domenica 21 novembre 2010

Oh Signore, questa notte guida le mie mani

Nel corridoio che nel mio Istituto collega le scale mobili con la buvette c'è una libreria dove si vendono libri usati a metà del prezzo di copertina; il ricavato va in beneficenza per la Fondazione che ha lo stesso nome del mio Ospedale. Ci passo davanti tutti i giorni e non ci faccio quasi caso; è stato Vittorio che ha alzato il dito della mano destra indicando una copertina rilegata in primo piano:
"Guarda lì", m'ha detto.
Ho alzato il naso e sono rimasto fulminato nel vedere un volto sorridente  che conosco molto bene, perchè è stato il primo vero eroe - forse l'unico - della mia gioventù; il libro era la sua autobiografia. Sono entrato come un fulmine: il volume, praticamente intonso, portava il prezzo ancora in lire, 3000, al cambio circa 1 euro e 50, la cui metà è 75 centesimi. Ho estratto dal portafoglio un deca senza chiedere il resto e l'ho fatto per due ragioni: la prima è ovviamente la beneficenza, ma la seconda è che mi dispiaceva pagare così poco per leggere il racconto della vita di un autentico pioniere, uno di quegli uomini che, con la loro audacia, hanno veramente cambiato la storia dell'Umanità.

Il luogo è Città del Capo, Sudafrica.
La data è il 3 dicembre 1967.
Il teatro si chiama Groote Schuur e in afrikaaner significa "Grande granaio": è un ospedale, una cittadella della salute e vi si curano bianchi e coloured, anche se questi ultimi hanno ingressi separati: siamo in pieno apartheid, ma questo è un altro pezzo di storia.
In un'unità di Terapia Intensiva di questo grande ospedale giace Louis Washkansky, di 53 anni, affetto da cardiomiopatia dilatativa e con un'unica speranza: un intervento che nessuno ha mai matto, un'idea pazza e disperata, quella di sostituire il suo cuore ammalato con un altro cuore.
Solo che, perché lui viva, qualcuno deve morire; ed è quello che sta succedendo in un altro punto dell'ospedale. 
In un altro letto di Rianimazione i medici tengono artificialmente in vita una ragazza che è stata coinvolta in un incidente stradale; il suo cuore, così prezioso, batte ancora, ma è un nonsenso, perché non c'è più nessuna vita da alimentare: la ragazza è clinicamente morta. Il suo nome è Denise Darvall.
I destini di queste due esseri umani che non si conoscono verranno uniti, in una notte interminabile, da un chirurgo sudafricano di 45 anni che, mentre aspetta di entrare in sala operatoria, si fa la doccia e intanto prega. Il suo nome è Christiaan Barnard: ha studiato tutta la vita per arrivare a quel momento, ma è terrorizzato dall'enormità di quello che si appresta a fare:
Oh Signore, ti prego, guida stasera le mie mani...
Mantienile libere dall'errore
Così come mi hai liberato dal dubbio
Mostrandomi la strada
Affinché io operi al meglio delle mie possibilità
Operi a vantaggio di quest'uomo
Che ha messo la sua vita 
Nelle mie mani


Due sale operatorie comunicanti.
In una si consuma il sacrificio di Denise. 
Marius, fratello di Chris e numero due della squadra, è sul donatore. E' affranto: "Che vergogna - dice - stiamo uccidendo un cuore". Il cuore, organo magico, sede dell'anima, l'origine del moto perpetuo della vita.
L'équipe è presa dall'angoscia di violare qualcosa di sacro, e che l'Asso di Picche, la Morte, il vecchio nemico sia lì sorridente ad aspettare nella sala operatoria l'uomo che, come Ulisse, sta commettendo il più grande peccato di superbia che si possa immaginare, quello che il chirurgo cerca di commettere ogni giorno: fermare la morte, violando le Colonne d'Ercole del corpo umano. Ma è troppo tardi per ripensarci.
Nella sala accanto, legato a Denise quasi da un cordone ombelicale, Louis Washkanski aspetta col torace aperto, col cuore che si muove incoordinato come un mare in tempesta.
La squadra guidata da Chris va avanti come un fiume in piena, fra le mille difficoltà dell'ignoto, ma alla fine il piccolo cuore di Denise riprende a battere nell'ampio torace di Louis.
Il primo uomo trapiantato sopravvivrà poco: morirà per una polmonite dopo appena 19 giorni. Ma la strada era stata tracciata quella notte di oltre quarant'anni fa, in una sala operatoria del "Grande granaio"


