martedì 28 settembre 2010

Lessico famigliare

Il bello della vita famigliare è costituito dalle schermaglie che, a volte, ne costituiscono il sale, ma che talvolta fanno riflettere sulla difficoltà di comunicazione fra uomini e donne. E spesso mi trovo a riflettere sulla lucida illogicità (mi si perdoni l'ossimoro) dell'essere più razionale che sia stato creato dal Padreterno: la donna.
Valga, a mo' d'esempio, la seguente tranche de vie.

E' l'una e mezza. Ho esaurito una serie di cose che dovevo fare e che mi hanno indotto a prendere una giornata libera: dentista, carrozziere per riparare il danno da tamponamento di due mesi fa, e così via. Proprio la necessità "carrozziere" mi induce e chiamare Cristina con cui mi ero messo precedentemente d'accordo: lei mi deve seguire in officina con la sua macchina e poi torniamo insieme.
Tutto semplice? Nossignori: mica come dire.
Le telefono:
"Ciao, adesso mangio un panino qui alle Cupole. Poi mi raggiungi? Prendiamo il caffè insieme e andiamo in officina. Fa' pure con calma - aggiungo, conoscendo molto bene il mio pollo (anzi, la mia gallina) - tanto devo ancora mangiare"
Nota bene: il caffè alle Cupole è particolarmente buono. A casa nostra è quasi un'occasione sociale. So che così la invoglierò, il che mi farà gioco per farla deviare dal programma che si è già prefissato per la giornata. E infatti la risposta non tarda ad arrivare:
"Con calma! - mi sbraita nell'orecchio - Io sono incasinatissima e ho un sacco di cose da fare! Non puoi farmi fretta perché tu hai esaurito le tue, sai?... Io sono sempre al servizio di tutti e non ho mai un momento per me stessa! Ho bisogno di almeno mezz'ora di tempo! Non posso correre sempre al vostro servizio! Devi darmi tempo! Ho bisogno di tempo! Perché le giornate non durano almeno 48 ore? Perché volete sempre tutti farmi fretta?"
"Appunto - rispondo serafico - Io devo ancora mangiare. Non ti faccio nessuna fretta. Prenditi pure tutto il tempo che ti occorre, non c'è problema"
"Quale tempo? Non c'è tempo! E certo, tu hai sempre tutto il tempo che vuoi ma io non ho tempo da perdere! Ho fretta! Devo portare anche Giacomo a nuoto! Tu te la prendi sempre calma, tu fai sempre tutto da posapiano come sei, poi sono sempre io che devo correre! Fosse per te dovrei fare sempre tutto piano, con calma, tranquilla, come una lumaca. Ci vorrebbe la terza guerra mondiale a te e a tuo figlio. Devo fare in fretta! Adesso non ho tempo di parlare! Ciao!". E riappende.
Mentre vado a mangiare penso a "Un uomo, una donna", vecchio film di Claude Lelouch, che finisce un po' in sospeso.
Si saranno ritrovati, Jean-Louis Trintignant e Anouk Aimée?
Si saranno sposati?
Certo che sì. E, dopo quasi diciassette anni di matrimonio, lei l'avrà guardato con i suoi occhioni e gli avrà detto: "Possibile che vuoi sempre farmi fretta? Perché non capisci che ho bisogno di fare in fretta? Fossi in te dovrei sempre andare come una lumaca. Non sei indipendente. Non ci fossi io in questa casa..."
La vecchia storia dell'umanità

sabato 25 settembre 2010

Creepshow

Ho ricevuto dal solito, ineffabile Barba questa mail in cui egli manifesta il suo giusto disappunto per questi show della tomba e dell'oltretomba che hanno per oggetto alcuni personaggi dello spettacolo che stanno raggiungendo il palcoscenico celeste per raggiunti limiti d'età

Rimango sempre più allibito dallo spazio riservato dai media alle esequie dei cosiddetti vip.

Per Bongiorno diretta tv e piazza Duomo a Milano gremita ai limiti della capienza; per Vianello speciali e serate a tema; ora, per la Mondaini, notizia lanciata in prima sul tg e ampio spazio durante la trasmissione, come è stato immediatamente garantito. E un inviato sul posto a dare il polso della situazione in tempo reale.

Nulla ho contro i tre sopra menzionati, però mi domando, retoricamente, se non si stia un filo esagerando.

Infondo queste persone cosa hanno fatto, concretamente? 
Hanno intrapreso una professione che ha permesso loro di condurre un'esistenza agiata mettendo a frutto i talenti a disposizione. 
Simpatici, divertenti, allegri, ma poi? In concreto, cosa hanno fatto per un commiato così eclatante?

Si fossero spogliati dei loro averi per dedicarsi ad alleviare le pene dei sofferenti lo capisco. Si fossero eretti a modello di integrità per migliorare la deontologia dell'asfittica società contemporanea potrei anche concordare.

