sabato 20 marzo 2010

Mattino a Ferrara


Ferrara sembra quasi scusarsi di esistere, in una grigia mattina d'inizio primavera.
Giro per le strade ancora assonnate mentre aspetto Matteo. La città è ingannevole: sembra molto bella, ma poi ti accorgi che il suo alfa e il suo omega si collocano fra la Cattedrale ed il castello. Poi ci sono alcune viuzze antiche, con il colore rosso dei mattoni che domina e ci riscatta dal grigio plumbeo del cielo.
Cos'è Ferrara? E' un equivoco, un qualcosa che non c'è come la mitica Brigadoon, il paese scozzese che compare solo un giorno all'anno.
Quando chiedete a un ferrarese se la sua citta' sia in Emilia o in Romagna, egli vi guarda imbarazzato senza sapere cosa rispondere, o tutt'al più trincerandosi dietro ad un generico: "E' terra di confine", che vuol dire tutto e niente, ma è un sistema comodo per non rispondere, per negare una definizione.
Girando per la cittadina si arriva al ponte sul Po di Volano, uno dei rami del grande Delta; non è - come ci si potrebbe aspettare allorquando si parla di rapporto fra acqua e città - una collocazione centrale: è invece piuttosto periferica, come se il Grande Fiume non appartenesse ai ferraresi che se ne sentono imbarazzati.
I negozi al mattino faticano ad aprire; per un milanese è un'esperienza scioccante girare alle 9.30 e trovare le serrande ancora abbassate. Per le strade ci sono poche persone e qualche bicicletta. Arrivo nella piazza e mi fermo ad un bar; mi siedo ad un tavolino e apro il Corriere e, guardando le persone che passano accanto a me, mi sento osservato. So che ci sono due grandi occhi neri, scuri, fondi come la notte e sormontati da due sopracciglia dritte ed affusolate, che li rendono enigmatici, misteriosi. E' Micol? Ma non era bionda? Possibile che mi stia sbagliando? Non riesco a capire, vorrei vedere meglio ma ho paura che questi due grandi occhi un po' tristi scompaiano, invece di guardarmi con comprensione quasi sovrumana e, allo stesso tempo, con aria vagamente canzonatoria come stanno facendo.
Le edicole della piazza espongono le prime pagine dei giornali; mi colpisce che le testate locali non tengano in nessuna considerazione le principali notizie nazionali ed internazionali, ma siano prodighe di dettagli sulla morte improvvisa e naturale di un imprenditore locale. Appare dal bar una ragazza molto carina e gentile che prende la mia ordinazione e, di sua iniziativa, mi porta in più un assaggio di "tenerina", la torta soffice di cioccolato che è il vanto di Ferrara (assieme, ovviamente, alla salama da sugo e ai cappellacci di zucca). Gradisco l'omaggio e mi concentro sul dolce, cercando di dimenticare quegli strani occhi che mi stanno seguendo in questa città un po' triste e sonnolenta.
Mi alzo dal tavolino, il Corriere sottobraccio. Mi allungo la strada in Piazza Trento e Trieste, dove stanno allestendo il mercato. Un bancarella vende libri usati e prendo distrattamente in mano il "Vangelo secondo Gesù Cristo" di José Saramago; l'avevo già letto, però è un pretesto come un altro per guardarmi in giro senza farmi notare. Uno sguardo furtivo: gli occhi di Micol - ma sarà proprio lei? - spuntano da dietro la statua di Gerolamo Savonarola che lancia il suo anatema al cielo.
Faccio finta di nulla mentre cammino per le viuzze. Vorrei scantonare questi occhi - Micol, o chiunque sia - ma non ce la faccio e in fondo forse nemmeno voglio. La città si sta lentamente animando: i ferraresi e i turisti si riversano per le strade e si mettono fra me e gli occhi.
Suona il cellulare: è Matteo che sta arrivando e mi notifica la sua posizione.
Mi volto, malinconico, con la sensazione di aver perso qualcosa: Micol non c'è più

