mercoledì 29 dicembre 2010

Non avevamo dubbi, Lula!

Ignacio Lula da Silva, presidente (fortunatamente) uscente del Brasile, ha negato l'estradizione in Italia del terrorista comunista Cesare Battisti, perché il governo brasiliano teme che il criminale rischierebbe la vita se tornasse in Italia.
D'accordo, lo so: è l'esito scontato di un'ignobile farsa che, se non altro, ha il merito di tenere la faccia di merda di un ignobile, disgustoso e vigliacco criminale fuori dai confini italiani; ma almeno ci siano cortesemente risparmiati i finti timori per la sua preziosa incolumità, a meno che Battisti non sia allergico alla saliva degli sputi: quella che gli altri sarebbero ben felici di depositargli sulla faccia. 
La sua, invece, il glorioso combattente l'ha ormai consumata da tempo a vellicare l'ano dei politici brasiliani, supplicandoli di tenerlo a svernare sulle spiagge di Copacabana da dove potrà continuare ad esprimere il proprio anelito rivoluzionario.

Nella foto a fianco, un'immagine tratta da un documentario sul Brasile di Lula 

martedì 28 dicembre 2010

-turbàti

Venticinquemila euro.
Questa è la sanzione che il giudice ha comminato alla mamma che aveva denunciato una commessa di 26 anni per spalmarsi la crema in topless.
Le cose erano andate più o meno così.
L'estate scorsa, fra Anzio e Lavinio, una ragazza di 26 anni in topless era stata invitata dalla mamma di due ragazzini di 12 e 14 anni a smetterla di spalmarsi la crema perché i suoi gesti, riferiti ricchi di sensualità, turbavano i figli; siccome la ragazza ritenne di essere in diritto di continuare, la mamma la denunciò per oltraggio al pudore.
Già a fine estate, il giudice stabilì il non luogo a procedere, generando quindi una controquerela da parte della ragazza; adesso la sanzione alla mamma.

Posso dirlo sommessamente?
Sono perplesso.
Abbiamo veramente bisogno di ammorbare la Giustizia italiana - già spaventosamente lenta di suo - con cause che non stanno in cielo né in terra e che richiamano la codardia di Oscar Luigi Scalfaro in analoga situazione negli Anni Cinquanta (ricordate? Fu quando il futuro presidente insultò Edith Mingoni Toussan che si era tolta in un ristorante il bolerino dalle spalle per il caldo romano di luglio)?
Ma soprattutto mi domando che idea abbia la mamma del concetto di innocenza applicato ai suoi ragazzi, che i giornali descrivono come turbati dalla quarta di reggiseno della ventiseienne commessa.
Di grazia, in che mondo vivono? Nel castello fatato di Raperonzolo?
Non sono un moralista, anche se capisco il punto di vista della mamma; e tuttavia, atteso che il seno nudo è stato abbondantemente sdoganato sin dagli Anni Ottanta e che la televisione offre ai ragazzini in fregola ben altro che una ragazza che si spalma le pregevoli e abbondanti tette con crema solare, mi chiedo: chi è veramente turbato?
I ragazzini?
O la mamma?
E il papà, mai nominato, cosa ne pensa, ammesso che esista e abbia voce in capitolo? E, se dovesse malauguratamente trattarsi di papà separato, dovrà pagare lui la sanzione comminata all'improvvida ex moglie?
Non so. A me questa vicenda ha prepotentemente riportato alla mente un episodio di quando anch'io avevo suppergiù la stessa età dei ragazzini turbati. Era estate, un agosto di trenta e passa anni fa e sulla spiaggia di Santa Liberata faceva molto caldo. Per qualche giorno vi stazionò una ragazza dalla pelle color dell'ambra e con due tette da infarto, una quarta abbondante che sfidava orgogliosamente le leggi di gravità e che lei esponeva al sole con l'unica "protezione" di un generoso strato di Coppertone.
Non abbiamo mai saputo il nome o la provenienza di quella ragazza che arrivava, si esponeva sulla battigia e se ne andava, facendosi i trionfali affari suoi e inducendo tutti i maschi del circondario - giovani e non, nessuno escluso - a elencare le pratiche cui si sarebbero dedicati con la Strapocciona (come venne soprannominata dal signor Bizzi, ché nemmeno lui ebbe il privilegio di conoscerla non dico in senso biblico ma neppure per nome) se solo ne avessero avuto l'opportunità. 
Per quanto mi riguarda, a lungo l'ho considerata il manifesto stesso della sensualità.
Turbato? Macché.
Direi piuttosto che la ragazza forniva a tutti i giovani maschi della spiaggia con gli ormoni a palla (il termine non è scelto casualmente) materiale onirico per qualcosa in cui il -turbarsi c'entrava solo come parte del verbo.
Forse era la stessa pratica cui alludeva la mamma laziale parlando di come i suoi ragazzi si fossero -turbati, ma a questo punto la cronaca entrerebbe nel mare magnum delle supposizioni, per cui mi fermerei

