sabato 28 febbraio 2009

Behind the lines


Cedendo alle insistenze di un'amica che me lo raccomandava, mi sono sentito indotto ad acquistare il libro "La solitudine dei numeri primi", di Paolo Giordano, Ed. Mondadori.
Il libro, che ha vinto il Premio Strega, narra delle vicende di Alice e Mattia, seguiti da quando sono bambini sino all'età adulta. Le loro esistenze, indipendenti l'una dall'altra, si incroceranno fuggevolmente nel corso degli anni sino al momento cruciale, nell'età adulta. Il plot narrativo, già di per se stesso piuttosto lugubre, si svolge in una Torino plumbea, vuota e silenziosa, che sembra voler assorbire in sé le angosce esistenziali dei due protagonisti e dei pochi personaggi collaterali che compaiono sporadicamente e che, inutili ai fini della narrazione, scompaiono senza nessun rimpianto.

Chi sono Alice e Mattia?
A prima lettura due bambini speciali, ma in realtà "speciale" - in senso stretto - lo è solo Mattia, dei due nettamente il più interessante anche da un punto di vista narrativo, forse anche perché l'autore è un Fisico: bambino superdotato, con una sorellina disabile che scompare per colpa sua, diventa un genio trasandato e disallineato al mondo reale.
Alice non è così interessante: bambina vessata dal padre che ne vuol ricavare una campionessa, da adolescente si ammala di anoressia in modo reattivo; ed anoressica rimane anche in quell'età adulta che lei non accetta, tanto da rifugiarsi in quell'unico rapporto adolescenziale che le ha dato un barlume di felicità.
Al loro fianco alcuni personaggi minori: genitori infelici e che non capiscono, per lo più silenziosi; una ragazza ricca, Viola, che fa di Alice adolescente uno sfogo per le proprie frustrazioni; Denis, un amico gay (poteva mancare?...) di Mattia che, dopo un inizio promettente per gli sviluppi umani, scompare, ricompare improvvisamente a metà libro per essere protagonista di una sordida fellatio con un partner occasionale nel cesso di un bar e poi riscomparire, questa volta definitivamente.
Non narro come finisce, a beneficio di coloro che desiderassero cimentarsi con la lettura, ma si può già capire fra le righe.

Che cosa ci vuole raccontare Giordano?
Non si capisce bene.
La lettura è pesante e difficile, ad onta di uno stile chiaro e lineare, talvolta anche troppo, sulla scia del (falsamente) disimpegnato Federico Moccia.
Le tematiche forti ci sono tutte: l'incomunicabilità dell'adolescenza prima e dell'età adulta poi, l'anoressia, il confine - spesso sottile - fra disabilità e genio, l'omosessualità; manca solo il matrimonio dei preti. Non tutte, però, sono trattate con lo stesso impegno, anzi: si ha quasi l'idea che per la foga di dire troppo, l'autore finisca per essere complessivamente superficiale.
Trovo personalmente irritante il didascalismo con cui vengono trattate le situazioni e i personaggi: la ragazza ricca è automaticamente anche stronza, il papà è l'algido professionista che non sa né vuole parlare con la famiglia, il genio della matematica non è capace di affrontare le questioni pratiche di tutti i giorni, e così via.
A fronte di ciò, l'unica vera idea che rende meritevole di lettura questo libro non memorabile, è il ribaltamento della prospettiva di quell'attrazione fra le solitudini, che aveva generato quintali di letteratura per lo più post-romantica. L'idea giordaniana è: la solitudine vera, quella alimentata da un'angoscia esistenziale strutturata, dura tutta la vita ed è inattaccabile.
Posso dirlo sommessamente? Che palle!
Ripenso con nostalgia alle risate convulse che mi scatenò "Il bastardo primordiale" di Tom Sharpe e penso malignamente che scrivere cose come "La solitudine dei numeri primi", in paragone, non dovrebbe costare molta fatica.
Qualche drammaturgo famoso del secolo scorso, non ricordo più chi, si rivolse ad un amico e collega chiedendogli a cosa si stesse dedicando in quel momento. La risposta fu: "Una tragedia".
"Ah! - rispose il drammaturgo - Ti stai riposando, eh?"