giovedì 18 marzo 2010

Haiku serale


Lieve il tuo sguardo

nel mio cuore in tempesta

vento di brezza

Cos'è un haiku? E' una piccola poesia di origine giapponese che consta di soli 3 versi rispettivamente da 5-7 e 5 sillabe. In tutto 17 sillabe in cui bisogna comprimere un pensiero, un sentimento. E' una bella sfida per chi ha voglia di cimentarvisi e, da un po' di tempo, mi ci sto appassionando. Spero che apprezziate i miei sforzi, anche se ciò - ovviamente - non farà di me il poeta che non sono e che, a 44 anni suonati, non ho nessuna intenzione di diventare

domenica 14 marzo 2010

Il dodicesimo uomo


Da tifoso milanista intristito da anni di vacche magre, sono costretto a confidare nelle capacità dell'Inter di trovare in se stessa, più che nei meriti altrui, un po' di motivi per provare patemi. Venerdì sera siamo andati oltre ogni più rosea previsione, e non tanto per il risultato - ci può stare perdere in casa di una squadra tosta e legnosa come il Catania - quanto per le simpatiche modalità con cui detta sconfitta è maturata.

Si dirà: mancava Mourinho; con il portoghese sulla panca i ragazzi avrebbero corso il triplo e si sarebbero mangiati gli etnei in un boccone. Ma se da un lato non credo che Milito e soci, professionisti tosti e navigati, sentano il bisogno del cagnone dietro le caviglie per correre, dall'altro penso che comunque il buon Beppe Baresi abbia consumato tutta la ricarica del cellulare per avere dallo Special le informazioni sulle scelte tecniche. E' pertanto da ascrivere esclusivamente al geniale Special la scelta di schierare in una fase critica della partita tale Sulley Muntari, colui che a buon diritto possiamo definire il dodicesimo uomo. Del Catania.

I fatti sono ben noti a tutti, per cui evito di insistere ricordandoli ai miei lettori, alcuni dei quali so essere interisti. Dirò solo che, perfidamente, mi si è affacciata la possibile espressione del mio amico Stefano Barbetta, autore di libri di successo e grande esperto di sport (benché interista), di fronte alla impropria parata in area di Sulley; espressione che io conosco molto bene, perché fu quella esibita dal suddetto Barba (come amano chiamarlo gli amici intimi) in una memorabile partita di scopa d'assi a coppie, allorquando il suo socio dell'occasione, dall'improbabile nome di battaglia di "Vande", calò proditoriamente un settebello "scoperto" che fu immediatamente preso dal sottoscritto, nell'occasione avversario. Ricordo ancora le associazioni verbali a sfondo animalistico-teologico piuttosto audaci che il Barba escogitò, denotando una fantasia che s'intuiva già allora destinata a ben altri cimenti culturali. Ieri mattina, il Barba ha rievocato con tono nostalgico quei bei momenti ripetendo per me solo quelle figure retoriche che mi ha confidato di aver destinato venerdì sera al giocatore ghanese.

Siccome sono un po' antipatico e, al momento, non ho un cazzo di meglio da fare, propongo al Barba e ai miei lettori questa simpatica chicca prelevata dal "Corriere della Sera" che si deve alla penna di Alessandro Pasini. Spero che vi diverta come ha divertito me. Io NON sono interista e NON ho cugini.

PS Leggete i libri di Stefano Barbetta, pubblicati da Morellini editore. Prossimamente ne sono in uscita ben due: "Mondiali pret-à-porter" e "La bibbia dei mondiali". Sono divertentissimi e molto documentati. Potete trovarne notizia qui.

Sulley Muntari, il 12° uomo del Catania venerdì sera, reagisce a testa alta il giorno dopo la serata-no siciliana. In fondo, i cartellini rossi vanno, ma la vita continua.

Ore 8: sveglia, dopo il sonno del giusto.
Ore 9: esce di casa, infila il primo incrocio a 190 all’ora. Multa.
Ore 9.01: infila il secondo incrocio a 220. Seconda multa e ritiro patente.
Ore 9.10: dopo lunga colluttazione con il vigile, chiama un taxi per Appiano.
Ore 9.40: non convinto della tariffa, entra in tackle da dietro sul tassista e gli frattura un perone.
Ore 9.41: non convinto, gli frattura anche l’altro.

Ore 10: allenamento.

