venerdì 11 giugno 2010

L'uomo che sorride


"Dal trattamento massimo tollerabile al minimo efficace: questa è stata la missione della mia vita".
Questa è la sintesi o, se vogliamo, il testamento spirituale di un grande uomo, spesso discutibile come tutti i grandi uomini, ma ancora oggi un punto fermo per tutti coloro che non vogliono fermarsi alla superficie di una professione complessa e ricca di un'umanità che - mai come negli ultimi tempi - corre il rischio di essere stuprata dalla tecnocrazia arrembante.
Ieri, nel corso della cerimonia inaugurale del XXXIII° Congresso Nazionale della Società Italiana di Chirurgia Oncologica, Umberto Veronesi - di lui stiamo parlando - ha tenuto una lectio magistralis sulle frontiere future della chirurgia oncologica.
Cos'è la chirurgia oncologica? E' uno dei campi di applicazione più frequente per uno che fa il mio mestiere, quello che - assieme all'urgenza, terribilmente imprevedibile e perciò affascinante come una bella donna capricciosa - è follemente challenging per l'intersezione fra una tecnologia che ci ha aperto spiragli imprevedibili anche solo sino a dieci anni fa (si pensi agli sviluppi della chirurgia laparoscopica e robotica) e lo smisurato ego ipertrofico del chirurgo, personaggio già di per se stesso tendenzialmente afflitto da sadismo e atteggiamenti maniacali ai limiti dell'ideazione delirante.
Esagero? Sì e no. Ancora oggi, nel corso delle sessioni congressuali, esaurita con un pizzico di narcisismo la mia relazione generosamente elargita al pubblico di colleghi, mi sono goduto le discussioni altrui, quasi tutte all'insegna di un unico comune denominatore: la tecnologia che ci mette a disposizione devices sempre più raffinati, penetranti, mini-invasivi, robotizzati, dotati di visione tridimensionale, persino accurati e accattivanti nel design, quasi che il chirurgo possa decidere di tenerli nel salotto di casa propria.
La tecnologia diventa tecnocrazia e, come in un incubo di Fritz Lang, cessa di essere mezzo e diventa un fine, obbligando l'uomo che vi si assoggetta a mettere da parte la propria umanità, in una corsa folle che ci farà perdere di vista quell'obbiettivo cui ci eravamo consacrati nel momento in cui avevamo scelto questa professione. E, si badi, ho evitato siccome la peste il termine missione, ma so che c'è un pizzico di vocazione pseudosacerdotale in tutti coloro che scelgono di immolare la propria vita tenendo fra le mani quella altrui.
A tutti noi, quelli che ci credono ancora e quelli che hanno smesso di crederci da un bel po', ha risposto ieri Umberto Veronesi, che alla non più verde età di quasi 85 anni si è permesso un agile saltino montando sul palcoscenico e si è raccontato con voce ferma e ardente al pubblico incantato.
Ha parlato di tutto fuorché di chirurgia: per essere una lectio sulle "frontiere future della chirurgia oncologica" suonerebbe piuttosto strano, tranne che per coloro che hanno una qualche familiarità con il Grande Vecchio che ha ricordato a tutti i chirurghi presenti nella sala gremita che il compito principale di tutti noi deve essere quello di mantenere un profilo intellettuale elevato, di ricordarsi che la conoscenza è un dovere ineludibile e non un atteggiamento edonistico, che la cultura oncologica è requisito indispensabile di ogni chirurgo che bazzichi queste contrade culturali, per proporre al nostro paziente non solo l'intervento mirabolante che nessun altro sarebbe in grado di offrirgli, ma anche tutte le alternative terapeutiche che lo possono curare. Chemioterapie mirate, radioterapia sempre più ristretta al solo organo bersaglio, target-therapies, ultrasuoni, anticorpi, farmaci biologici, prevenzione primaria e secondaria, rinuncia definitiva al fumo, educazione ad una dieta più sana, migliore igiene: non è stato risparmiato un solo campo dello scibile di area oncologica per invogliarci a guardare alla nostra professione non tanto e non solo cogli occhi del chirurgo - quelli che ci obbligano sempre a tradurre in intervento ogni nostro atto terapeutico - ma con quelli del medico che si occupa di oncologia.
Quale stridente contrasto con le pur preziose relazioni odierne, tutte improntate all'indispensabile eppur proterva tecnocrazia, sempre più costosa, che ci sta trasformando in tanti replicanti!
Nel trascolorare dell'afoso pomeriggio estivo milanese in una sera appena rinfrescata da una sventagliata di pioggia, risuonava la voce vibrante dell'anziano Maestro che raccontava agli astanti la consensus conference di Ginevra 1969, quella che aveva posto per la prima volta timidamente in contrapposizione al vecchio e glorioso intervento di Halsted - l'asportazione della mammella e dei linfonodi ascellari in blocco con la muscolatura pettorale per il cancro della mammella: un autentico atto di macelleria, anche se fatto a fin di bene - con le prime mastectomie conservative; e le terribili polemiche di vecchi chirurghi inferociti che difendevano come se fosse stato il bene più prezioso la tradizione di un vecchio massacro polveroso. Dopo una decina d'anni, una fondamentale pubblicazione sul New England Journal of Medicine (una delle più importanti riviste scientifiche del mondo) a cura dello stesso Veronesi a capo di un pool di uomini straordinari dimostrava al mondo che il trattamento conservativo del cancro della mammella - la quadrantectomia - dava gli stessi risultati delle grandi demolizioni.
Oggi, dopo oltre 40 anni vissuti intensamente, dopo tante battaglie vinte e altrettante perse, la filosofia oncologica vira definitivamente dall'idea di malattia d'organo a quella di malattia biologica; e il vecchio chirurgo si ammanta di saggezza e, deposto forse definitivamente il bisturi, guarda alla sua stessa vita come ad un percorso in cui la minore invasività è diventata il risultato non di una tecnologia migliore, ma di una forma mentis che ha guardato al malato più che alla malattia.
Amo le persone sagge, perché ci insegnano ad essere uomini migliori. Non l'ho mai conosciuto personalmente - e me ne rammarico - ma solo attraverso i racconti degli uomini con cui sono cresciuto, in primis il suo allievo più prezioso e geniale, il mio Maestro Leandro Gennari.
Lo chiamano affettuosamente in tanti modi: quello che mi piace di più è Mr Smile, l'uomo che sorride che, ieri sera, con semplicità e senza enfasi, ci ha ricordato che tipo di medici dovremmo sempre cercare di essere