Istantanee


Non s'è ancora risolto, purtroppo, il battage mediatico che circonda la morte di Eluana Englaro. Adesso è il turno della Giustizia che reclama il proprio tributo di sangue sotto forma di indagini per omicidio volontario aggravato ai danni di medici (e te pareva, come si direbbe a Roma e zone limitrofe), padre Beppino e membri dell' "Associazione per Eluana". A margine di ciò, quasi per par
condicio, il Ministro del Welfare Maurizio Sacconi ha ricevuto il secondo avviso di garanzia per violenza privata, in relazione all'atto di indirizzo emanato per la vicenda di Eluana allo scopo di bloccare l'attuazione della sentenza della Cassazione. Infine, c'è la questione delle foto che il fotogiornalista Federico Bruni ha scattato ad Eluana il giorno prima della morte: è di queste che desidero parlare oggi, perché la loro presenza silenziosa va oltre al semplice problema se pubblicarle o no.

Fermo restando che la vicenda, per come si è svolta, denota una volta di più l'impreparazione dello Stato italiano ad affrontare qualsiasi vicenda che abbia a che fare con problematiche di area genericamente sanitaria, c'è in più l'appropriazione indebita del fronte politico che ritiene di poter dire tutto e il contrario di tutto, senza nessun ritegno.
Avevo già scritto altrove su un altro articolo che non è possibile che si continui a procedere a tentoni su materie così delicate; che non è possibile che la decisione su un caso come quello di Eluana sia stata presa da una Corte di Cassazione che ha emanato una sentenza che, come spesso capita, in mancanza di meglio "farà Giurisprudenza" (come si dice sempre in queste circostanze); e che non è possibile che i politici si schierino dall'una o dall'altra parte, come Angeli della Morte o Paladini della Vita a seconda della tendenza politica. Ma tant'è: in mancanza di meglio, va bene anche la Cassazione, e lo dico con l'amara consapevolezza del medico che sa benissimo che una Giurisprudenza chiara e precisa in materia sanitaria non esiste; e non lo dico io, ma un Giudice di cui non ricordo il nome, che era venuto nell'Istituto in cui lavoro a spiattellarci nuda e cruda questa imbarazzante verità.
Adesso è il turno delle foto, quelle foto che Beppino Englaro aveva fatto scattare alla figlia forse con il proposito di dimostrare anche a Berlusconi che la figlia non era proprio così "bella" come gli avevano raccontato, e che probabilmente - che ben ne dicesse il premier - non sarebbe nemmeno mai potuta diventare madre.
Ora, magari mi sbaglio (e in fondo lo spero), ma ho la strana sensazione che ci sia un desiderio quasi morboso di vedere come fosse ridotta il giorno prima della sua morte questa donna che, per averla vista nelle foto di prima della tragedia, tutti immaginiamo come una ragazza splendida e sorridente. E, in fondo, c'è qualcosa di osceno eppure terribilmente umano in questa curiosità, che è la stessa che guida più o meno inconsapevolmente l'uomo, di qualunque estrazione socio-culturale esso sia, a cercare di sollevare il velo che copre tutto ciò che è disfatto, corrotto, distrutto. L'Istituto per cui lavoro organizza ogni anno una giornata di "Ospedale aperto" in cui chiunque può curiosare negli angoli più riposti. Da sempre, la visita più gettonata è quella alle sale operatorie, nell'immaginario collettivo luogo quasi mistico in cui si consuma uno strano rito in cui il medico si riveste quasi come se fosse un sacerdote; e ricordo il brivido quasi palpabile che colpì i fortunati visitatori del blocco operatorio che si trovarono a tu per tu con i "lavori in corso" nella sala 4, ove io e il mio amico e collega Carlo stavamo operando un'urgenza. Si trattò evidentemente di un errore organizzativo: il paziente trasportato fuori dalla sala con quattro drenaggi ed un sondino, oltre che le tracce del recente intervento, e i visitatori affamati di quel sangue che già vedevano scorrere a fiumi in serial televisivi tipo "ER", non si sarebbero mai dovuti incontrare. Eppure ricordo le espressioni quasi soddisfatte dei partecipanti a questo spettacolo, probabilmente consapevoli di aver potuto assistere a qualcosa di forte, in modo non dissimile a coloro che, in macchina, rallentano sin quasi a fermarsi quando vedono un incidente sulla corsia opposta e sperano, forse consapevolmente, di poter vedere il morto.
Le istantanee diventano quindi ai nostri occhi un mezzo espressivo in più, un tramite per la più piena comprensione di un evento che ci sfugge e che desidereremmo dominare meglio. L'alibi è quello che la miglior conoscenza ci permetterà di giudicare meglio, ma la foga mediatica, gli assembramenti davanti alla clinica di Udine non diversi da quelli fuori dalle prigioni americane di Huntsville o di Starke prima di un'esecuzione ci raccontano un'altra storia

