli strani scherzi di un destino burlone e beffardo. Alzo gli occhi al cielo, scuoto la testa e penso che il Conte Ugolino di buona memoria invece di mangiare l'arcivescovo, avrebbe dovuto tirargli una buona testata in fronte, argomentazione che gradisco molto in questo periodo.
E più non penso, perché la serata e' calda, languida e stranamente silenziosa. La gioventù bolognese si aggira per le vie quasi intimidita dalla morbida sensualità che promana dai portici, dagli androni, dai cortili nascosti. E forse non c'è abituata, questa gioventù smarrita, e non sa cosa si perde a negarsi la gioia di un'atmosfera. Gli unici che sembrano aver capito questa strana sera sono tre o quattro ragazzi nordafricani, di dubbia provenienza; due di essi sono accucciati e hanno in testa un berretto che, ai miei occhi, assomiglia tanto alla kippah ebraica, ma decido di non farglielo notare. Sono fermi, quasi inscritti nell'architettura dei porticati pigri ed indolenti.
Rientro in albergo, saluto la concierge e mi informo sull'orario del breakfast mattutino. Mi sorride e mi chiede se voglio la sveglia, ricevendone un garbato diniego.
Non sa che non ne ho bisogno.
Io, l'insonne.