Ma qui al massimo ai tratta di persone che sono scese in campo per dare tutto il loro supporto a un caro amico, incidentalmente loro datore di lavoro, che un giorno votò la sua esistenza, lui sì, al bene nazionale.

E non mi si dica che erano brave persone, che facevano del bene senza sbandierarlo. È vero, ci mancherebbe altro. Ma quante persone per bene e che fanno del bene senza sbandierarlo muoiono ogni giorno senza che nessuno lo sappia?

Semplicemente sono famosi e fanno notizia, in questo caso (cinicamente) più da morti che da vivi.

Quando è mancato lui ci è mancato poco che venissero date le quote alla snai per il trapasso di lei. E ora che lo spettacolo può esser messo in onda, ecco che si avvia il barnum mediatico.

Che pena il tg col vip morto in prima pagina. 
E che pena chi lo aspetta.
Il Barba

Ed ecco la mia risposta:

Caro Barba, 
raccolgo il tuo grido di indignazione condito dalla solita tragica ironia e provo a rispondere alle tue obiezioni con alcune semplici osservazioni:

  1. tu dici "simpatici, allegri, divertenti". Hai detto niente!... Ma c'è di più: i summenzionati signori sono passati indenni attraverso mezzo secolo di storia dell'intrattenimento, passando dalla rivista e varietà che divertivano i nostri nonni, alla sit-com di cui sono stati fra i precursori con le scenette che già caratterizzavano ab initio i loro show. Puliti, spiritosi, lui molto british, lei dolcemente svampita, hanno ironizzato piacevolmente su se stessi e su alcuni vizi italici senza cadere nella macchietta o nel bozzetto oleografico
  2. la voglia di ridere è quello che di meglio resta in un panorama come quello italico attuale caratterizzato dalle questioni che vedono protagonisti il premier che ha votato la sua esistenza al bene nazionale, forse più ancora che al suo; il presidente della Camera diviso fra la stamberga monegasca, la compagna, il cognato acquisito, il precedente compagno della compagna, i giornalisti e il "gioco al massacro" (è la dichiarazione di oggi), nemmeno fosse Oscar Luigi Scalfaro
  3. la proliferazione e le vendite di ebdomadari che raccontano sostanzialmente - per usare un eufemismo - i cazzi dei personaggi celebri o semicelebri, ci dicono che gli italiani hanno bisogno di identificarsi in personaggi famosi. La famiglia Vianello si è presentata nelle case italiane in modo gradevole e simpatico, rappresentando le baruffe di una qualunque famiglia alle prese con la quotidianità: in questo caso, l'identificazione degli italiani con i personaggi famosi è stata quindi particolarmente facile. Ecco perché trovo un po' cattiva e forse ingiustificata la tua idea che i Vianello facciano più notizia da morti che da vivi: in realtà sono sempre stati seguiti con share molto alto in tutte le loro trasmissioni
  4. in una società come la nostra che basa la celebrità sulla partecipazione a reality di livello globalmente men che pietoso, non deve meravigliare che ci siano persone che si sentono chiamate in causa in occasione di un funerale di una persona celebre. Mi fa pena vedere la vecchietta che piange disperata la morte di Sandra Mondaini come se fosse mancata una persona cara, perché mi rendo conto di quanto le sia stato facile identificarsi nella star televisiva che parlava la sua stessa lingua e litigava col marito come aveva fatto lei con il suo per tutta la vita
Quindi, amico mio, in definitiva io guardo con molta più indulgenza di te alla medializzazione - che mi sembra non evitabile - di questi eventi mortuari. E ad ogni modo, per futile che possa essere stata, preferisco la celebrità garbata dei Vianello a quella di un presidente della Camera che condivide la fama (e non solo) con Luciano Gaucci

domenica 19 settembre 2010

Denti

Amo molto i film horror, ma è un genere nel quale sono molto esigente. Per esempio, non mi piace lo splatter dei mostri con la bava verde. Amo la cruda essenzialità del bianco e nero de "La notte dei morti viventi" (George A. Romero, 1968), che mi richiama il romanticismo di antichi capolavori come "London after midnight" (con Lon Chaney, 1927) o certe sequenze de "La casa" (Sam Raimi, 1981); per esempio quella in cui la pendola che si ferma, dando inizio all'orrore, viene ripresa dal di dentro
Qual'è l'horror ideale?
Secondo me, la trasposizione in una vicenda fuori dal comune di elementi che fanno parte della nostra vita quotidiana e che, normalmente, non ci farebbero paura. Vista in quest'ottica, il miglior horror recente è "The Others", che vive di un equivoco genialmente proposto dal regista e in cui lo spettatore meno smaliziato (io, per esempio) casca come una pera. Ma l'horror per me più inquietante è quello di cui sto per parlarvi, che ho cercato a lungo senza trovarne traccia se non nei ricordi degli appassionati come me che, però, non ne ricordavano i riferimenti. Non era facile, in effetti, perché era un film tv e all'epoca mancavano ancora i database con cui oggi abbiamo maggiore confidenza.