lunedì 23 febbraio 2009

Casi quasi umani


Vengo a sapere che oggi un concorrente del Grande Fratello (non chiedetemi quale: focalizzo - per ovvi motivi - solo la tettona di cui peraltro ignoro il nome) è stato buttato fuori dalla trasmissione per essersi esposto nudo alle telecamere.
Devo dire di non essere particolarmente scandalizzato: la trasmissione non è più unica nel suo genere, essendo stata affiancata da decine di altri spettacoli (?) analoghi, anche della TV di Stato, quella cioè per cui paghiamo il canone; e a certe nefandezze ormai dovremmo esserci abituati. Ciò che invece mi lascia ancora di stucco è il ricorso sistematico a questi mezzucci pur di apparire; di fare, cioè, la figura di quello che Gianluca Nicoletti chiamava i "casi quasi umani", vale a dire una variante peggiorativa dei "casi umani" che comparivano in altre trasmissioni. L'ho già narrato sul mio sito, ma ricordo che in una selezione di partecipanti al GF si presentò un ragazzo che alla fatidica domanda: "Perché dovremmo prendere te?" rispose: "Perché so scoreggiare meglio di Fedro", alludendo al personaggio che più aveva caratterizzato la trasmissione dell'anno precedente; le cronache non tramandano se abbia anche dato prova del proprio talento alla commissione di selezione.
Eppure c'è qualcosa di laido in questo modo di apparire, di tentare disperatamente la carta di una segnalazione purchessia, anche solo per apparire più laidi di quanto già si sia, alla ricerca di una visibilità che potrà portare l'esponente (nel senso di "colui che espone") su un qualsiasi palcoscenico televisivo, magari in guisa di tronista, tanto i caratteri sessuali primari sono già stati esposti, quindi si è già a metà dell'opera.
A Sanremo hanno cantato, poco o male a questo punto non ha importanza; sul reality, l'umanità è ad uno stadio ancora più primordiale ed è forse questo aspetto che affascina ancora gli spettatori

domenica 22 febbraio 2009

Carta canta



Ieri sera si è conclusa una delle migliori edizioni degli ultimi anni del Festival di Sanremo, una manifestazione ormai del tutto inutile soprattutto al fine della vendita di dischi, come acclarato dai ripetuti insuccessi in tal senso. Tributati tutti gli onori del caso a Paolo Bonolis e alla sua squadra – in testa, ovviamente, l’eterna spalla Luca Laurenti, ma anche Maria De Filippi che ieri sera si è amabilmente prestata a fare la valletta – rimane da riflettere sulla vera ragion d’essere del Festival, e cioè canzoni e cantanti. E qui cominciano i problemi.
Ieri sera ha vinto, come abbondantemente previsto alla vigilia, il piccolo Marco Carta, bambolotto sardo dal sorriso ebete plastificato, piombato sul Ponente ligure dal palinsesto concorrente di “Amici”. Chi è costui? È un ragazzotto supponente che l’anno scorso ha vinto l’oscena trasmissione di Maria De Filippi dimostrando forse non il talento più cristallino, ma riuscendo comunque ad essere, senza particolare sforzo, il più odioso di un gruppo di per se stesso molto ben caratterizzato su questo fronte. Oggi come allora, lo hanno trascinato gli sms dei teenagers che, evidentemente e misteriosamente, si riconoscono in questo piccolo putto talmente stereotipato in tutto da sembrare creato sul pc di uno dei produttori. La canzone, di un’idiozia zuccherosa agghiacciante, pare fatta apposta per trionfare sul palcoscenico dell’Ariston; e, in ciò, riesce a distinguersi dagli altri brani, nel bene come nel male.
Nel bene rispetto al brano di Povia che monta su una musica clonata da quella di Cristicchi di un paio d’anni fa una storia spacciata per vera, ma che sembra presa dai “Segreti di Brokeback Mountain”.
Nel male rispetto alla ben altrimenti simpatica canzone di Arisa, personaggio curioso e spiritosamente vintage che, nonostante ciò, porta una ventata di novità sullo stantio palcoscenico ligure.
Nessuno di costoro corre il rischio di scalzare dal piedistallo i veri mostri sacri della vera canzone italiana che non nasce più a Sanremo da anni; eppure si ha comunque la sensazione che questo Festival, pur ben condotto, abbia sancito la fine di un’epoca. Vedere per la millesima volta Al Bano, Iva Zanicchi, Fausto Leali e Patti Pravo, questi ultimi due alle prese con vistosi problemi di intonazione; vedere il patetico ed invecchiatissimo Marco Masini ricorrere al solito turpiloquio per condire una canzone che era già stata proposta anni fa da Mino Reitano buonanima; vedere la mercificazione più bieca di quella che una volta fu un’Arte, ma quasi mai su questo palcoscenico, è qualcosa che fa riflettere e desiderare un ricambio generazionale.
E allora pensi che sì, forse non è difficile prevedere la vittoria di un piccolo presuntuosetto come Marco Carta. Un brano talmente idiofono da pensare che è inevitabile la sua vittoria, ma che andrà ad arricchire quella bacheca in cui già ci stanno personaggi della razza dei Jalisse, che non hanno venduto nemmeno un disco; o di Tiziana Rivale, che si è ricreata solo a contatto con Paolo Limiti. Il che, a pensarci bene, è tutto dire