Senza filtro


Dal primo gennaio 2011, con la chiusura dello stabilimento di Lecce, verrà dismessa l’ultima manifattura italiana del tabacco. E' una data importante, perché finisce un pezzo di storia della nostra Italietta, quella che non poteva permettersi Marlboro, Camel e Turmac.
Ma era una storia già archiviata, nonostante tutto.

Il Monopolio di Stato dei Tabacchi, come tale, come lo conoscevamo una volta, non esiste più da un po'. Nel 2000 l'Ente Tabacchi Italiano è diventato una società per azioni e nel 2003 è stato assorbito dalla British American Tobacco. Questa rivoluzione ha tolto alcune marche ormai passate di moda quando non francamente oltre i limiti di una generica pericolosità (Super, Alfa, forse anche le Stop che non vedo più da un sacco di tempo, ma qui non saprei proprio dire), ma soprattutto ha spostato l'asse di un modo tipicamente italiano di fumare, uniformandolo a un'idea di fumo molto americana. 
Molto Marlboro.
Varrebbe la pena di smettere di fumare già solo per quello.


Quando iniziai a fumare, ormai molti anni fa, consideravo la sigaretta una faccenda molto privata; non ricordo una sola volta in cui abbia ostentato una bionda (anzi, nel mio caso preferibilmente una bruna) come motivo di emancipazione, come avveniva per alcuni miei amici. Affascinato dalla gestualità del fumatore, non prendevo nemmeno lontanamente in considerazione Marlboro, Camel, Lucky Strike e Merit, nelle varie formulazioni light e extralight che già si stavano affermando come a mitigare l'idea stessa del fumo. Nossignori: mi facevo gli affaracci miei con le mie sigarette da quattro soldi, e quello era il mio orizzonte di libertà e la mia emancipazione. Nascondevo il pacchetto in un vecchio contenitore di alluminio nello stanzino, perché non le trovasse mia mamma sempre molto polemica nei confronti del fumo (mio papà su questo fronte è sempre stato più tollerante, per ovvi motivi: fuma da quando aveva dieci anni), lo tiravo fuori al momento opportuno e mi godevo il piacere solitario che non è quello che ognuno potrebbe associare a queste due parole...
Le mie prime sigarette furono quindi le Esportazione senza filtro nel pacchetto verde, quelle che fumava il mio nonno Peppino; e solo perché le Nazionali "N blu", quelle da 240 lire al pacchetto, erano pressoché introvabili. L'idea di un prodotto nazionale di qualità non ricercata e che costasse poco; il contatto delle labbra con i pezzetti di tabacco, anche se di bassa qualità; l'odore aspro e forte del fumo che mi inebriava dandomi un'idea di libertà; tutto concorreva a farmi godere il fumo in calma e pensosa solitudine, negli intervalli che mi concedevo fra un capitolo e l'altro dello studio. Dovevano passare anni prima che mi concedessi alle sdegnose americane, e cioè le Camel - che io chiamavo "le cammellacce" - affrontate anch'esse rigorosamente senza filtro e sempre assolutamente per gli affari miei. Le poche esperienze che m'ero concesso di sigarette con filtro mi toglievano sempre qualcosa del piacere che mi concedevo; ché tale era, decisamente, e senza mai diventare un vizio, tanto che quando decisi tre anni fa di distaccarmene fu una scelta priva di trauma. 
Certo, ci furono anche esperienze che sfondavano il confine del dandysmo: le Gauloises senza filtro, per esempio, con le volute di fumo di tabacco scuro e inebriante che scalciava nello stomaco; non ho mai fumato una canna, ma me l'immagino così. O le sigarette fatte con Drum e Old Holborn, arrotolate nelle cartine Rizla (imparai la tecnica a Trento, durante il mio periodo militare, dal mio autista di ambulanze che ci rollava ben altro, nelle cartine). E poi il lento declino, sino alle MS con cui ho chiuso la mia carriera di fumatore; e forse avrei dovuto smettere molto prima, proprio quando ero arrivato alle MS. Forse dovrei parlare anche della pipa, ma non è questa la sede: ci vorrà forse un articolo a parte.