Eravamo nei primi Anni Ottanta. Per una serie di combinazioni, mi ritrovai una sera da solo a casa e mi imbattei, zappando, in un film in tre parti di cui mi ero perso le prime due. Non sapevo quindi il titolo del tutto, ma solo della parte che mi accingevo a vedere: aveva a che fare con un feticcio di un guerriero Zuni che la protagonista, antropologa, oppressa da una madre possessiva, avrebbe regalato al fidanzato. Un avviso su un cartiglio nella scatola in cui la statuetta era contenuta metteva in guardia: attenzione a non togliere la catenina intorno al feticcio, che ne tiene imbrigliata l'anima. E invece, un movimento troppo brusco fa cadere la catenina e il feticcio, afferrato un coltellaccio da cucina, diventa una macchina di morte.
In ciò non ci sarebbe nulla di particolarmente interessante rispetto alle tante "bambole assassine" dei b-movies horror di quegli anni; ciò che invece è inquietante è il finale.
Amelia, la protagonista, butta nel forno il feticcio che prende fuoco urlando disperatamente. Tutto finito? No, perché la poco furba antropologa apre il forno e una vampata - che in sé ha ancora l'eco dell'urlo del feticcio - le avvolge la faccia.
Nella scena successiva Amelia parla al telefono con la madre, invitandola a casa sua; il regista non la inquadra mai di fronte, ma sempre di spalle o di taglio. Al termine della conversazione, la ragazza frantumerà il telefono "appoggiando" la cornetta sulla forcella.
Nella scena finale Amelia aspetta la mamma, acquattata dietro la porta...
Devo a questo finale alcune delle mie prime, vere notti insonni.





A pensarci bene, ci sarebbero film più titolati per ottenere tale effetto; un esempio per tutti, "L'esorcista" (William Friedkin, 1973), il cui potere visionario aveva all'epoca portato vere e proprie crisi isteriche negli spettatori particolarmente sensibili; sennonché il make-up un po' splatter della pur bravissima Linda Blair non mi ha mai coinvolto veramente. In effetti, nel corso degli anni successivi mi sono scervellato un bel po' per capire cosa veramente fosse terrificante in questi 15 minuti del terzo episodio della "Trilogia del terrore" realizzati in modo piuttosto artigianale dal regista Dan Curtis. La risposta me la diede una sera sulla spiaggia di Santa Liberata il mio vecchio amico Andrea Bizzi, anch'egli appassionato del genere e di questo film in particolare: "Sono i denti - disse - E' l'aspetto che mette più paura in un teschio, perché li vediamo anche nell'essere umano vivo. I denti sono un tramite con la rappresentazione della morte".

Aveva ragione, naturalmente.
Anni dopo, vedendo "Jurassic park" rimasi colpito come tutti dal grande Rex che, con i suoi denti scintillanti e affilati come lame - non diversamente dalla dentatura di Amelia - divorava le nostre certezze facendosi strada nel buio della nostra anima, quell'angolo oscuro nascosto da una porta senza serratura...



Ecco una sintesi di "Amelia", il terzo episodio. Purtroppo sul "Tubo" non è disponibile nella sua integrità e su altra fonte manca proprio il finale, la parte sicuramente più spettacolare e geniale:

sabato 18 settembre 2010

Addio del passato bei sogni ridenti...

Saranno due mesi abbondanti che "Il Giornale", quello che una volta era il mio "Giornale" (non lo leggo più), non fa altro che pubblicare in prima pagina la stessa notizia: la storia indecorosa finché si vuole, ma ormai ampiamente logorroica, della casa a Montecarlo di Gianfranco Fini e della compagna (termine che una volta Fini non avrebbe gradito) Elisabetta Tulliani, con l'aggiunta del cognato Giancarlo, di Luciano Gaucci e giù giù tutti gli altri protagonisti di questa squallida storia.
A me fa malinconia vedere la prima pagina di questa gloriosa testata svilita quotidianamente da notizie così triviali. Questa vicenda si sarebbe potuta chiudere molte, ma molte (prime) pagine fa se Gianfranco Fini avesse ammesso da subito le sue debolezze: conosce molto bene anche lui Feltri, sa che razza di mastino sia (vedi il caso Boffo), avrebbe potuto evitare la reticenza. Il pubblico del PdL gli avrebbe perdonato la stamberga acquistata a basso costo per se stesso e per il parentado tolto in prestito a mesata; difficilmente invece gli perdonerà il castello di falsità che, agli occhi del medio elettore di destra, suona in modo non diverso da quelle ideate da William Jefferson Clinton allorquando l'opinione pubblica gli chiese conto della fellatio praticatagli sotto la scrivania dello Studio Ovale dalla stagista Monica Lewinsky. 
E Clinton corse il rischio di perdere la presidenza degli Stati Uniti d'America non per un pompino, bensì per una menzogna: quella cioè con cui negò più volte il per lui piacevole atto. 