sabato 21 febbraio 2009

Bocca della verità


Leggo oggi su "L'Espresso": "Prendo atto: gli elettori italiani, anche con la crisi economica, non sanno cosa farsene del riformismo democratico. Vogliono uno Stato con meno leggi che distribuisca più ricchezza".
Chi dispensa queste perle di saggezza non è, come sembrerebbe ad una prima lettura, l'erede di Lapalice: è solo il buon vecchio Giorgio Bocca, mattatore dello storico ebdomadario di Sinistra, che tenta di dare una spiegazione al fallimento del progetto PD. Lo fa, ovviamente, a modo suo: e cioè con il livore che gli è tipico dell'intellettuale che non accetta (e forse nemmeno capisce) le decisioni elettorali. Infatti commenta con il solito aplomb da finisseur: "Il popolo è sovrano, anche nel far puttanate".
Ecco: mi sembra che in questa ostinatezza nel voler scaricare sugli elettori il proprio fallimento e la malaugurata e prevaricante vittoria altrui, ci stiano proprio le ragioni della situazione attuale della Sinistra, che ha portato alle dimissioni un personaggio come Veltroni che, inizialmente, sembrava propenso ad una più profonda comprensione. Finché la Sinistra non si sbarazzerà di quell'atteggiamento dalemiano che tende ad una sedicente oligarchia culturale veterocomunista; finché non si sforzerà di capire le ragioni di quel popolo che pretende di rappresentare; finché nonsmetterà di fare dell'antiberlusconismo un fine ultimo, bensì un punto di partenza; allora, sino a quel momento, non ci sarà spazio per una sinistra.
Chi sembra aver capito qualcosa di più sulla situazione attuale è il politologo francese Marc Lazar, autore de "L'Italia sul filo del rasoio, la democrazia nel paese di Berlusconi" (Rizzoli) che - sempre su "L'Espresso", la sintetizza in 5 punti:
  1. Leadership: la base non capisce le ragioni della guerra Veltroni-D'Alema
  2. Strategia: il PD non ha scelto fra linea dura o responsabile
  3. Alleanze: a sinistra o al centro?
  4. Identità: cos'è il PD?
  5. Sociologia dell'elettorato
E' soprattutto quest'ultimo punto ad essere interessante, perché tocca quella parte di elettorato che, negli ultimi anni, ha espresso quelle oscillazioni che Bocca - che non le capisce - chiama "puttanate". Tant'è vero che Lazar, molto acutamente, identifica un "ritardo di comprensione di cosa sia il berlusconismo. Si è creduto che riguardasse solo la persona, invece dietro c'è un'omogeneizzazione culturale e un blocco sociale che lo sostiene. Strano non averlo individuato per chi si è nutrito degli insegnamenti di Gramsci". Poi aggiunge: "La Sinistra come reagisce? Diabolizzando il personaggio e poi lamentandosi del popolo che non è all'altezza della grandezza della Sinistra".
Ci sarebbe da riflettere; se non Bocca - che ha i suoi anni - almeno il giovane Franceschini, eletto segretario a furor del (poco) popolo presente alle assise democratiche. Glielo auguriamo di cuore, anche se - ascoltato il discorso di incoronazione - non c'è da essere particolarmente ottimisti...

giovedì 19 febbraio 2009

Ladri veri e finte vergini


Io giudico una buona giornata quella in cui imparo qualcosa di nuovo.

Ieri ho effettivamente imparato qualcosa di nuovo.

Non esistono più i gol di mano, per loro stessa definizione irregolari e antisportivi.