Ore 10.01: al 12° stop consecutivo sbagliato, dà una gomitata a un cipresso poi lo applaude polemicamente.
Ore 11.30: a fine seduta Mourinho lo rincuora: “Non ti preoccupare, è tutta colpa di Balotelli. A Londra giochi tu”. Lui applaude polemicamente.
Ore 12: pranzo.
Ore 12.01: caffè.
Ore 16: controlla le mail. Fra i messaggi, i ringraziamenti delle società Ac Milan e As Roma; un biglietto gratis per Londra in business class per lui e famiglia con soggiorno e benefit offerti dal Chelsea; il ringraziamento del Portsmouth: senza i 15 milioni della sua vendita il club sarebbe finito in amministrazione controllata già da due anni. Lui apprezza e applaude polemicamente.
Ore 17: la società Fc Internazionale lo chiama per consolarlo: “E’ tutta colpa dell’arbitro”. E gli prolunga il contratto fino al 2022.
Ore 17.01: soddisfatto, festeggia ordinando una Lamborghini con i rostri.


Muntari2.jpg
Ore 18: il procuratore lo chiama: D&G lo vuole testimonial della sua nuova camicia di forza slim-fit.
Ore 19: in palestra al Fight Club.
Ore 19.01: Brad Pitt gli ritira la tessera perché non rispetta le regole. Sulley è talmente felice che non obietta nemmeno che il club non ha regole.
Ore 20.30: cena al Sushi restaurant.
Ore 20.31: sfila un legamento allo chef perché non ha cotto il pesce.
Ore 23.00: un bel dvd a casa, l’ultimo Bruce Willis: “Play hard. 70 secondi per uscire”.
Ore 23.01.10: applaude polemicamente e spegne.
Ore 23.30: la moglie lo aspetta invitante a letto. Lui si fionda.
Ore 23.31: dorme il sonno del giusto.


venerdì 12 marzo 2010

Di notte


L’ospedale di notte è – parafrasando Conte – un’idea come un’altra. È un ambiente strano, misterioso, che da studente mi affascinava per i suoni ovattati ed attutiti. È notte, e sono appunto in ospedale ad espletare le mie mansioni ma, avendo dietro la mia compatta Sony nuova da 14 megapixel, piccola e maneggevole, ho fissato qualche aspetto diverso dal solito, meravigliandomi io stesso della solitudine degli ambienti che, di solito, sono invece frenetici ed affollati. Sembrano – nonostante il design moderno – i corridoi descritti da Mario Tobino nei suoi libri.

Mi aggiro per i corridoi che risuonano del rumore dei miei passi, che normalmente - nel frastuono quotidiano - non percepisco. Sento persino lo scatto delle cifre dell’orologio e il ronzio del climatizzatore che convoglia l’aria che respiro.

Vado nello spogliatoio del blocco A e mi metto una tuta azzurra; non devo operare – in effetti non ne ho nessuna voglia – ma così il mio corpaccione si muove più liberamente.

Entro in blocco e, in recovery, trovo Elena e Martin, i turnisti della notte; scambiamo due chiacchiere in tutta tranquillità ricordando momenti un po’ critici che non abbiamo nessuna voglia di sperimentare nuovamente, almeno per stasera, anche se sappiamo tutti molto bene che un centro di Emergenza di Alta Specialità – un EAS, insomma – ha buone probabilità di vedersi qualche casino enorme. Il ricordo, condito di un po' di allegra ironia, ci aiuta ad esorcizzare l’angoscia sottile che tutti proviamo avendo in gestione un ambiente che può animarsi improvvisamente spezzando quella tranquillità che mi permette di scrivere queste righe. Sono anni ormai che sono “padrone” di queste situazioni e ancora provo in una certa misura quella sensazione di inadeguatezza che provavo le prime volte che sapevo di essere il terminale delle decisioni. È quello, in definitiva, il vero problema: la decisione, non l’atto conseguente.


Vado nel corridoio ed entro a passo sicuro in sala 4, quella dell’urgenza. È l'unica sala che abbia le luci accese - le altre riposano tranquille - ed è un posto che conosco molto bene. Se rileggo il mio registro operatorio mi rendo conto di averci passato un bel po’ di tempo lì dentro, e mi fa un po’ strano vederla vuota e silenziosa. Mi muovo leggermente, quasi in punta di piedi e cercando di non fare rumore, pieno di rispetto per quell’ambiente che è pieno di un’energia inquieta e che m’incute, a quest’ora di notte e con tutto questo silenzio, un po’ di paura primitiva. Scatto qualche foto come quella che vedete qui accanto, alla vostra destra.