Ma de hoc satis. Ci siamo abbondantemente rotti di questa storia. 
Non neghiamo che i giornalisti alle dipendenze di Feltri sappiano fare il loro mestiere: si sono attaccati come cozze a questa storia e ne hanno fatto uno scoop che forse non meriterà il Pulitzer solo per il basso profilo dei personaggi che vi sono implicati, a fronte dei quali persino una stagista piuttosto corpulenta e con le capsule ai denti sembra assumere i connotati morali di Golda Meir o di Margareth Thatcher. 
Ma adesso basta, paulo maiora canamus: questo è il "Giornale" che fu fondato da Montanelli e, anche se dal 1979 è proprietà della famiglia Berlusconi, non può essere ridotto alla stregua di un organo di partito. Io, quanto meno, non lo accetto.
Quando nel 1974 Giulia Crespi (la cui "amicizia" - chiamiamola così - con Mario Capanna era cosa ben nota nei salotti culturali radical-chic) impose al "Corriere" una linea editoriale non diversa da quella di "Paese sera" o "Lotta continua", Indro Montanelli decise di andarsene da via Solferino per fondare un nuovo quotidiano che - unico nel suo genere nel panorama italiano - si facesse espressione di quel pensiero liberale che, nato con John Locke e Alexis De Tocqueville, passato attraverso Immanuel Kant, aveva trovato in Italia in Giuseppe Prezzolini, Leo Longanesi e Mario Pannunzio i più importanti ed eloquenti rappresentanti. Montanelli era indiscutibilmente il loro continuatore e aveva fatto del "Giornale" un circolo culturale di area liberale, l'unico del suo genere in Italia: Egisto Corradi, François Fejto, Enzo Bettiza, Cesare Zappulli, Nicola Abbagnano, Piero Buscaroli, Giorgio Torelli, Mario Luzi, Federico Orlando, Geno Pampaloni, Giorgio Soavi, persino Mauro Mancia e tanti altri ancora, fra cui citerei almeno il grande Gianni Brera a nobilitare la pagina sportiva. 
Nasceva - o meglio, rinasceva: ed era ora - una cultura liberale che aveva trovato nel vecchio "Cilindro" un anfitrione elegante pur se non sempre forbitissimo, intriso com'era di quello spirito toscano che gli permetteva di dire quello che pensava con suppergiù le stesse parole con cui lo pensava. Il risultato? Fu bollato di "fascista" - etichetta distribuita a tutti coloro che all'epoca non si conformarono al comune sentire - e fu gambizzato il 2 giugno 1977 dalle brigate rosse. E non solo lui fu fascista per l'opinione pubblica conformista: tutti noi suoi lettori eravamo conseguentemente "fascisti", e se a qualcuno venisse da sorridere è solo perché, magari per limiti anagrafici, questo qualcuno non può capire cosa volesse dire, alla fine degli Anni Settanta, entrare in un liceo okkupato con il "Giornale" ripiegato sotto al braccio, e i compagni che - nella migliore delle ipotesi - ti guardano torvi. 
Montanelli continuò nelle sue battaglie fino al 12 gennaio 1994, anno in cui Berlusconi fondò il suo partito auspicando che "Il Giornale" ne diventasse l'organo: Montanelli - da uomo libero qual'era - rifiutò e iniziò l'era di Feltri.

Feltri è un gran bravo professionista, pur senza essere un fuoriclasse come Montanelli (d'altra parte, chi lo è mai stato da lui in avanti?). Amo molto il primo Feltri, che diede esempio di ottimo giornalismo d'assalto in una serie di brillanti editoriali contro le infingardaggini di Romano Prodi ai tempi del suo primo governo.
Poi anche lui fu costretto ad andarsene e "Il Giornale" passò di mano, con alterne fortune, fra penne di buon livello (Cervi e Belpietro) o decisamente bassino, come il pur volenteroso Mario Giordano. 
Adesso il ritorno di Feltri (dal 2009) ha portato una decisa sterzata della testata in senso organico al partito di Berlusconi, togliendo così l'ultima connotazione di liberismo alla testata giornalistica più bella della storia italiana: l'unico giornale che è stato veramente "libero" e "liberale" in un momento in cui ammantarsi di questa etichetta era una sfida al conformismo delle anime morte.