Se dovessi fare un elenco di uomini straordinari nel campo della Chirurgia, probabilmente sarebbe molto ristretto: Thomas Starzl, Paul Sugarbaker, Leandro Gennari e, appunto, Christiaan Barnard.
Ognuno, a proprio modo, è stato un pioniere e ognuno, a proprio modo, ha scritto un capitolo fondamentale della Storia di quest'arte meravigliosa, terribile e affascinante.
Barnard ha probabilmente avuto qualcosa in più: il fatto di aver affrontato una prova così incredibile nel Sudafrica della fine degli Anni Sessanta, all'alba dell'immunosoppressione, con mezzi giudicabili oggi di fortuna; il fatto di aver sostituito il cuore, quella che in fondo tutti noi ancora oggi consideriamo la sede della nostra anima, forse perché dà il ritmo incessante alla nostra stessa esistenza; l'estrema spregiudicatezza pur di arrivare alla destinazione; il fascino di un divo del cinema, che lo portò a dissipare la credibilità scientifica nel bel mondo, accanto a donne sempre diverse e sempre più giovani. E poi, il lento declino, inseguendo idee sempre più folli, devastato dall'artrite reumatoide che lo colpì nelle mani, il simbolo stesso del suo lavoro. Quelle mani con le quali, in una notte pazza e disperata, aveva sfidato la Natura e fatto battere il cuore di una donna morta nel petto di un altro essere vivente.

Ho provato a chiedere a Giacomo, mio figlio, di 13 anni, se il nome di Christiaan Barnard gli dicesse qualcosa, ma mi ha risposto sorridendo di no; ne sono rimasto un po' sgomento perché, alla sua età, per me quel nome era già leggenda.
Lo è ancora

martedì 16 novembre 2010

Il dottor C. e le donne

Oggi sono a casa di recupero, piove e mi rendo conto che è arrivato il momento di parlare del dottor C.