Poi mi trasferisco in Terapia Intensiva e vado a trovare la signora L.A. E' nel secondo letto, è ancora un po’ impegnata ma inequivocabilmente viva; era stata un’inquilina proprio della sala 4 e aveva causato a me e agli anestesisti un po’ di grattacapi, come ricorderanno i miei lettori. È intubata ma mi sorride e mi stringe la mano. Gli infermieri della TIG sono un po’ incuriositi dalla mia smania documentarista: di solito i chirurghi non amano frequentare un ambiente che accoglie i pazienti che li impensieriscono maggiormente, ma io non sono proprio sconosciuto e sono accolto da un bel po’ di sorrisi.


Negli studi medici ci sono le rianimatrici della notte, Cristina e Alessandra, che mi fanno le linguacce e qualche segno di esorcismo: non sono noto per essere particolarmente fortunato durante i miei turni di guardia. Parliamo di pazienti, di lavoro, ma anche di palestre e del solito problema di tutti: il peso, come fare a perderlo senza rinunciare a quel po’ di stravizi che ognuno di noi sente di meritare per sopportare il logorio della vita moderna.

Torno alla mia scrivania e mi collego ad internet, il tanto necessario per godermi la sconfitta dell’Inter che sta facendo di tutto per perdere un campionato abbondantemente vinto già ad agosto. Mi metto al lavoro per compilare questo strano articolo e già mi chiamano giù in PS per ridurre una lussazione di spalla. È un lavoretto simpatico e talvolta non particolarmente impegnativo, che però dà molte soddisfazioni, specie se lo fa un chirurgo che non lo fa d’abitudine come invece – poniamo – un ortopedico: sono fortunato oppure immodestamente molto bravo, e la spalla rientra in sede con un sonoro cloc, un suono meraviglioso anche per un appassionato di bella musica.

Il tempo di ritornare alle sudate carte e di nuovo vengo chiamato giù per una storia strana che – se è vera – è orribile, ma mi lascia quanto meno qualche sospetto nel suo svolgimento, così come mi viene raccontata; e siccome mi astengo dal giudizio, ho deciso di non raccontarla nemmeno a voi, anche perché ne sentiamo talmente tante di storie brutte sicuramente vere, che non c'è bisogno di quelle su cui non abbiamo sicurezza. Una bimbetta di quasi tre anni mi sorride con l’aria furba e i suoi occhi sprizzano intelligenza, perspicacia e simpatia. Chiacchiera senza fermarsi un attimo: è quasi troppo bella per essere vera e troppo serena per essere vittima di qualcosa, ma non si può mai dire; ne parlo con un consulente dell’altra parte di Milano, una che è abituata a vedere brutte cose e mi fa domande che rafforzano i miei sospetti. O forse spero solo che le cose siano come le vorrei io, non come me le hanno raccontate.

Torno ancora sù. Ho voglia di finire quest'articolo. Ho voglia di esorcizzare la notte. Se fumassi, questo sarebbe il momento di accendersi una sigaretta. Il silenzio della notte è franto dalla musica che esce dal mio MacBook.

La notte continua

mercoledì 10 marzo 2010

Vai Girardengo!


E' iniziata oggi la Tirreno-Adriatico, gara ciclistica propedeutica alla prima grande classica primaverile, e cioè la Milano-Sanremo.
La Tirreno-Adriatico non è un cimento di particolare rilevanza, ma non c'è ragione di affrontarla senza essere attrezzati di tutto punto; così deve aver pensato anche il corridore - di cui non so il nome, ma ovviamente italiano - che si è fatto di EPO probabilmente durante tutto il lungo inverno ed è stato subito beccato al controllo antidoping preliminare.
Qui siamo oltre la disonestà intellettuale, che - nell'aggettivo - presuppone l'esistenza di un cervello pensante. Mi riesce difficile credere che ci sia ancora qualche ciclista così cretino da pensare di bombarsi senza essere beccato con la fagianella in bocca, ma tant'è: bisogna rassegnarsi.
E noi appassionati di ciclismo, noi che ci siamo entuasiasmati alle gesta di campioni straordinari non sempre necessariamente italiani, ringraziamo commossi questo branco di idioti agghiaccianti che pensano di essere i più furbi della compagnia e che, col loro comportamento indecoroso, disonorano uno degli sport più belli e talvolta epici di sempre.
Vai, Girardengo...

