domenica 15 gennaio 2012

Mockbuster

Col termine mockbuster si intendono solitamente dei b-movies che vengono immessi su circuiti cinematografici di basso profilo per cavalcare l'onda di un grosso successo precedente. 
Con tutto il rispetto per le vittime, è quello che mi è venuto in mente vedendo le immagini tragiche del ribaltamento sul fianco, su una secca vicino all'Isola del Giglio, della nave Costa Concordia.
Errore umano, fatalità, semplice sfortuna: le indagini accerteranno le responsabilità dei singoli e della collettività: del capitano, per esempio, lesto a entrare nella prima scialuppa a disposizione; o di tutta la compagnia che - sembrerebbe - da mesi costeggia il più vicino possibile l'isolotto tirrenico strombazzando in segno di saluto.
Ma - se devo dire - l'aspetto più grottesco di tutta questa tragica vicenda è il ripetuto, ossessivo paragone con la ben altrimenti tragica vicenda del Titanic, che affondò al largo dell'Isola di Terranova durante il viaggio inaugurale giusto un secolo fa.
Con tutto il rispetto per una catastrofe e tenuto conto dello strano fascino che avvolge un naufragio, ci sono veramente tutti questi paralleli?
C'è veramente la stessa torva, misera grandezza della tragedia dell'inaffondabile RMS Titanic che affondò miseramente nella notte piena di stelle fra il 14 e il 15 aprile del 1912, quattro giorni dopo essere partita per il proprio viaggio inaugurale?
Un secolo fa: una nave poco attrezzata quanto a misure di sicurezza, nella presunzione che non sarebbero mai state necessarie.
Oggi: una nave piena di scialuppe e di dispositivi di salvataggio.
Un secolo fa: la tragedia in mare aperto, al gelo, e la nave che affonda a 4000 metri di profondità.
Oggi: una nave che si incaglia in una secca vicina a un'isola.
Un secolo fa: oltre 1500 vittime.
Oggi: ringraziando il Cielo, poche vittime che - forse - si sarebbero potute evitare con una migliore gestione della criticità.
Ieri come oggi: forse errori umani, quasi sicuramente superficialità e sopravvalutazione; come quasi sempre càpita in pressoché tutti i sinistri in cui l'uomo ha una parte preponderante.

Forse, l'unico vero parallelo con il Titanic sta nell'errore umano, nella presunzione di chi ha ritenuto di poter dominare gli eventi, anche se l'hybris che spingeva il colosso inglese era di ben altro spessore: lanciata per il mare a velocità folle, l'inaffondabile cercava di superare tutti i limiti imposti dalla Natura e dalle leggi degli uomini e non c'era spazio né tempo per il binocolo che avvistasse il maledetto iceberg
Vi ricordate la Locomotiva di Guccini?
E la locomotiva sembrava fosse un mostro strano 
che l'uomo dominava con il pensiero e con la mano: 
ruggendo si lasciava indietro distanze che sembravano infinite, 
sembrava avesse dentro un potere tremendo, 
la stessa forza della dinamite


Vedo al telegiornale l'enorme Costa Concordia desolatamente sdraiata su un fianco, con tutti i gommoni di operatori del soccorso e semplici curiosi che si avvicinano impuniti e provo una strana pena per il gigante panciuto che offre al pubblico ludibrio il suo lato squarciato da uno scoglio, toccato per esserci andato troppo vicino, per far contento con una strombazzata il sindaco di un isolotto tirrenico. 
Il suo comandante - ben diversamente da quell'Edward Smith che 100 anni or sono affondò con la propria inaffondabile nave - è in carcere a Grosseto per aver vinto a mani basse la gara a Salta sulla Scialuppa.
Quattro turisti giapponesi dati per dispersi e cercati disperatamente, sono stati ritrovati a Roma ove si erano recati a completare una vacanza che era un peccato mandare completamente in fanteria.
E io ho l'impressione che ci sia qualcosa di terribilmente italiano anche nella tragica e fatale regia di un disastro marino 