No, non fraintendetemi: non rimpiango quelle vecchie sigarette dannose. 
Prodotti di una piccola Italia in costruzione, quella del Dopoguerra di cui non ho mai fatto parte se non nei racconti di papà, amavo delle Nazionali più che il sapore, l'idea che fossero l'espressione di una popolarità da provincia italiana, quella che aborro quando parlo di opera lirica nel mio sito, ma che è la stessa in cui vivo; quella vissuta e raccontata da Guareschi. Don Camillo in realtà viaggiava a mezzi Toscani - quelli che adesso la British American Tobacco aromatizza vigliaccamente con grappa, caffè e anice - ma teneva in un cassetto della sua canonica un pacchetto di Nazionali perché "...c'è sempre qualche idiota che fuma quella robaccia"

domenica 12 dicembre 2010

Bariade

Cos'è Bari?
Bari è un'idea come un'altra.
Per i baresi - soprattutto quelli lontani - è quella cosa che "...se Parigi avesse lu mare", ma che noi milanesi viaggiatori non arriviamo a capire..
Bari è l'hotel quattrostelle, con le finestre che guardano su un orrido casermone stile Gratosoglio e le coperte cammello stile militare, che sembrano prese dalla mia vecchia "Cesare Battisti" a Trento.
Bari è via Sparano, la risposta pugliese a via Montenapoleone: affollata, caotica, rilucente di mille vetrine ma singolarmente senza odori.
Bari è il lungomare Nazario Sauro, quello che costeggia il castello e arriva al Porto, illuminato da mille lampioni e dominato dal tanfo angosciante di alghe portate dalla risacca sui lastroni di porfido che arginano il lungomare e lasciate a imputridire in attesa della prossima mareggiata. E' il puzzo dell'Adriatico, dolciastro e greve, così diverso da quello serio e virile del Mar Ligure che si respira nei caruggi di Genova.
Bari è la ricerca spasmodica e infruttuosa di un ristorante aperto la domenica, perché anche se il barese emigrato che vuole consigliarti non lo ammetterà mai, sono tutti chiusi: anche L'Osteria del Gambero e persino Ai due ghiottoni, che ben ne dicesse il proprietario del negozio dove ho dovuto comprare l'ombrello per ripararmi dall'unica pioggia caduta quest'anno, che mi ha seguito dal nebbioso nord a bordo della fantozziana nuvoletta del medico congressista in trasferta. 
Bari è Barivecchia, che accetta sorridendo il milanese in trasferta, presentandogli la Cattedrale di San Nicola rigorosamente chiusa e i bassi che ricordano Napoli aperti come ferite - di più: come vulve deflorate da un ignoto stupratore, ma calde e accoglienti perché hanno fatto di necessità virtù. E dai bassi fuoriescono odore di Aiax e donne che sembrano essersi messe d'accordo per pulire tutta la loia che si accumula nel resto della settimana, e rovesciano nei tombini i secchi pieni di acqua sporca.
Bari è quel dialetto così incomprensibile, che non sembra affatto quello di tutte "e" al posto delle "a" di cui abbiamo imparato a sorridere ascoltandolo da Lino Banfi.