lunedì 8 marzo 2010

Dei delitti e delle pene



Sette omicidi (ma probabilmente sono dieci), quattro dei quali attribuiti direttamente alla sua mano; in uno di questi, la testa della vittima decapitata è stata usata dal suo assassino per giocare a pallone.
Innumerevoli rapine, sequestri di persona, evasioni multiple, con i più fantasiosi stratagemmi (iniezioni endovenose di urine e forse di sangue infetto per guadagnare un'epatite e, quindi, un ricovero in ospedale da dove è più agevole scappare).
Condanne per complessivi 4 ergastoli e - a mo' di giunta - 260 anni supplementari di carcere; non gli basterebbero 10 vite per smaltire tutto un debito di entità così massiccia, ma tutto questo non è bastato a blindare definitivamente dietro le sbarre uno dei criminali più efferati che la storia recente di questo Paese schifoso abbia conosciuto.
Signore e signori, da oggi Renato Vallanzasca - dopo appena 40 anni - può uscire almeno parzialmente dal gabbio ed andare a lavorare in qualche cooperativa: giustizia, tanto per cambiare, non è fatta, con buona pace di chi farnetica della sicurezza della pena.
Si ha un bel dire che il carcere deve servire a correggere, a redimere, a dare una nuova chance, ma che possibilità di redenzione ci possono essere per un assassino che palleggia con la testa di una vittima appena decapitata prima di scaraventarla nella porta avversaria?
Potremo stare a discutere mesi e mesi su quanta colpa ci sia nella società corrotta e indifferente che ha prodotto un Vallanzasca, e probabilmente non arriveremmo mai ad una soluzione che ci renda soddisfatti, perché comunque non capiremmo dove finiamo noi e dove inizia lui. E comunque, in fondo, poco conta: la Legge violata, tradita e stuprata, sa sempre perdonare e dare un'altra chance a personaggi come Vallanzasca, talmente amati da essere oggetto di decine di richieste di grazia degli intellettuali e di migliaia di lettere d'amore, grazie al fascino torbido del malavitoso che sfida il mondo che lo circonda.
E' un eroe dei nostri tempi?
No. E' un miserabile povero piccolo coglione borioso che ha fatto strame della propria vita e di quella altrui con un'indifferenza agghiacciante che, in un Paese civile, gli avrebbe garantito ben altra sorte, con buona pace di quel Cesare Beccaria di cui - nel titolo - ho voluto rievocare l'opera più famosa, e che ha dato il proprio nome all'Istituto in cui il piccolo ras della Comasina ha iniziato la propria carriera di carcerato. L'unica carriera che è stato in grado di fare

sabato 6 marzo 2010

Hannah Arendt oggi



Apprendo oggi che la Polizia Postale, a seguito di un'indagine serratissima, ha scoperto l'inventore del gruppo di Facebook "Tiriamo al bersaglio con i bimbi Down". Trattasi - a quanto si dice - di cingalese di 31 anni mentalmente disturbato.
E te credo, verrebbe da dire a Roma e zone limitrofe; anzi, l'idea del disturbo mentale è particolarmente rassicurante perché chiama automaticamente fuori dalla responsabilità la comunità civile e benpensante.
Ma come la mettiamo con i circa 1000 personaggi che si sono iscritti al gruppo nel giro di nemmeno qualche ora e che ora si sentiranno defraudati dalla chiusura del loro gruppo preferito? Anche loro mentalmente disturbati? Oppure - come si dice in questo caso - hanno fatto la cazzata per noia, un po' come quelli che lanciavano i sassi dal cavalcavia per spirito di imitazione?
Comunque la si rigiri, una ben triste vicenda: brutta, sporca, schifosa. Pur essendo come sono un amante del trash perennemente alla ricerca del peggio che un essere umano può dare in situazioni di stress e non, devo dire che questa vicenda mi ha scosso abbastanza.