sabato 7 gennaio 2012

Work in progress: una piccola anticipazione


“Se lo vuoi fare veramente, dobbiamo fare presto”, dice la donna più anziana trascinando la giovane in cucina.
È una cucina semplice, povera e essenziale, ma pulitissima e non solo per gli scopi per cui è stata progettata: la donna ci fa anche altre cose, come ben sanno le ragazze che, di tanto in tanto, ne hanno avuto bisogno e si sono passate la parola.
La giovane strattona la donna più anziana costringendola a mollare la presa:
“Lo voglio assolutamente. È il motivo per cui sono venuta qui”
“Sei sicura? Tu sei una donna giovane, sana e benestante. Non hai bisogno veramente di fare questa cosa”
“Devo farlo, per mia figlia e per me stessa”
“Te ne pentirai”
La giovane è irremovibile:
“Devo farlo, ho deciso”
L’altra scuote la testa:
“Allora spogliati e sdraiati”.
La donna più anziana si volta verso la cucina a gas dove sta bollendo una cassetta metallica rettangolare e lunga. Spegne il fuoco e, con due presine, tira su la cassetta e la deposita sul lavandino. La apre: c’è un ferro lungo appoggiato su una garza bianca. Lei prende il ferro e, con quello, toglie la garza svelando una serie di ferri scintillanti e umidi, che fumano per la bollitura appena conclusa.
Lei dice:
“Aspettiamo che si raffreddino un po’. Intanto potremmo fare qualcos’altro, per prepararti”.
Prende un altro bollitore e ne versa il contenuto in un bicchiere; i suoi gesti sono calmi, misurati e contengono una saggezza antica. Poi lo porge alla giovane davanti a sé.
“Cos’è?”
“Bevi”
“Cos’è?”, insiste l’altra, sospettosa.
“Fai tante domande. È la stessa cosa che ho dato a tua figlia. Quello che devo fare non è esente da dolori per te”
“Me li merito”
“E perché? Quello che è successo non è colpa tua”
“Invece è colpa mia. Non sono stata attenta e ho messo a repentaglio la vita di mia figlia. Adesso mia figlia non sarà mai felice”
“Non l’hai fatto tu, non potevi sapere”
“È la stessa cosa, non sono stata attenta”
La donna anziana tiene il bicchiere fra le mani:
“È già brutto quello che devo fare – dice a occhi bassi – ma se ci vuoi aggiungere anche il dolore…”
“Non posso farne a meno”.
La donna anziana cerca di fermarla.
Quello che fa, lo fa da molto tempo e molte donne, per lo più giovani, se ne sono servite. Lei si è sempre vista come una specie di istituzione indispensabile, ma tuttavia ha sempre cercato di scoraggiarle tutte, indistintamente. A suo modo si sente la coscienza tranquilla.
“Perché lo vuoi fare? Potresti far nascere il bambino e proteggerlo”
“Perché è un’altra femmina: lo so! Lo sento dentro!”
La donna anziana scuote la testa, sconsolata: la giovane che le sta davanti non cambierà mai, qualunque cosa lei possa dire.
La giovane si toglie il vestito, poi la sottoveste e infine le mutandine; la sua statura è piccola, il suo corpo è magro e delicato. Non è ancora arrotondato come l’altra volta. Rimane con addosso il solo reggiseno, ed è indecisa se toglierselo o no, come se fosse l’ultima barriera al suo pudore; poi, con un gesto quasi inconsapevole, se lo toglie.
Ha deciso che quello che farà fra poco, anche se è un atto di distruzione, la farà rinascere come una sorta di rito pagano. Sa che ci sono vari modi di bestemmiare il nome di dio onnipotente, e che quello che ha scelto è uno dei peggiori, ma quello che è successo ha scavato un vallo invalicabile fra lei e quello che, sino a poco fa, chiamava dio. Non ci sarà più dio, per lei, da ora in avanti: per quello che ha dovuto subire la sua bambina e per quello che lei sta consapevolmente per fare.
“Sei bella”, le dice la donna che ha davanti. Non ha parlato per farle un’avance, non c’è attrazione in lei, la giovane lo sa benissimo: l’ha detto semplicemente come una constatazione, un dato di fatto. Lei però si sente stranamente lusingata e, per un attimo, vive un momento di indecisione; ed è allora che succede un fatto strano.
Non ha ancora avuto consapevolezza di quella cosa che le sta crescendo dentro la pancia, è probabilmente troppo presto, ma in questo momento per la prima volta ha una specie di sussulto; non è certamente un movimento né un battito percepibile, ma forse una specie di premonizione, qualcosa che cerca disperatamente di rimanere aggrappato a lei. Si accorge che se aspetterà ancora un po’ sarà troppo tardi, per cui decide: si sdraia sul tavolo di formica della cucina e divarica le gambe. Riflette amaramente su come sia strano che per la donna, in fondo, sia sempre una questione di divaricare le gambe, ma non c’è spazio per l’ironia, non è il momento.
La donna anziana ha aperto un armadietto basso e ne ha tirato fuori un catino di moplen rosso; lo appoggia su una forcella che fissa al tavolo, fra le sue gambe. È lì che finirà tutto.
Si lava le mani e ci si spruzza sopra dell’alcol; poi si siede fra le sue gambe e accosta a sé un tavolino su cui ha appoggiato la cassetta metallica che contiene i ferri scintillanti. Sembrano ferri professionali; la giovane si chiede dove possa averli trovati. Un attimo di esitazione, poi la donna più anziana chiede con voce risoluta:
“Allora?”
La giovane deglutisce. Poi, con un filo di voce dice:
“Fa’ presto”