"L'unico incoraggiamento che posso dare ai giovani, e che regolarmente gli do, è questo: "Battetevi sempre per le cose in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Una sola potere vincerne: quella che s'ingaggia ogni mattina, quando ci si fa la barba, davanti allo specchio. Se vi ci potete guardare senza arrossire, contentatevi" (Indro Montanelli, 20 febbraio 1996)

mercoledì 15 settembre 2010

Conversazione calcistica sul far del mattino

Quella che segue è una conversazione occorsa questa mattina fra il Barba e il sottoscritto. Com'è noto, il Barba è interista, il che permette a entrambi amabili sfottò in occasione di partite o vicende comunque legate al mondo del calcio. Oggetto odierno del contendere è, ovviamente, Zlatan Ibrahimovic, recentemente passato nelle fila della Prima Squadra di Milano, cosa che né il Barba, né gli altri tifosi interisti hanno particolarmente gradito.
Ecco la mail del Barba:


Ho rosicato. Il giorno della firma dello svedese, ho rosicato.
Era un pò come se il parente più sciatto e trasandato avesse vinto un abito di Armani. Ibra al Milan era un ossimoro.
Mi ha dato fastidio, come se la mia ragazza fosse andata col mio migliore amico. O il mio peggior nemico, per circostanziare meglio.
Odio il Milan, ma amo Ibra.
La sincerità va sempre rispettata. E per chi ti ha fatto godere ci deve esser sempre riconoscenza.
Ibra non si è mai affacciato da un abbaino baciando la maglia per poi scappare come un ladro mesi dopo. Ibra era dalla parte giusta quando un altro brasiliano, irriconoscente e meschino, si è portato le mani alle orecchie dopo un gol miserabile quanto lui.
Ed è stato proprio Ibra, in quell'occasione, a (virtualmente) zittire il brasiliano rinnegato, annullando il peso, e il valore, della sua marcatura.
Ibra non baciava la maglia, ma segnava, sudava e vinceva.
Ibra non faceva il simpatico, ma lo diventava a suon di gol.
Ibra esigeva rispetto, e se veniva fischiato alla media di un gol a partita, mandava affanculo. E faceva gran bene, per inciso.
Ibra è un professionista e come tale s'è comportato, scegliendo una squadra più forte e un ingaggio più alto.
Che poi la squadra vincente sia stata quella che ha lasciato, poco importa.
La sincerità va sempre apprezzata.
Grande Ibra! Con l'augurio sincero di tanti (ininfluenti) gol


Ed ecco la mia risposta:


Tu lo ami ancora, in fondo. Ti capisco: ieri sera con noi ha fatto quello che spesso ha fatto con voi, e cioè caricarsi la squadra sulle spalle e vincere la partita. Va be', c'è stato il contributo non banale di Ronaldinho, un altro che ogni tanto sembra svegliarsi dsl sonno dei giusti, ma insomma ha fatto quello che, ai tempi, era il tanto decantato "schema di Mourinho".
Per il resto non posso che essere d'accordo con te, con particolare riferimento al fatto che non stiamo parlando di "bandiere", bensì di professionisti: e' solo il popolo ebete di noi tifosi che e' convinto che i giocatori siano sentimentali. Giuseppe Meazza, "bandiera" nerazzurra, ha giocato anche nel Milan e persino nella Juventus! E stiamo parlando di tempi in cui i soldi non avevano ancora la valenza attuale!
Dici di Kakà: io lo ricordo ancora con affetto per le cose meravigliose che ha fatto nel Milan, per come m'ha fatto godere. Ricordo che la prima sega me la feci quando il mondo si accorse di lui, alla faccia di quell'idiota dell'avvocato Agnelli che aveva detto, dopo che l'avevamo acquistato, che la Juve non avrebbe mai potuto acquistare un giocatore con un nome così sgraziato. Fui contento quando il Milan lo diede via: da noi aveva chiuso il suo ciclo. Mi chiedevi cosa proverei se l'Inter lo comprasse: io ti rispondo "Nulla". E' un professionista, per di più alquanto scardinato: può andare dove meglio crede e, adesso come adesso, ovunque vada non fara' più la differenza.
Tu sei un romantico: credi ancora in un calcio fatto di bandiere perché e' quello con cui sei cresciuto. Per quanti anni Bordon ha giocato nell'Inter? O Facchetti? O Beccalossi? O Altobelli?
E il buon Fraizzoli che amministrava il tutto come un buon papa' rincoglionito, facendosi abbindolare da Mazzola? Persino Pellegrini, sicuramente più imprenditore e spregiudicato, era talmente tifoso da negare Sabato, giocatore - oggi lo sappiamo - di una modestia imbarazzante all'odiato Milan.
E persino Moratti, con quel suo socialismo umanitario da "Cuore" di De Amicis, che diventa papa' putativo di Ronaldo e Recoba, e che accoglie fra le sue braccia il cardiopatico Nwankwo Kanu facendolo operare (e permettendogli così di trovarsi una squadra più gradita) ha a lungo invalso nel tifoso nerazzurro l'idea di un romanticismo d'antan da bandiera sotto cui riunirsi.
Io non ci credo, mi spiace.
Ibra - che oggi veste i colori più belli del mondo, della Prima Squadra di Milano, quella vera, quella più blasonata, quella che ha vinto di più in Europa e nel Mondo, non quella dei quattro guitti squinternati che, guidati da un villanzone linguacciuto, ha usurpato la Coppa dei Campioni - Ibra, dicevo, magari l'anno venturo andrà a Manchester. Faccia quello che vuole: se avrà fatto tanti gol come quelli che gli ho visto fare ieri sera, gli andrà la mia eterna gratitudine.
Bandiere? Sai come diceva Totò? "Ma mi faccia il piacere!". Nemmeno Meazza lo e' stato...
Ti abbraccio