Esistono i gol di mano volontari e quelli involontari.

Quelli involontari sono caratterizzati dall'essere commessi solo da giocatori dell'Inter, che quindi vengono assolti dall'ingenerosa accusa di "condotta antisportiva".

Adriano, figlio spirituale di Maradona, è recidivo sul tema: nel derby San Paolo-Palmeiras aveva segnato un altro gol di mano che aveva poi così commentato a fine partita: "È accaduto, e non posso farci niente, nel calcio queste cose succedono. In fondo l'importante era fare gol".

E' in momenti come questi che rimpiango figure ben altrimenti austere come quella di Luciano Moggi, ladro vero con la propria dignità, che almeno - rispetto ai parimenti disonesti nerazzurri - non ha mai cercato di passare per la proverbiale vergine nel branco di puttane.


Nella foto potete ammirare la mano sinistra dell'onesto Imperatore: la destra è impegnata a segnare gol involontari nelle porte avversarie

mercoledì 18 febbraio 2009

Qualcosa di Sinistra


Dixit Veltroni, nel suo discorso di commiato: "Se ad un'assemblea del Centrodestra si parla male del Centrosinistra, tutti applaudono. Se ad un'assemblea del Centrosinistra si parla male del Centrosinistra, tutti applaudono".
Pessimismo da dimissioni, o profonda conoscenza della materia?

martedì 17 febbraio 2009

Ci serve una sinistra


Succedono un po' di cose brutte nel panorama politico italiano.

Il PD si prende l'ennesima saracca nelle gengive proprio nella provincia da dove sarebbe dovuta ripartire la riscossa, e Veltroni sceglie la strada più comoda per risolvere il problema, cioè le dimissioni.

Questo, tanto per fare il verso a Marco Travaglio, non è il sosia dello statista che, parafrasando Obama, continuava a ripetere in propaganda elettorale “Yes we can”, sperando nell'effetto da trascinamento planetario che già ipotizzava ai tempi di Clinton il buon vecchio Romano Prodi: è proprio lui. È anche l'inventore del governo ombra, più parodistico ed inutile di quello ufficiale. È il leader di un'opposizione inesistente, capace solo di stracciarsi le vesti senza il senso dello straccio di una proposta alternativa che sia una. Ed è anche colui che si è tenuto accuratamente alla larga dalla campagna elettorale sarda, vinta formalmente da un signor nessuno, ma in realtà dal solito onnipresente Berlusconi che ha impugnato il problema facendone, come al solito, una questione personale, cosa che è stata ben recepita dagli elettori che hanno votato lui, e non l'anonimo Cappellacci.



A questo punto, senza una vera opposizione, come riusciremo a realizzare quella democrazia dell'alternanza che è alla base di ogni politica seria?

Da appassionato lettore di Montanelli e, conseguentemente, da liberale vero quale ritengo di essere, sono francamente basito e deluso. In un momento in cui il berlusconismo più deteriore sta portando alla ribalta tutta una serie di problematiche di cui francamente si sarebbe fatto a meno, a cominciare ovviamente dalla solita tutela degli interessi del proprietario, ciò da cui non si può prescindere è un'opposizione che faccia il suo mestiere, e lo dico da (ex) elettore di quella Destra che sta imperversando con un governo di mezze figure e in cui le personalità di rilievo si contano sulle dita di una mano monca. Ma, parimenti, rimango letteralmente basito di fronte ad una Sinistra che, alle regionali della Sardegna, non trova niente di meglio che riproporre il dimissionario Soru, l'inventore di Tiscali, il creatore della tassa patrimoniale che ha massacrato la principale fonte di reddito per la Sardegna. Cosa si aspettavano i geniali strateghi PD? Che i sardi, grati per aver massacrato le loro finanze, lo rimettessero in sella? E cosa ci dobbiamo aspettare noi sul fronte nazionale, che il geniale personaggio venga addirittura proposto – come da taluni ventilato – per la guida di un partito scalcinato e sempre più allo sbando? Oppure, peggio che mai, che venga rispolverato il solito Cincinnato Prodi, figura patetica di vecchio democristiano, tenuto in non cale dalle gerarchie scudocrociate (il vecchio Andreatta, suo mentore, non ne aveva notoriamente una grande stima) ed eletto a perenne ricostruttore di una Sinistra che, a regola, non gli dovrebbe appartenere, ma di cui incarna il lato più popolare, e cioè l'antiberlusconismo?