Abito in un paese, e questo vuol dire aver ogni tanto a che fare con qualche piccolo siparietto che in una città passerebbe più o meno inosservato.
E del resto, solo in un paese ci potrebbe essere posto per un personaggio come il dottor C., glorioso farmacista che sembra ancora calato in una realtà come quella della provincia italiana degli Anni Sessanta.
Quanti anni avrà il dottor C.? Una sessantina? Di più? Difficile da dire: i capelli grigio-bianchi, acconciati come Elsa Lanchester ne "La moglie di Frankenstein"; due o tre golf sotto il camice ormai grigiastro; le unghie lunghissime che servono a rimuovere le fustelle dalle scatole dei farmaci. Al mattino arriva il giornalaio che gli consegna l'Avvenire che lui depone regolarmente dietro al banco; non è dato sapere se lo legga.
La bottega è triste, grigia come il camice del suo proprietario e oppressivamente retrò in tutto: alti scaffali di legno e vetro - Anni Sessanta, appunto - sempre coperti da uno strato di polvere come il salotto di Nonna Speranza; dietro le vetrine articoli innocui come shampoo o pappe per i bimbi; sugli scaffali non c'è nessun preservativo come quelli orgogliosamente in mostra sulle altre e ben più moderne farmacie, ma tutt'al più le mitiche caramelle all'orzo che, fossimo rimasti a vent'anni fa, verrebbero usate come resto in alternativa ai gettoni del telefono. E non è solo questione di preservativi, ça va sans dire: il dottor C. rifiuta l'erogazione della pillola anticoncezionale in quanto immorale, a meno che non sia prescritta come terapia, per esempio per la dismenorrea, e anche in quel caso con molta riluttanza, hai visto mai che la novella Messalina stia cercando di fregarlo...
Il dottor C., come una specie di Re Mida al contrario, ingrigisce tutto quello che tocca, a cominciare dalla sua assistente farmacista, giovane ma quasi prosciugata da questo anziano gentleman cui la provincia in cui abita riconosce un ruolo, uno status sociale di cui egli fa uso e abuso rifiutando decisamente le avanguardie della modernità, si direbbe quasi con civetteria. E se proprio deve assoggettarsi al computer - dove col termine "computer" intendo una vecchia caffettiera, probabilmente un Commodore Vic 20, asmatica e grigia come tutto il resto dell'arredamento - lo fa con ostentato impaccio, come a dire: "Io vorrei anche, ma dovrebbero essere le macchine a seguire i miei ritmi".
Questo vecchio signore, dalle lentezze esasperanti, retrogrado e bolso, vanta un ascendente particolare con le signore - preferibilmente anziane - che lo adorano. 
Meglio non entrare nella sua farmacia se come oggi, putacaso, uno ha fretta. Il malcapitato utente di sesso maschile verrà scavalcato con nonchalance dalla vecchietta di turno che lo guarderà con aria fra il finto innocente e il battagliero articolando con malgarbo un: "C'era prima lei?"; dopo di che intratterrà col farmacista un'interessante conversazione di questo genere:
"Sono tre giorni che non vado di corpo. Lei cosa dice, dottore? Posso prendere questo?", dice l'anziana cliente agitando il dorso di una scatola di magnesia.
"Mah, sì - risponde il dottor C. serafico, benché poco convinto - Le funziona bene?"
"Sì, ma se esagero vado di diarrea"
"Sicura?"
"Altroché. E' proprio molle!", conclude scandendo l'aggettivo con voce improvvisamente squillante come quella di Maria Callas in una cabaletta del Nabucco.
A questo punto il dottor C. sorride con aria amichevole, si gira verso l'armadietto dietro di lui, prende un vasetto di Citrosodina e glielo propone quasi con nonchalance:
"Che ne dice di questo? L'ha mai provato?"
La vecchia signora si ritrae momentaneamente facendo finta di frugare nella memoria. 
Certo che la conosci, penso io! Compragli 'sta cavolo di Citrosodina così poi riesco a farmi dare il mio Coefferalgan!
