giovedì 8 aprile 2021

Nel buio, come sempre

 

Ho terminato il libro di Marco Clementi dedicato alla ricostruzione del momento più buio della nostrastoria del secondo Dopoguerra: “La pazzia di Aldo Moro” (BUR 2001).

Alla fine di una lettura così complessa che avrebbe la pretesa di essere storicamente attendibile (rispetto quanto meno alle versioni definite come variamente “complottare” dai nostalgici in servizio permanente effettivo), i dubbi sono più delle certezze.

Innanzitutto, si deve accettare la visione di Clementi che – pour ainsi dire – non disprezza (a essere generosi) il punto di vista delle BR: anche l’uso della terminologia accorda ai vecchi terroristi lo status di rivoluzionari che, a regola, non meriterebbero, considerando anche e soprattutto presupposti e conseguenze del sequestro stesso che, della loro azione rivoluzionaria, dovrebbe essere stato il culmine.

Infatti, dovremmo proprio presupporre un’organizzazione esterna all’Italia, con Moretti e soci in guisa di utili idioti, per farci una ragione precisa della progettazione di un sequestro che non aveva nessuna possibilità di riuscita “politica”, o “strategica” in senso più lato; solo qualcuno di poco calato nella realtà italiana di quel periodo avrebbe potuto pensare all’efficacia un’azione di questo tipo.

Il presidente della democrazia cristiana Aldo Moro era da tempo uno dei possibili candidati al sequestro e, a quanto si legge, sarebbe stato scelto per il suo ruolo di alto funzionario del partito più odiato, e perché sarebbe stato più facile rispetto ad altri. Quello che non si capisce, invece, è come Moretti e soci possano aver pensato di avere un successo “politico” in un contesto come quello italiano di inizio 1978 che vedeva il PCI di Berlinguer approssimarsi alla maggioranza di governo, con la benedizione (o tolleranza) degli USA, grazie alla realizzazione del famoso “compromesso storico” di cui lo stesso Moro era – se non promotore – quanto meno pacifico e consenziente ratificatore.

Appare quindi ovvio anche con gli occhi dell’epoca, e sin dalle premesse, che le BR avrebbero trovato due ostacoli pressoché insormontabili nella DC e nel PCI; "quasi amici" di maggioranza dediti – com’era logico – alla conservazione di quelle istituzioni di cui erano garanti, i primi per vocazione e lunga militanza; ma, in fondo, anche i secondi. Non va infatti dimenticato che il PCI aveva fornito risorse importanti per la Resistenza, per la nascita della Repubblica e per la scrittura della Costituzione; che lo stesso Togliatti non solo se ne era fatto garante, ma aveva bloccato qualunque tentativo di insurrezione, ivi compreso quello che sarebbe potuto esitare dopo l’attentato di Pallante del Luglio del 1948. I quadri del PCI (nonostante avessero avuto nei lombi i brigatisti che facevano parte dell'album di famiglia, come diceva Rossana Rossanda), non avevano la rivoluzione nel proprio DNA; e, dopo aver fatto tanto per arrivare alla maggioranza di governo, non se ne sarebbero fatti scalzare da quella conventicola di squinternati che, almeno teoricamente,  tale rivoluzione aveva invece proprio in programma di realizzare.

La DC – per ragioni analogamente istituzionali – a sua volta non avrebbe mai ceduto di fronte al ricatto destabilizzante.

Le conclusioni di Clementi, in tal senso, sono fuorvianti: lui punta tutto sull’assunto che la DC abbia la responsabilità morale di non aver fatto nulla per salvare il Presidente. Ma, contrariamente a quanto affermato alla fine del libro, nessun notabile democristiano aveva fatto sfoggio di ignavia, bensì esattamente del contrario: una fermezza ai limiti del cinismo, che ha trovato compatto un fronte che, per sua natura, abitualmente non lo era. Piccoli, Andreotti, Fanfani, Zaccagnini e tutti gli altri dimostrarono la forte determinazione non tanto a non rilasciare i “prigionieri politici” (probabilmente un pretesto anche per le BR), quanto nel non riconoscere lo status di interlocutori ai terroristi; che era il vero target della manovalanza che aveva in mano Moro. Ne deriva che la tesi vagamente adombrata da Clementi - che cioè la colpa della morte di Moro sia in capo alla DC - sia assolutamente comoda e falsa: per le forze di maggioranza fu inevitabile resistere, la colpa dell'assassinio di Moro fu solo ed esclusivamente di chi lo ammazzò.