Nel Luglio dell'anno scorso, “L'Espresso” ipotizzava che la scena di Sinistra potesse diventare teatro per un nuovo attore, e cioè Filippo Andreatta, figlio di Beniamino, professore di relazioni internazionali all'Università di Bologna con la vocazione “prodiana” del federatore. Difficile – si sosteneva – che Andreatta Jr., essenzialmente un intellettuale, possa farsi coinvolgere in un progetto politico. Non si può dar torto al settimanale. In effetti, a parte il fatto che l'associazione di varie forze di sinistra non ha portato a risultati rilevanti, sarebbe ora che non solo il PD, ma tutta la Sinistra italiana si faccia un bagno di umiltà, abbandonando la propria innata prosopopea da pseudo-intellettualismo da strapazzo e, puntando ad un progetto politico che parta anche dall'antiberlusconismo, ma che a ciò non si limiti, arrivi ad un Riformismo laburista vero e non schiavizzato da quegli estremismi che, comunque, sono già stati cassati in cabina elettorale.

Non sono un uomo di Sinistra – verosimilmente non lo sarò mai – ma mi auguro dal profondo del cuore che ciò succeda in tempi brevissimi, perché la democrazia italiana ha bisogno di un'opposizione forte, seria, credibile e ricca di quelle idee che, altrove (in America, per esempio), hanno permesso il cambiamento vero degli scenari. Per questo motivo, ovviamente, non auguro alla Sinistra di finire nelle mani di D'Alema, uno famoso solo per non aver mai vinto una battaglia politica in vita sua. Non lo dico io: lo affermano con pertinenza Gomez e Travaglio in “Se li conosci li eviti”.

Non basta alzare il pollice dicendo “Yes, we can” per proporsi come l'Obama de noantri: occorrono cose come idee, carisma, forza di volontà, voglia di buttarsi nella mischia. Insomma, tutto ciò che è mancato a Veltroni

Genova e il mio umore


Il mio umore - oggi veramente urfido - mi porta ad ascoltare cose che di solito mi dimentico di sentire.
Per esempio, il lunare e scontroso Paolo Conte con la sua "Bartali":

Farà piacere un bel mazzo di rose
e anche il rumore che fa il cellophane
ma un birra fa gola di più
in questo giorno appiccicoso di caucciù.

Sono seduto in cima a un paracarro
e sto pensando agli affari miei
tra una moto e l'altra c'è un silenzio
che descriverti non saprei.

Oh, quanta strada nei miei sandali
quanta ne avrà fatta Bartali
quel naso triste come una salita
quegli occhi allegri da italiano in gita
e i francesi ci rispettano
che le balle ancora gli girano
e tu mi fai - dobbiamo andare al cine -
- e vai al cine, vacci tu. -

è tutto un complesso di cose
che fa si che io mi fermi qui
le donne a volte si sono scontrose
o forse han voglia di far la pipì.
E tramonta questo giorno in arancione
e si gonfia di ricordi che non sai
mi piace restar qui sullo stradone
impolverato, se tu vuoi andare, vai...
e vai che il sto qui e aspetto Bartali
scalpitando sui miei sandali
da quella curva spunterà
quel naso triste da italiano allegro
tra i francesi che si incazzano
e i giornali che svolazzano
C'è un po' di vento, abbaia la campagna
e c'è una luna in fondo al blu...

Tra i francesi che si incazzano
e i giornali che svolazzano
e tu mi fai - dobbiamo andare al cine -
- e vai al cine, vacci tu! -

Ma quella che probabilmente amo di più, forse perché canta quella Liguria che a me va molto a genio e, in particolare, il suo capoluogo che è città strana, misteriosa e profonda (come dice Cesare Simonetti), è "Genova per noi":

Con quella faccia un po' così
quell'espressione un po' così
che abbiamo noi prima di andare a Genova
che ben sicuri mai non siamo
che quel posto dove andiamo
non c'inghiotte e non torniamo più.

Eppur parenti siamo un po'
di quella gente che c'è lì
che in fondo in fondo è come noi, selvatica,
ma che paura ci fa quel mare scuro
che si muove anche di notte e non sta fermo mai.

Genova per noi
che stiamo in fondo alla campagna
e abbiamo il sole in piazza rare volte
e il resto è pioggia che ci bagna.
Genova, dicevo, è un'idea come un'altra.
Ah, la la la la la la

Ma quella faccia un po' così
quell'espressione un po' così
che abbiamo noi mentre guardiamo Genova
ed ogni volta l'annusiamo
e circospetti ci muoviamo
un po' randagi ci sentiamo noi.