Passiamo ogni anno a celebrare Giornate della Memoria, in cui ci diciamo "Mai più un'altra Auschwitz" ripetendoci che i nostri figli e nipoti devono vedere quelle immagini e leggere quei documenti, e sapere che sono successi quegli orrori perché non li reiterino a loro volta, e poi ci troviamo a fronteggiare lo schifo dove non ce lo aspetteremmo: a casa nostra. Ben lo aveva compreso con il solito acume il solito Stephen King che, nel racconto "L'estate della corruzione" (tratto dalla raccolta Stagioni diverse) ci fa vedere come un ragazzino sveglio e di ottima famiglia affronta il proprio personalissimo percorso di corruzione a contatto con un ex criminale nazista per il solo gusto di farlo.
E forse questa è la spiegazione più ovvia di tutto quello che è successo, in quegli anni e in quelle tenebre: il male per i singoli è frutto di ideazioni complesse e psicotiche, ma per la massa è spesso banale, come ben diceva la Arendt.
La verità è che non ci sono isolati psicolabili che auspicano di sparare ai bambini down: ci sono migliaia di teste di cazzo che si iscrivono in massa ad un richiamo di odio, sperando di assistere ad un bagno di sangue.
Non mi fa orrore il primo che lancia il masso dal cavalcavia, perché dò per presupposto che sia pazzo; impiccherei volentieri il secondo che lo fa, perché - lui sì - è quello che lo fa per noia, per spirito di imitazione, per corruzione.
Per banalità

mercoledì 3 marzo 2010

Post-scriptum: Jana e tutti gli altri


In questi due giorni - da quando cioè è stato pubblicato il mio post precedente - sono stato rimproverato a più riprese perché non ho citato tutti gli attori del dramma: Jana, per esempio, che è stata al fianco della prima Stefania per tutta la durata dell'intervento; o Guido, che era di fronte a me con Alessandra; o Martin, che è stato una scheggia a passare gli strumenti con Cristina che armeggiava silenziosamente con l'emorecupero; o Alessandra "Franca" che ha visto la TAC dandoci le dritte necessarie per fare le cose giuste.
E vogliamo parlare dei mitici infermieri del nostro splendido PS, dei tecnici di radiologia, degli operatori dell'elisoccorso di Como e di tutti coloro - Dio mi perdoni se ne dimentico qualcuno - che si sono sbattuti come delle bestie perché tutto andasse per il meglio?
Certo che no: non ce ne dimentichiamo.
E, se avessi fatto una cronaca, o una lettera di ringraziamento, avrei fatto un elenco rigorosamente alfabetico.

Ma quello che ho scritto non è cronaca: è un articolo di blog.
Un blog non è fatto di cronaca, se non come pretesto per iniziare: è fatto invece di osservazioni, di impressioni, di flash.
Un blog non è una lettera di ringraziamento collettivo: è un racconto fatto di emotività, di riflessioni, di ricordi.
Ecco perché al di là di tutto in questa vicenda - che rimarrà a lungo impressa nella mia memoria - c'è soprattutto un'immagine, una voce: quella della prima Stefania, quella del pomeriggio. E' lei che mi è rimasta attaccata al pensiero ed è alla sua immagine che questa vicenda mi rimane maggiormente legata.
Non so se sia giusto o sbagliato, ma è così e mi scuso con gli altri attori della vicenda - fondamentali ed eccezionali cui va la mia personalissima gratitudine - che hanno reso possibile tutto ciò.
Loro sono stati favolosi ma, ancora adesso, se chiudo gli occhi, quello che risento è la voce un po' petulante di quella formidabile rompiballe che è la dottoressa Stefania B. che urla, abbaia ordini, che mi chiama, che si incazza con tutti perché manca il sangue, perché il chirurgo non ferma l'emorragia, perché non ce la facciamo.
E quel donnino piccino e sempre sorridente è l'immagine della vita che, in un pomeriggio febbrile dell'ultimo giorno di un freddo Febbraio, noi tutti suonatori di una grande orchestra, siamo riusciti ad imbrigliare in una rete di amore