Ecco.
Ognuno giudichi secondo il proprio gusto.

mercoledì 8 settembre 2010

Finestre vuote


Sono a Uppsala per un importante congresso sulle patologie maligne del peritoneo. Ci sono andato con Vittorio e, ovviamente, ne approfittiamo per girare per le vie della città che vanta l'università più antica di tutta la Svezia.
Dopo la sistemazione in un albergo che sembra ricavato dai cataloghi Ikea, siamo andati nella cattedrale, che esternamente sembra una chiesa protestante e internamente presenta cappelle laterali e crocefisso, quasi a tradire un'identità cattolica che non ci aspettiamo; e infatti dentro troviamo anche un sacerdote donna che non fa parte della realtà cui siamo abituati. Si tratta in effetti della chiesa svedese, protestante ma con ancora qualche contaminazione cattolica.
Il tempo è mite, anche se la sera è decisamente freschino. Sono i prodromi dell'inverno che porterà ad avere un accorciamento estremo delle giornate: l'alba intorno alle 10, il tramonto alle 15 e alle 16 è già buio pesto. 
Decidiamo che vogliamo mangiare qualcosa di svedese, ma scopriamo che non è affatto facile. Andiamo alla ricerca di un ristorante che ci offra il meglio della cucina svedese; scopriremo ben presto che si tratta di un'impresa quasi disperata poiché Uppsala, città universitaria multietnica che ospita un grande numero di studenti stranieri, ha perso la propria identità nazionale quanto meno sul fronte alimentare. Dopo una lunga ed estenuante ricerca - nel corso della quale ci accorgiamo con un minimo di costernazione che la gente locale è già a tavola intorno alle 17.30 - troviamo finalmente un posto che ci offre un assaggio di specialità nazionali fra cui la renna, molto buona ancorché un filo tenace.  Il tutto è complessivamente buono, ma anca clamorosamente di sale e per di più ci spennano discretamente senza riempire i piatti in modo proporzionale al nostro appetito.
Oggi pomeriggio ci incontriamo con Sarah, una nostra conoscente, la quale sta qui da qualche settimana per ragioni di studio ed essendo una ragazza sveglia (oltre che notevolmente carina: vista di fianco sembra Candice Bergen) ci aiuta a capire meglio questa popolazione. 
Ci porta in una konditorei dove consumiamo una merenda, rito di particolare importanza nelle usanze sociali svedesi. Scegliamo la fetta di dolce di nostro gradimento, la carichiamo su un vassoio assieme alle bevande e ci scegliamo un tavolo in un locale gradevolmente antico, popolato di persone giovani molte delle quali, esaurita la loro consumazione, si fanno piacevolmente i fatti loro senza che nessun cameriere vada a tampinarli perché facciano il bis.
S. ci racconta un po' della Svezia: dei costi elevati della spesa, dei servizi precisi e inappuntabili che giustificano le tasse elevate, della spersonalizzazione della gente che spesso cerca conforto in generi come l'alcol il cui consumo è decisamente scoraggiato dalle autorità ma che, nondimeno, trova una sua ragion d'essere e un suo mercato alternativo grazie ad altre piazze confinanti e compiacenti in cui sono permessi gli acquisti che il governo svedese cercherebbe di rendere più difficili.
Andiamo ovviamente a parlare dei suicidi: è noto che nei Paesi del Nord c'è un'incidenza di tale evento nettamente superiore alla media internazionale. Finiamo per concordare in modo forse un po' semplicistico che la pulsione potrebbe essere dovuta al buio che, d'inverno, avvolge i tentativi dell'uomo di affermare la propria esistenza, il proprio esserci.