Macaia, scimmia di luce e di follia,
foschia, pesci, Africa, sonno, nausea, fantasia...
e intanto, nell'ombra dei loro armadi
tengono lini e vecchie lavande
lasciaci tornare ai nostri temporali
Genova ha i giorni tutti uguali.

In un'immobile campagna
con la pioggia che ci bagna
e i gamberoni rossi sono un sogno
e il sole è un lampo giallo al parabrise...

Con quella faccia un po' così
quell'espressione un po' così
che abbiamo noi che abbiamo visto Genova
che ben sicuri mai non siamo
che quel posto dove andiamo
non c'inghiotte e non torniamo più.

Forse non occorre essere sempre di pessimo umore per apprezzare queste canzoni, ma alle volte sembra che il mare col suo lento respiro ci faccia compagnia e ci racconti quelle vecchie storie che non abbiamo più voglia di ascoltare.
Io, comunque, oggi vorrei essere a Celle Ligure; ma al limite va bene anche Genova, col suo casino nell'angiporto. E con quell'aria un po' losca che si respira in Via del Campo.



A tal proposito, girando su Internet, ho trovato questo scritto nel blog http://distilleria.splinder.com. E' molto bello, per cui lo cito così come l'ho letto:

Da che son qui, nell'anno nuovo, mi sveglio coi flash del cielo striato di Genova e faccio colazione sulla panchina lungo la via del mare, dove un signore barbuto legge (da lì per sempre) il giornale frusciante di vento. Rispolvero le foto che niente catturano - e sono io che non lo faccio - certe canzoni che sembra ovvio siano sempre esistite riprendono un po' di quel che non ho dato. Il profumo sì, delle spezie, della cucina, impregnati i muri vecchi dei caruggi, dove si vedono e non vedono le donne che vendono l'amore. Il sapore sì, dello stoccafisso con le olive taggiasche e i pinoli, il vermentino e, prima ancora, i fritti di pescetti lungo il porticato, buoni di mugolii prolungati. E certamente Faber e gli altri dappertutto, nei reticoli ombrosi dell'angiporto, una scritta sulla targhetta di Via del Campo e i rimbalzi d'adesso, del venerdì sera, mentre rispulcio canzoni, interviste, Spoon River e aneddoti della Pivano, come se fosse una mano nuova. In un filmato, prima del concerto di Sarzana dell'81, c'è lui che cammina per la cittadina con una camicia rossa, l'audio staccato lo osserva muoversi tra le viuzze. E ci sono alcune facce di astanti, ancora dentro lo strascico degli anni settanta, che da là rovistano e chiedono dove saranno e cosa sarà loro rimasto di quella sera, mentre già dormivo o facevo bollicine dalla bocca, qualche regione sotto, vicino ad altro mare, col sorriso mezzo sdentato e stanco. [Oggi e domani al Circolo Arci La Scighera, L'ombra che mi fa il verso - De Andrè e le canzoni popolari]

domenica 15 febbraio 2009

Dèpp!


Non è il nome di un famoso attore: è il derby, come lo chiamava l'Abatantuono dei bei tempi, quello che non era ancora un attore impegnato, bensì il trionfale protagonista di "Eccezziunale veramente".
Stasera a Milano va in scena il derby, cioè la "stracittadina", ovvero la partita di calcio fra Milan e Inter, quella fra i "casciavìt" rossoneri e i "bauscia" nerazzurri che, a regola di briscola, dovrebbero fare strame di noi poveri milanisti.
Doveva andare così anche la partita dell'andata, che invece aveva visto il primo gol in campionato del Coniglietto Magico, al secolo Ronaldinho, vale a dire il decimo volume della Moderna Enciclopedia del Calcio, gettando nella costernazione il simpaticissimo Special One, Mourinho, allenatore dell'odiata Beneamata.
Il derby è una partita strana, in cui gli equilibri precostituiti vanno spesso a farsi benedire; ma, soprattutto, è un'impagabile occasione per scatenare una ridda di sms irriverenti fra amici di opposte tifoserie. E' quanto succede regolarmente fra me e il mio amico Stefano Barbetta, interista fradicio e autore di un gustosissimo libello, edito da Morellini, e intitolato "Come sopravvivere al campionato di calcio" che consiglio vivamente a tutti, appassionati e non.
Citare l'Abatantuono old style o lo scanzonato Stefano Barbetta di adesso è un modo per buttare sul ridere un mondo che ha abbondantemente stufato tutti.
Auguri belli agli interisti!