lunedì 1 marzo 2010

Stefania e io


Ieri pomeriggio mi sono ritrovato in sala operatoria con Stefania a lottare - il termine non sembri esagerato - con la morte sotto forma di fiume rosso che usciva da ogni recesso dell'addome di L.A. Sembrava una di quelle scene che si vedono ogni tanto in "ER": sacche di sangue che vengono montate e svuotate in pochi minuti, braccia affondate nel sangue sino ai gomiti, l'angoscia di Stefania - un mostro, una leonessa indomita, una belva inferocita, la madre di tutte le anestesiste - che alza la voce e mi chiama, mi sveglia dal gesto tecnico che cerco di fare obbligandomi a tener presente la vita, quella per cui stiamo facendo la guerra: "Si sta arrestando", "Massaggiala!" - e io: "La controllo, non sta sanguinando"; e lei: "Fa' qualcosa, muore!"; e io, impaurito e impotente, che continuo a pressare garze nel retroperitoneo, che entro con la mano nel buco del diaframma e massaggio il cuore, che strappo via il rene per arrivare a quella maledetta vena stracciata, ripararla e pensare "Cazzo, ce l'ho fatta" e lei che ripete ancora "Non tiene la pressione! Non ho più sangue" e abbaia ordini secchi come frustate alla sua collega, agli infermieri, quasi che la sua autorità forte, commovente, possa avere il potere di invertire il corso del fiume inarrestabile.
Guido mi guarda e gli sembra strano che io resechi il colon sbattendomene dell'anastomosi, ma io non ci penso, il mio occhio corre al monitor, al tracciato della pressione, a quei valori che scendono. Continuo a "paccare" e il sangue si fa acqua, lei non coagula più, ma Stefania è indomita, il suo viso è splendente, duro come una roccia di basalto, i suoi occhi scintillano, ognuno di noi due ha in mano un pezzo di vita di L.A. ma è lei - piccola donna d'acciaio - a tenerci uniti in una corsa pazza e disperata, piena di forza e d'amore per la vita, in uno di quei momenti magici che danno un senso a tutte le nostre sofferenze quotidiane.
"No mas" dico, allontanandomi dal tavolo: mi guardo, sono completamente inzuppato di sangue, quel sangue che è uscito da L.A. e che ho cercato con tutto me stesso di lasciare dentro al suo corpo. Il monitor ticchetta rapido, Stefania lo guarda, poi ci guardiamo sconsolati: non sappiamo se ce la farà, è più no che sì.
Esco dall'ospedale e la sera inoltrata mi avvolge come una coperta pesante; so che non riuscirò mai ad addormentarmi, stanotte.
E' proprio così. Io sono a casa ma il mio pensiero è lì, in recovery. Accanto a L.A. adesso c'è un'altra Stefania, che si prende amorevolmente cura di lei; passa tutta la notte accanto e non stacca mai. All'una mi viene il pensiero che forse la paziente è ancora sulla barella spinale e telefono, mi risponde la Stefania della notte, l'angelo biondo dal sorriso tenero e rassicurante: no, la spinale l'ha già tolta, ma L.A. sta perdendo ancora. Anche lei insegue, passa la notte a riempire, rifornire, dare massa, quella massa che lentamente rimpiazza e cerca di trovarsi la strada nelle vene esangui. C'è anche Laura che veglia, che osserva, che rassicura, ma è Stefania che - con la calma dei forti - guida amorevolmente i liquidi nel corpo ancora aperto, che disperde assieme ai liquidi anche le nostre speranze.

Al mattino L.A. è viva. Il suo corpo martoriato ha reagito. Stefania della notte è disfatta, ci incontriamo di sfuggita al mattino. L'altra Stefania - l'indomita lottatrice con cui ho fatto la guerra del pomeriggio - e io ci sentiamo per telefono, siamo commossi, tratteniamo a stento le lacrime: ecchecazzo, ce l'abbiamo fatta.
Mi torna in mente il mio vecchio amico Massimo con il quale ho scambiato un caffé una mattina dopo una notte di guardia. Lui era disfatto e io gli chiesi: "Com'è andata?". Lui, sorridendo, un lampo di malizia negli occhi: "E' stata dura, ma abbiamo vinto noi".

Il sollievo è un fiume di acqua dolce, calda, tropicale.
Be', che dici Stefania?
Per una volta abbiamo vinto noi.