lunedì 7 giugno 2010

Stendiamo un velone pietoso


A ridosso dei Mondiali di calcio nessuno - fra coloro che NON trasmetteranno le partite - vuole rischiare clamorosi fallimenti di palinsesto: e questa considerazione riguarda soprattutto Mediaset che i Mondiali li vedrà sulla Rai.
Sarà probabilmente questa la ragione per cui Mediaset manda in archivio "Striscia" e ripropone la squallida "Velone", tragica e oscena parata di vecchiette più o meno arteriosclerotiche che divertono il prossimo esponendo i proprio corpi disfatti e corrotti dalla decadenza senile.
A condurre la miserabile trasmissione Enzo Iacchetti - che rileva (si spera in meglio; d'altra parte, fare peggio sarà impossibile) il burino Mammuccari - e la strafiga ma a me altrimenti sconosciuta Nina Senicar, che nulla, ma proprio nulla, ha a che spartire con le concorrenti della trasmissione.
Le quali concorrenti, anziché fare una specie di gara alla "nonna più simpatica della televisione", ammiccheranno, si scosceranno rispolverando per l'occasione guepièrese e culottes (e mettendo momentaneamente da parte quei mutandoni ascellari che, dalle mie parti, sono noti come "ciappamerda"), e faranno battute e doppisensi ricercando invano i fasti di una gioventù ormai definitivamente tramontata e che peraltro, ai bei tempi, non avrebbe comunque concesso loro le libertà che si sentono di prendersi adesso, davanti al pubblico in piazza e in televisione.
Teo Mammuccari, con il cattivo gusto che gli era proprio, sfruttava questa debolezza femminile condita da un quid di senilità per prendere tragicamente in giro le concorrenti che, talvolta obnubilate nel sensorio, ridevano di se stesse e delle grevi battute del conduttore anziché putacaso svuotargli un pitale in testa.
Spero che invece Iacchetti si accosti all'evento con quel pizzico di buon gusto che solitamente non gli manca e che permetterebbe di evitare i tragici scivoloni della passata edizione.
Io continuo ad auspicare un mondo dove le strafighe fanno le strafighe e dove le nonne fanno le nonne, ma poi qualcuno potrebbe dirmi che sono scontato, per cui per questo giro passo