Ci salutiamo: Sarah deve tornare al suo campus. Vittorio e io giriamo per la città in cerca di un posto dove mangiare e - avendo esaurito le possibilità di cucina svedese (tornerò a casa con la voglia non soddisfatta di aringa affumicata) - decidiamo di rifugiarci in una delle tante taverne greche della città. La scelta cade su quella che, con uno sforzo di fantasia notevole, si chiama "Tzatziki". Il posto è accogliente e molto ben curato, come igiene e come cucina; i tavoli sono affollati, una ragione ci sarà. Ci rimpinziamo di tzatziki (appunto), taramosalata, moussaka, involtini di foglia di vite, spiedini di carne di vario genere e scottadito d'agnello e concludiamo il tutto con un bicchierino di profumata metaxa. Alla fine avremo mangiato il triplo della sera precedente, spendendo la metà.
Tornando verso l'albergo ci imbattiamo in giovani vestiti da rapper che gridano e cantano per le strade, e sembrano urlare la propria solitudine e il desiderio di esserci, di affermare la propria esistenza. Sarah ci ha raccontato che nei campus la sera alle 20 i giovani si affacciano alle finestre e cacciano un urlo, a ricordare tutti quelli che si sono suicidati: non commentiamo, ma ci si stringe il cuore.
Camminando per le strade, alziamo il naso e vediamo le finestre delle case. Notiamo che c'è una differenza sostanziale con le nostre vie: mancano le tende. Le finestre sono ampie, come se volessero catturare anche il più piccolo raggio di sole, e ci rendiamo conto di come dev'essere dura nei lunghi giorni di buio invernale. Vediamo le lampade, le librerie, i tavoli, i muri.
Non vediamo la gente.

Salgo nella mia camera Ikea, col materasso a futon, il piumone a sacco, il cuscino troppo morbido, le finestre aperte che mi affretto ad oscurare e il mio Mac appoggiato sul tavolino d'angolo. La televisione blatera parole incomprensibili, ma sul comodino mi aspetta Simenon: "Le finestre di fronte".
Mi mancano Cristina, Giacomo e il bassotto.
Mi manca il mio paesello

lunedì 6 settembre 2010

Amico fragile



Metto anche sul blog il commento che ho fatto sul mio sito al Rigoletto interpretato da Domingo. Per i non addetti ai lavori: Domingo è tenore, Rigoletto è la parte più carismatica mai composta per voce di baritono. 
Perché l'ha fatto? 
Perché ne aveva voglia. 
Perché ha guadagnato un pozzo di soldi. 
Perché a oltre settant'anni cerca ogni mezzo per non scendere dal palcoscenico.
Quale che sia la ragione, mi sembra che questa vicenda sia un po' un paradigma di tante fragilità dell'essere umano che spesso ho cercato di approfondire in questo blog.
Spero di farvi piacere partecipandovi queste righe.

Avrete visto che il nostro forum si tiene accuratamente alla larga dall’Evento.
Molti ne parlano, su blog, siti e forum, ma noi di Operadisc non l’abbiamo ancora fatto. Ieri sera ho lanciato via sms un tentativo di “tavola rotonda” con i moderatori del forum, ma dei due ha abboccato il solo Maugham che si è lanciato in considerazioni piuttosto interessanti sulla somiglianza fra la sua maestra elementare e Ruggero Raimondi, che ha devastato l’esigua parte di Sparafucile. Ci siamo trovati d’accordo su Grigolo, intimidito e pigolante sulla terribile progressione di “D’invidia agli uomoni sarò per te”, ma interessante per il resto. Ci siamo trovati meno d’accordo sulla Novikova, per me molto intrigante, per lui un po’ pigolante.