L’altro aspetto che fa pensare è il ridicolo “processo” cui Moro è stato sottoposto da Moretti, Gallinari e gli altri sicari presenti in via Montalcini. A leggere la documentazione di cui Clementi fa ampio sfoggio, c’è da chiedersi cosa realmente volessero ottenere i terroristi dal Presidente della DC; e per quali colpe, alla fine, lo abbiano condannato a morte. Rivelazioni? Loro non sapevano nemmeno – per dirne una – dell’esistenza di Gladio; e Moro, stando a quanto si legge, è riuscito ad evitare di parlarne. A ben vedere, quello poteva essere l’unico argomento di un certo interesse per loro, invece delle tendenze politiche della famiglia Agnelli o di fantomatiche trame di un presunto imperialismo trasversale. Addirittura, a leggere Clementi, sembra che Moretti e soci non sapessero nemmeno cosa chiedere all’attento presidente DC, per propria consuetudine e formazione molto più abile nella dialettica rispetto ai suoi interlocutori.

Infine, l’esito. L’inevitabile omicidio del Presidente DC ha ottenuto da un lato il risultato di far vedere con chiarezza che razza di belve sanguinarie fossero questi assassini; e dall’altro, di compattare nel segno di una fermezza bipartisan un Paese lacerato e diviso, portando alla morte il terrorismo politico.

Se questa era una risoluzione strategica, un attacco al cuore dello Stato, abbiamo corso il rischio di essere governati da un gruppo di idioti.

Ma gli idioti – e questo è abbastanza bizzarro – sono riusciti a mantenere un ostaggio di quel genere nascosto non sull’Aspromonte, ma in un appartamento a Roma, senza che delatori o infiltrati dessero a investigatori non particolarmente solerti un’idea di dove fosse la “prigione del popolo”.

Quindi, ecco: la “versione così com’è” di Clementi lascia più dubbi e perplessità di quanti uno ne avesse prima di leggere. Ma uno, soprattutto: per capillare che fosse l’organizzazione di questi personaggi, resta difficile credere che potessero organizzare da soli un sequestro di un personaggio così importante, protrattosi per quasi due mesi, con i responsabili del medesimo liberi di andare a lavorare, di fare la spesa o di scorrazzare in lungo e in largo per l’Italia. E, anche fosse stato possibile nei termini in cui Moretti e Clementi vogliono farcelo credere, qual è stato il fine ultimo del sequestro? A chi ha giovato? Era scritto nelle premesse che sarebbe andato malissimo, che sarebbe stato un suicidio politico e “strategico”. Chi avrebbe potuto organizzare un’azione che non aveva nessuna possibilità di riuscita in un contesto come quello italiano di quel periodo? Solo qualcuno che era talmente esterno da non avere nessuna idea sul medesimo, ma che puntava a una destabilizzazione per evitare di perdere agganci geo-politici. Il partito comunista più importante fra quelli delle nazioni non allineate col Patto di Varsavia, nel contesto dell’unica penisola europea stabilmente democratica, stava per entrare nella maggioranza parlamentare assieme alla democrazia cristiana. Se consideriamo anche gli avvenimenti degli anni successivi, che sarebbero culminati con l’attentato al Papa, credo che la lettura degli eventi sia tutta lì.


In conclusione: un libro interessante, se si riesce a superare il disgusto per le affermazioni filo-BR del suo autore; ma decisamente non un libro risolutivo su un tema che, analogamente ad altri in Italia, non troverà una risposta definitiva