martedì 1 giugno 2010

Signore e signori

Quando nel 1966 Pietro Germi diresse uno dei suoi film più importanti e corrosivi, vale a dire "Signore e signori", feroce critica della provincia italiana, non avrebbe mai immaginato che i termini del titolo del suo film, l'appellativo più qualunquista con cui ci si può rivolgere ad un essere umano, sarebbe diventato il nuovo modo di designare un comunista.
E' così: in Cina, la più grande repubblica socialista del mondo o, a essere meno eufemistica, la più grande dittatura comunista, ha messo in naftalina il termine con cui sino ad oggi si sono reciprocamente definiti i militanti del Partito. D'ora in avanti il glorioso termine "compagno" sarà sostituito da un generico "signore", e già ci immaginiamo che tutti i comunismi residui del resto del mondo faranno la gara per adeguarsi al nuovo trend.
Questo termine era sopravvissuto a tutto: alle stragi, agli orrori staliniani, ai massacri di Pol Pot, agli internamenti di Fidel Castro, giù giù sino alle nostrane e ruspanti Brigate Rosse i cui nipoti, dalle sbarre del gabbio ove sono stati confinati prima che riuscissero a replicare anche solo la metà dei delitti dei nonni Curcio, Franceschini e Moretti, ancora si chiamavano fra di loro "Compagni". Anche Pannella, non propriamente comunista ma vecchio ruffiano rusé, non ha mai disdegnato questo termine per designare i militanti del suo partito radicale; non ci meraviglieremmo se alla fine sarà proprio lui l'unico a mantenerlo nel proprio vocabolario, giacché abbiamo pochi dubbi sul fatto che le gerarchie dei partiti aspiranti governativi non aspettassero altro che togliersi dai piedi l'ultimo ingombrante relitto di un tragico fallimento.
Eppure, a noi che siamo romantici, nostalgici e forse anche un po' retorici, sia concesso un pizzico di rimpianto per una stagione che finisce.
Noi, che non eravamo comunisti - né mai lo saremo, lo diciamo con ben motivato orgoglio - invidiavamo un po' questi strani personaggi che vivevano per l'Idea (con la I maiuscola, anche se nessuno ce l'ha mai spiegata, questa benedetta Idea), anche a costo di incorrere in qualche involontaria ed umoristica topica, come quelle che vennero immortalate dall'immenso Giovannino Guareschi sul "Candido" e nei racconti di Don Camillo.
E, quanto a questo, siamo onesti: sarebbe stata la stessa cosa se il buon Peppone, archetipo prototipo di tutti i comunisti di provincia, avesse iniziato i suoi comizi dicendo, anzi urlando nel microfono: "Signore e signori"?...
E Togliatti avrebbe potuto essere conosciuto in tutto il mondo come geniale statista, anziché come il miserabile assassino che in realtà fu, in qualità di principale collaboratore di Stalin, se si fosse rivolto ai suoi sottoposti chiamandoli "Signori", anziché "Compagni", termine che - equiparandoli de iure al Grande Capo - rendeva ad essi accettabile e finanche desiderabile l'epurazione? Avrebbe avuto vita così facile con Nilde Jotti se entrambi non avessero avuto a disposizione questo termine che eliminava ex abrupto qualunque tipo di deriva classista (cui peraltro il buon Palmiro era notoriamente molto affezionato, almeno a giudicare dalla risposta tagliente e gelida - "Compagno, diamoci pure del lei" - che diede all'operaio che gli portò il confidenziale saluto dei proletari italiani quando il Migliore tornò da Yalta), buttandoli subito in medias res, vale a dire in camera da letto?
Il giovanotto poco meno che ventenne che, kefiah al collo, davanti al Castello Mediceo di Melegnano, in data 25 aprile di quest'anno ha tenuto una concione sulla lotta partigiana di cui evidentemente aveva letto qualcosa sul libro di storia di terza media poco prima del balbettante apologo, sarebbe stato parimenti credibile di fronte al pubblico ottuagenario se, invece del termine "Compagni!" avesse utilizzato come incipit "Signori"?
E poi, fra tutti gli appellativi proprio "Signore", il termine più qualunquista e borghese che si possa immaginare!
No, non c'è nulla da fare, hanno ragione Bersani, Veltroni e Franceschini: il Comunismo è proprio finito. Oddio, proprio del tutto no: fortunatamente nelle residue lande del socialismo reale come la già citata Cina continueranno epurazioni, riabilitazioni e ricondizionamenti cerebrali in campi di lavoro, manicomi ed altri siti resi famosi dai libri di reazionari e scampati a vario livello, come il russo Solgenitsin.
Però gli epurati non saranno più così contenti di farsi rieducare, se non potranno condividere l'idea di Eguaglianza Sociale con i loro aguzzini.
Però si perderà la Poesia, quella immortalata nelle canzoni che hanno accompagnato lo sferragliare del treno della Giustizia Proletaria, quella che dava ai comunisti l'idea di essere distinti dal resto della popolazione becera: da adesso anch'essi sono "signori", come un qualsiasi bifolco rifatto che vota il berlusca e compra il SUV.
A tutti i nostalgici della Poesia definitivamente perduta, dedico quest'interpretazione dell'Internazionale (purtroppo non sono riuscito a trovare quella di Loredana Bertè, che sarebbe stata più adatta al momento), prima che il "Compagni" introduttivo venga sostituito da un "Signori"