Bari è il caffè caldo e strettissimo, servito con regolare bicchiere d'acqua come succede sempre da Roma in giù, e che mi fanno pagare 70 centesimi come a Milano non succede più da... da quando? Da quando ci siamo abituati all'idea che un caffè trangugiato in fretta valga 1 euro intero? Qui ti danno il bicchiere d'acqua quasi a invogliarti a fermarti un attimo in più, a riposare il corpo oltre che la mente, a scansare per un istante in più tutto quello che hai da fare e che, se fossi a Milano, non potrebbe aspettare.
Bari è il sorriso dei due vecchietti cui ho chiesto un'informazione, che hanno guardato incuriositi ma affabili il polentone in trasferta, prima di suggerirmi la strada del Lungomare invece che quella che passa attraverso la Città vecchia,  "...che è più breve ma tanto più difficile", e io che già avevo visto la carnalità dei bassi aperti sulle strade strette ho capito quello da cui cercavano di proteggermi, forse perché convinti che non lo potessi capire.
Bari è la strada infinita sotto le mie suole, alla ricerca della comprensione del mistero che portano sempre seco tutte le città di mare: quel senso di sospensione che deriva dalla commistione fra terra e mare, da un confine molto labile che molto spesso non c'è. E' la stessa sensazione che si prova a Genova, Savona, Venezia, Ancona, Livorno, Messina e tutte le altre città che ho visto e che traggono la loro vita dal mare e che col mare respirano, spesso, un vento greve, pesante, salmastro, caldo anche d'inverno.

E tu cammini pensieroso, triste e solo sotto la pioggia, pensando che non ce la farai, che vuoi di nuovo sentirti a casa con la tua vecchia nebbia: pericolosa, spessa, fredda, umida e talvolta impenetrabile, ma che è casa tua.
E pensi di aver visto tutto, ma improvvisamente ecco che ti si materializzano davanti le vetrine di Magda, il famoso panificio di Bari, quello che - in quel momento, alle 19.30 di domenica sera - ti sembra improvvisamente il centro pulsante della vita di questa strana città. E vedi i ragazzi che fanno ressa dentro e fuori, e capisci che quella, a Bari, è casa meglio e più dello Zucca in Galleria del Corso a Milano. 
Entro, vado alla cassa e chiedo una porzione della specialità della casa: la famosa focaccia barese. Vado al bancone dove una signora corpulenta, una autentica fausse blonde mi chiede con malagrazia cosa voglio. Le porgo timidamente lo scontrino e lei in cambio prende le forbici, taglia mezza ruota, la avvolge in due fogli di carta spessa e bianca e me la porge. Una signora accanto a me la vede e batte le mani estasiata: "Che bella, è tutta bruciata come deve essere!".
Esco sotto la pioggia e assaggio la mia mezza.
I denti si scontrano inizialmente con la consistenza calda e croccante del bordo. Poi trovano il soffice saporoso dei pomodorini che si frangono sprizzando il loro sugo caldo, che cerca di debordare al di fuori dell'angusto spazio della bocca. E infine trovano la parte più morbida della pasta, quella intrisa di generoso olio di oliva pugliese, che ti scende giù per il mento senza che ti venga voglia di asciugarti, a perfezionare una sinfonia di sapori che non avresti creduto di poter provare tutti insieme con questa intensità. E quando credi di aver provato tutto, arriva alla fine l'aspra oliva che scoppia in bocca mille scintille di indescrivibile bontà.