E Domingo?
Non è di lui che dovremmo parlare?
Non è per lui che stiamo scrivendo queste righe?
Certo che sì. E, a scanso di equivoci, premetto che parlo pro domo mea, giacché i miei soci di Operadisc probabilmente dissentiranno.
Allora, tanto per mettere le cose in chiaro: io ammetto la liceità dell’esperimento, poiché di questo si tratta. Domingo ha già precedentemente affrontato due parti per baritono: Figaro, nella seconda registrazione di Abbado del Barbiere di Siviglia; e Simon Boccanegra, che ha portato in teatro, l’ultima volta a Milano poche settimane dopo essere stato operato di un cancro del colon.
Canta con voce da tenore o da baritono? Né l’una né l’altra cosa: canta da Domingo, come se essere Domingo sia il passaporto per concedersi qualunque licenza. E sapete che c’è? Ha ragione lui.
L’ho seguito attentamente nei primi due atti. Al di là delle sputacchiate, dettate dalla fatica della parte probabilmente più onerosa e carismatica per un baritono; al di là dell’aspetto senescente che ci racconta tutte le sue settanta e passa primavere; al di là del fatto che – senza nemmeno pensarci troppo – potremmo pensare ad almeno una decina di baritoni che cantano la parte con proprietà e gusto, e che talvolta lo fanno in modo persino indimenticabile; al di là di tutto questo, io ho avuto l’impressione che ci credesse davvero.
Ora io non so se questo sia un portato del solito Domingo che da sempre a tutti l’impressione che lui ci creda: è la solita questione del colloquio individuale che il grande artista ha da sempre con ogni spettatore. È lì la sua forza, prima ancora che nel sessappiglio che riguarda soprattutto il pubblico femminile, da sempre incondizionatamente dalla sua parte. Non so se sia un portato del solito Domingo, ma l’idea che mi sono fatto è che lui ci credesse. A modo suo, certamente, quindi sempre con un pizzico di ironia a stemperare la drammaticità posticcia, come ad avvertire amichevolmente il pubblico che, alla fine, lui sarà sul palcoscenico con tutti gli altri attori del dramma a ritirare gli applausi; a modo suo, a ricordarci che lui è pur sempre quel Plàcido Domingo che da quasi una cinquantina d’anni li tiene tutti per mano, accompagnandoli nel percorso della conoscenza di questi drammoni che, prima di lui (e talvolta anche dopo) ci venivano raccontati da artisti dall’ego ipertrofico, che hanno trovato nel canto lirico un modo per sfogare il super-io. Lui no. Lui ammicca, sorride, ci prende per mano, ci racconta le storie di Cammarano e di Piave, di Ghislanzoni e di Boito, adornate dalle indimenticabili musiche di Verdi, e ce le racconta da Domingo, con tenerezza, affabilità e sorriso.
Non a tutti piace.  Molti si arrabbiano di fronte all’atteggiamento sorridente di questo eterno fanciullo, di questo Peter Pan che non ha saputo crescere e che si diverte a trasformare in uomini – e talvolta in sempliciotti – i suoi eroi. Ma cavolo: sono o non sono dei poveri coglioni, questi personaggi del teatro d’opera? Penso a Otello, per esempio: non c’è purista che ami la sua personificazione, spesso a disagio con il terribile secondo atto, spesso troppo umanizzato. Eppure devo proprio al suo Otello, nel 1986 alla Scala, una delle esperienze più sconvolgenti  della mia vita da spettatore di teatro d’opera quando, nel “Dio mi potevi scagliar” mi aveva messo di fronte all’umanità dolente ed avvilita di un eroe che si scopre uomo fragile. Erano gli anni in cui mi innamoravo di tutto, e le musiche di De Andrè mi facevano compagnia, e questo Domingo era l’amico fragile cantato dal grande artista di via del Campo. Solo dopo avrei scoperto che la sua vera forza è sempre stata quella di non prendersi mai troppo sul serio in un mondo dominato da regole ossessive e compulsive, quelle che vorrebbero far cantare tutti alla stessa maniera.
Ecco perché ho amato il suo Simone che ho visto e ascoltato alla Scala, pensando per di più che il vecchio istrione lo interpretava poche settimane dopo un intervento chirurgico per un cancro; e questo, a un medico non può non fare un certo effetto. Non mi aspettavo l’interpretazione che mi rivelasse chissà quali anfratti di un personaggio che avevo imparato a rispettare – non ad amare: non amerò mai Simon Boccanegra – in bocca ad altri interpreti di ben altra portata. Partendo da questi presupposti, non sono rimasto deluso e anzi ho apprezzato il volume vocale ancora rispettabile che non si vergognava degli strafalcioni testuali.
Parimenti, non mi sono aspettato dal suo Rigoletto l’interpretazione travolgente, quella che mi cambia le carte in tavola del ruolo più affascinante, intrigante, doloroso e complesso mai composto per voce di baritono. Mi aspettavo che Domingo ci mettesse la sua età avanzata, il rinnovarsi del suo testamento d’artista che già avevo ascoltato nella registrazione di “Tristano”, la sua capacità di affabulatore, il suo “essere Domingo”: e non sono rimasto deluso. Certo, è stato assecondato da un direttore che l’ha seguito amorevolmente con tempi larghi e comodi; ha sbagliato qualche cosa nel testo; ha sputacchiato un po’ in giro; ha lottato come un leone contro agli acuti (ma è tutta la vita che lo fa); è sempre stato più Domingo che altro. Ma lo ha fatto.
L’ha fatto per dimostrare al mondo che ancora oggi, alla sua età, può essere tutto quello che vuole?
L’ha fatto per dimostrarlo a se stesso?
O l’ha fatto semplicemente per raccontarci un’altra storia, una delle tante?
Non lo so e, in fondo, poco m’importa.
Questo non è un Rigoletto che mi porterò nell’isola deserta quando e se mai ci finirò.
Questa è solo una delle tante maschere di Plàcido Domingo, eterno bambino del palcoscenico