venerdì 13 febbraio 2009

Il vento, le Prealpi e il bassotto




Ho sempre avuto l'idea che il vento sia un anticipatore della primavera. Questi sono giorni di fohn, o favonio, come lo chiama Salvatore Furia del Centro Geofisico di Varese; in altre parole, il signore garbato che ci dà la previsioni del tempo - per il vero, sempre piuttosto azzeccate - tutte le mattine alle 7.20 su Raiuno, al Gazzettino Padano (quello della sigla della Bella Gigogìn).
Oggi mi chiedevo cosa fosse il favonio; nel sospetto che la questione possa interessare anche un ipotetico lettore, fornisco qualche notizia tratta dalla solita, splendida Wikipedia:
"Sia favonio che Föhn derivano dal latino favōnius (da favēre, "far crescere"), nome con il quale i Romani chiamavano il vento di ponente (il greco zefiro). Il nome è conservato nella regione delle Alpi, degli Appennini e degli altri rilievi maggiori della penisola col significato attuale ma lo stesso fenomeno è presente in varie regioni del mondo dove ha assunto nomi diversi: in Argentina è noto come zonda, chinook nelle Montagne Rocciose, vento del diavolo nell'area della baia di San Francisco, venti di Santa Ana nella California del Sud, sharav o hamsin in Israele, hamsin in Arabia, Nor'wester a Christchurch, Nuova Zelanda e nelle pianure di Canterbury e halny nei Carpazi, in Francia meridionale, nella Valle del Rodano, Mistral."
Col Mistral ho fatto conoscenza andando in barca a vela nel Golfo del Leone, da Bandol a Marsiglia passando per l'Ile des Ambiez e Porquerolles; è un vento meraviglioso e mi scompiglierebbe i capelli, se solo li avessi.
Il favonio mi è più familiare e lo adoro: spazza tutte le schifezze dall'aria, il cielo diventa terso e luminoso e si vedono le montagne in fondo, all'orizzonte: le care, vecchie Prealpi.
Pensate che la mia calvizie mi porti ad avere freddo?
Nossignore: il mio cappellino Billabong che tanto furore ha fatto in ospedale (nessuno si aspettava che io ne potessi mettere uno!) mi protegge le orecchie.
L'unico della famiglia che non ama il vento è il bassotto: stasera, nella solita passeggiata defecatoria, continuava a girare disperatamente senza trovare la direzione giusta. Saranno le orecchie che prendono troppo il vento?

mercoledì 11 febbraio 2009

Non mi ci abituerò mai


Sono quasi vent'anni che faccio questo lavoro.
Quasi vent'anni che ho a che fare con persone ammalate, che si affidano a me per le mie competenze che, fortunatamente, migliorano col passare del tempo.
Ma, nonostante tutto, i pazienti talvolta si complicano e per me iniziano le notti insonni, a rivedermi mentalmente l'intervento mille volte, a cercare di pensare come, dove e quando si è inceppato il meccanismo.
Se penso alle ore passate oggi al capezzale di SC, fra sondini e flebo (mie) e pianti (suoi), mi rendo conto di quanto ancora io sia vulnerabile di fronte alla complicazione, questo evento maledetto che dovrebbe fare parte della nostra quotidianità di medici, e che invece per noi è ancora un corpo estraneo.
Ricordo le parole di Vittorio, la prima volta che si complicò un colon (era anche il primo che avevo fatto): "Ricordati che per quanto impegno tu ci metti a fare un intervento, una quota di pazienti finirà pur sempre per complicarsi; se non sei disposto ad accettarlo, è meglio che smetti di fare questo lavoro".
Lo so e capisco tutto.
Ma oggi SC è occlusa e io so che non avrò pace fino a che la situazione non si sbloccherà.

martedì 10 febbraio 2009

Poche parole

Sono un medico, mi chiamo Pietro Bagnoli, qualcuno di voi già mi conosce per il sito internet da me fondato - www.operadisc.com - qualcun altro no, qualcuno infine non mi conoscerà mai.
Perché questo blog?
Perché ogni tanto mi vengono in mente alcune considerazioni che nulla hanno a che fare con la musica e che sul mio sito non ci starebbero particolarmente bene.
Qui probabilmente parlerò di altre cose.
Non mi aspetto che siano interessanti; è semplicemente un lato di me che su Operadisc non può apparire.
Se è di vostro interesse, benvenuti.