Ma la signora non ha fretta e sorride a sua volta alle lusinghe del dottor C. che probabilmente ha toccato una corda nascosta del suo cuore:
"Ora che ci penso - concede - potrei averla provata".
Il volto avvizzito del dottor C. si distende in un ampio sorriso giallastro di tartaro mai ablato:
"Ah! E' un rimedio sovrano"
Santo Iddio!, penso, rimedio sovrano! Quanti anni sono che non sentivo quest'espressione! E' una frase da Soluzione Schoum che, non a caso, campeggia ancora nei suoi scaffali. Deve essere l'ultimo farmacista sulla faccia della terra a venderla.
Il dottor C. continua a sorridere mentre alza il dito indice della mano destra nella sua piccola lezioncina. Tenetelo lontano dal suo Vic 20 e farete di lui un uomo felice, in mezzo ai suoi farmaci. La vecchina pende dalle sue labbra mentre il dottor C. inizia il suo piccolo apologo:
"Vede signora, ne basta un cucchiaio mezz'ora prima dei pasti e le calmerà l'acidità, le permetterà una più rapida digestione e soprattutto l'aiuterà ad andare".
, penso, e fra poco dico ad entrambi dove! 
Prego che la vicenda veda la sua fine; la vecchia però finge perplessità anche se è perfettamente convinta dell'acquisto:
"Sì, ma due cucchiai al giorno non saranno troppo? Io la magnesia la prendo ogni tanto".
Il sorriso scompare immediatamente dalla bocca ingrommata del dottor C. che riporta verso di sé la scatoletta bianca e gialla. Il tono di voce non è offeso; è solo triste mentre constata che una cliente non ha avuto fiducia nelle sue capacità:
"Naturalmente se preferisce la magnesia..."
La vecchia capisce di averla fatta grossa:
"Oh no, dottore! Mi dia pure la Citrosodina!"
C'è un attimo di silenzio in cui io prefiguro il disastro incombente. Sospiro. So quello che sta per succedere e chino la testa. Avessi una pala, mi scaverei una fossa e mi ci seppellirei. 
Non mi sbaglio, infatti: il dottor C. solleva un indice con l'unghia quasi femminea, mi indica e dice:
"Se non si fida di me, abbiamo qui un dottore..."
La vecchia si gira verso di me. E' chiaramente disgustata: io, immondo rappresentante della schifosa razza medica, non avrò mica il coraggio di contraddire quello che dice il dottor C.?
Non ci penso nemmeno, ovviamente:
"Il dottor C. ha ragione, signora. Vada tranquilla"
"Certo che vado tranquilla! - sibila come una vipera - Ci può giurare!"
Allunga la mano sul vasetto bianco e giallo e paga serena mentre il dottor C. glielo incarta. Ma il farmacista ha ancora un asso nella manica:
"Vorrebbe lo stesso una scatola di magnesia? Sa, per quando finisce la Citrosodina", conclude con aria complice.
E' troppo. La signora, che ha accettato l'alternativa propostale, ha la possibilità di avere anche il farmaco che si era autoprescritta con la benedizione del suo personalissimo guru, le cui parole sono un mantra. La vecchia apre la bocca in un ampio sorriso sdentato e, se non fosse l'età, la verosimile prolungata vedovanza e le circostanze potrebbe forse farci un pensierino, ma si limita ad aprire il portamonete e tirar fuori un altro deca.
Esce.
Tocca finalmente a me. Il dottor C. mi rivolge un ampio sorriso che farebbe la gioia del mio igienista. Osservo quasi rapito il tartaro che ha riempito gli spazi fra un dente e l'altro. La foto del padre a sua volta farmacista, che immagino terribile despota sul povero figlio forse unigenito, mi guarda arcigna dalla vetrina davanti e mi imbarazza. Chiedo rapidamente il Coefferalgan e apro il portafoglio.
La mia richiesta lascia poco spazio alle variazioni, ma il farmacista ha sempre un asso nella manica. Si china, poi riemerge come un folletto su un fungo velenoso e mi dice:
"E' sicuro di non preferire il Tachidol? Forse cambia un po' il sapore..."
Il dottor C. si prende cura della salute di tutto il quartiere