Ecco: dopo aver tanto peregrinato, dopo aver pensato tutto il male possibile, dopo aver persino rimpianto la mia nebbia, finalmente Bari mi ha lasciato scoprire la sua anima in un trancio di pasta di pane bruciacchiata con olio di oliva, pomodorini e olive.
Perché non ho ancora imparato a capire che la vita va gustata lentamente,  con la saggezza dell'attesa?

domenica 5 dicembre 2010

Lacrymosa dies illa


Bergamo: un uomo di origine tunisina è in stato di fermo con l'imputazione di omicidio, forse per un movente sessuale, nei confronti della tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa circa 10 giorni fa a Brembate Sopra. E' la bimba con l'apparecchio ai denti che vedete nella foto qui accanto. E' purtroppo la notizia che tutti stavamo aspettando, senza nessuna speranza in un miracolo. Che l'uomo sia tunisino, o marocchino, italiano, francese o inglese poco conta: è solo, con tutta probabilità, l'ennesimo rappresentante di una categoria di esseri viventi che, quando vedono qualcosa che piace loro, se la prendono, la usano e la gettano. 
Se è una bambina, meglio ancora: si difenderà meno


Lamezia Terme: un uomo di 21 anni (anche in questo caso extracomunitario, ma è solo un caso, lo ribadisco), drogato e senza patente ha investito un gruppo di ciclisti a Lamezia Terme: 8 morti e 2 feriti gravi. L'assassino sorpassava un automezzo a velocità folle: la stessa infrazione che gli era costata la patente sette mesi fa. Un paio d'anni fa era stata prospettata l'imputazione di omicidio volontario per questa specie di eventi; i soliti garantisti di merda, quelli stessi che applaudono alle condanne di Brega Massone e Spaccarotella (ineccepibili, sia chiaro), si sono levati come un sol uomo a difendere questi efferati assassini

Roma, Ospedale San Filippo Neri: un ragazzo con una malattia ematologica muore in sala operatoria per cause ancora da accertare; siamo lontani le mille miglia dall'identificazione di un nesso di causa, ma i saggi giornalisti hanno già deciso e affermato con voce vibrante che - indovinate un po'! - si tratta di un caso di malasanità. I medici escono per partecipare la notizia ai parenti i quali, per tutta risposta, si fanno giustizia come hanno imparato dai media: la Legge è troppo lenta, intanto ci si fa giustizia da soli: li aggrediscono pestandoli a sangue. Segue denuncia. Ovviamente dei parenti contro ai medici

Televisione, un canale nazionale a larga diffusione: una famosa conduttrice, uno sciacallo con le tette, dopo aver annunciato di aver messo i suoi sgherri all'usta a Brembate Sopra in cerca di notizie e lacrime fresche su un nuovo cadavere preferibilmente minorenne e di sesso femminile, ha presentato garrula l'esclusiva di una lettera che la madre di Sarah Scazzi le avrebbe affidato. Purtroppo quest'ultimo annuncio ha fatto poco effetto, ma doveva essere messo nel conto, no? Ci stupisce che una vecchia lenza come la conduttrice di cui sopra abbia scelto di tornare ad Avetrana, in attesa di altri potenziali morti ben più interessanti. A volte basta aspettare e rilassare un po' l'audience, magari parlando di ricette di cucina; tanto è questione al massimo di una settimana

    Oggi una persona cui voglio molto bene, affezionata lettrice di questo blog, mi ha chiesto come mai da un po' di tempo non vi scrivo articoli.
    Vuoi sapere il perché? Ho orrore dell'essere umano.
    Per un po' mi rifugio nel mio sito di opera lirica; mi trovate lì