domenica 7 novembre 2010

Sagrada Familla

Non sono omofobo.
Ho diversi amici gay, nello stesso modo in cui loro potrebbero dire di avere diversi amici etero: non c'è distinzione né categorizzazione, da nessuna delle due parti, ma solo una banale constatazione e, se vogliamo, accettazione reciproca.
Probabilmente anche i miei nonni hanno avuto in passato amici gay, ma non lo sapevano perché non esistevano espressioni come fare outing oppure coming out.
Non sono gay, ma in compenso, pur essendo credente, sono anche contemporaneamente laico e liberale e penso - fermamente convinto - che chiunque abbia diritto alla propria fetta di felicità in questo mondo. 
E' anche per questo motivo che sono a favore del matrimonio fra gay. E sono sinceramente convinto che ci si possa amare anche in famiglie omosessuali tanto quanto in famiglie etero. 
Ma sono anche nettamente a favore del pudore nelle manifestazioni sentimentali: non mi sono mai fatto vedere pubblicamente intento a cacciare la mia lingua come un formichiere in gola ad una donna; va be', forse in passato sarà capitato, quando ero un ragazzino alle prese con le prime cotte, ma comunque anche quello con moderazione e tendenzialmente non nell'età adulta.

Non amo papa Ratzinger.
Cresciuto sotto il pontificato vulcanico, umanissimo eppure profondamente mistico di Karol Wojtyla, fatico a riconoscermi in questo burocrate timido ed evasivo di fronte alle folle oceaniche che si riunivano sotto il suo predecessore. Non amo la sua predilezione per quel camauro che rimanda ai vecchi ritratti di Papa Giulio II, per il trono ritirato fuori dall'armadio dopo che l'aveva messo in soffitta Albino Luciani nel 1978, per i paramenti ricamati, per tutto quell'oro che Giovanni Paolo II aveva drasticamente ridotto. Non ne amo la rigidità di fronte a tutte quelle questioni sulle quali la Chiesa dovrebbe pensare di smussare gli angoli, a cominciare dal celibato del clero, problema vivo e spinoso, fino al concetto di famiglia, profondamente cambiato in questi anni. 
Non amo quest'omino tedesco, teologo rigido e curiale, ma lo rispetto, così come rispetto (quasi) chiunque.
E' proprio per questo che io, non come etero ma come laico e liberale, mi sono sentito offeso dalla catena di lingua in bocca che si sono vicendevolmente cacciati una coorte di gay al passaggio della papamobile di fronte alla Sagrada Familla a Barcellona.

Non credo che la comunità gay possa aspettarsi accettazione e validazione del proprio status da parte della Chiesa; credo anzi, au contraire, che manifestazioni come questa siano dimostrazione di razzismo e intolleranza ben maggiore di quella che essi stessi lamentano.
Non sono a discutere di giustizia ed equità, ma la Chiesa rappresenta una religione - quella cristiana - che non prevede le unioni fra persone dello stesso sesso. Cosa ci aspettiamo che dica un Papa? Che cambi le regole delle quali è custode?
E' possibile, in astratto, che si arrivi fra un po' di tempo all'abolizione del celibato dei sacerdoti, ma la questione dello sdoganamento dell'omosessualità è tutto un altro paio di maniche e, anche lo volesse, un Papa non potrebbe metterci mano.
Ragionandoci sopra con un minimo di buona volontà, e non con l'egoismo di chi pensa di essere sempre e comunque dalla parte della ragione, si dovrebbe arrivare a considerare il fatto che realizzare una catena di baci gay davanti al Papa non è né un gesto di protesta né una provocazione: è solo un gesto maleducato, profondamente stupido e avvilente verso un uomo anziano che non può fare né dire niente di diverso da quello che dice
Non bacerei mai "avec la langue" mia moglie davanti ai miei amici, etero o gay che siano, così come non mi aspetto che lo facciano i miei amici, etero o gay che siano, davanti a me: sarebbe semplicemente una manifestazione di cattivo gusto, dall'una come dall'altra parte

Continuo con i brani tratti dalla Messa in si minore di Bach. Questo è il Benedictus, un piccolo capolavoro che propongo nell'interpretazione di Philippe Herreweghe alla testa dei suoi complessi e del tenore Chistoph Prégardien:

sabato 6 novembre 2010

La banalità della malattia

Anche oggi, ennesima fatwa giornalistica contro i medici.
Motivo della condanna mediatica - come al solito netta, senza difesa e senza appello - è la morte per cause ancora da accertare di un ragazzo di 17 anni, deceduto all'ospedale di Ivrea per complicazioni dopo un banale intervento all'Ospedale di Ivrea.
Il banale intervento, durato 5 ore (e si sa che tutti gli interventi seri durano dalle 6 ore in su, no? Sino a 5 ore di durata, gli interventi sono sempre banali!) è stato effettuato su un povero ragazzone di 150 Kg (!) che si era fratturato il femore a seguito di un incidente motociclistico da cui - parole della cronista del TG5 di questa sera - era uscito "quasi illeso". C'è veramente da rimanere allibiti: e la frattura di femore che fa perdere almeno un litro di sangue cos'è? Un cappero incistato?
Non c'era un posto disponibile in Rianimazione, per cui il ragazzone dopo il difficile intervento è stato riportato in Reparto, monitorizzato e sorvegliato a vista dagli Anestesisti che lo avrebbero valutato non meno di sette volte durante la notte. Ma, nonostante questo, il ragazzone è morto.
E adesso, ovviamente, avvisi di garanzia per omicidio colposo, avvocati in smania di protagonismo con gli occhi fuori dalle orbite e il faccino serio di circostanza, interviste luttuose ai parenti del poveretto e solite vesti stracciate.
Non potevano aspettare un giorno in più, i medici, che magari si sarebbe liberato un posto in Terapia Intensiva? 
Forse sì, forse no. Stiamo parlando di un ragazzone di 150 Kg di peso con una frattura di femore, quindi - per definizione - a rischio emboligeno elevatissimo a tenerlo fermo nel letto come è necessario sinché la frattura non è stata riparata. Senza contare l'emorragia che continua sino a che non hai stabilizzato una frattura. E poi, con un pronto soccorso in piena attività, sappiamo benissimo che i letti di rianimazione vengono occupati continuamente.
Sarebbe cambiato qualcosa per il ragazzo se fosse stato ricoverato in Rianimazione?
No.
A quanto si legge, il ragazzo era monitorato ed è stato valutato non meno di sette volte dal Rianimatore durante la notte: pensate che in Rianimazione avrebbero potuto fare meglio di così? Ma naturalmente l'avvocato, assetato di sangue, afferma che il ragazzo è stato "...buttato lì in reparto come un paziente qualunque, come se si fosse rotto una caviglia". E cosa cazzo ne sa un avvocato di queste cose? Nulla, ovviamente. Ma parla. Non sa, per esempio, che una banale frattura di polso esposta può dare uno shock emorragico. Ma andiamo avanti.
Era un paziente tranquillo, esente da rischi? Certo che no! Infatti su "La Stampa" si legge quanto segue:
"Ma Davide non era un paziente qualunque, come gli stessi medici sapevano fin dall’inizio. Perché pesava 150 chili e perché aveva perso tantissimo sangue sia nell’incidente stradale in cui si era fratturato il femore sia durante l’intervento, eseguito tre giorni dopo il ricovero. Un’operazione apparentemente veloce ma che si era protratta quasi sei ore"
E allora, santa miseria, se diamo per veritiere le parole scritte qui sopra, come cazzo si fa a parlare di un banale intervento? 
Stiamo parlando di una frattura di femore (si possono perdere litri di sangue in una frattura di femore, santo Dio!) su un paziente obeso e gravemente emorragico, una di quelle situazioni che nessuno di quelli che fanno il mio lavoro vorrebbe mai affrontare! 
E pensate che ci sia fra i miei colleghi qualche pazzo incosciente che affronta una situazione così piena di elementi di rischio senza cercare di mettersi al sicuro in tutti i modi?
Avete idea di cosa voglia dire operare, per di più in regime di urgenza (sia pure differita) un paziente obeso e gravemente emorragico?
Qualcuno degli intelligenti giornalisti o dei saggi avvocati sempre col ditino alzato - se lo ficcassero nel culo -  e la voce vibrante di emozione mi può cortesemente spiegare come affronterebbero, loro, una situazione come questa che essi stessi definiscono banale?
Ed è quest'ultimo aspetto, soprattutto, che mi fa veramente imbestialire.

Il lavoro medico può essere tante cose, ma non è mai banale.
Possono esserci errori nella gestione di un paziente - si chiama malpractice, una volta per tutte - perché anche il medico è un essere umano e sbaglia come tutti, ma non sbaglia mai per aver trasformato una pratica banale in un macello. E questo per due buoni motivi.
Il primo è che sì, certo, ci sono professionisti di vario genere e non tutti sono alla stessa altezza, ci mancherebbe, ma è difficile, molto difficile che qualcuno dotato di cervello mediamente raziocinante si butti in uno strapiombo del genere senza prima essersi attrezzato con un paracadute. Doppio.
Il secondo - che poi è quello più importante - è che non si può trasformare una pratica banale  in un macello per il motivo molto semplice che nella cura dell'essere umano non esistono pratiche banali: anche una banale estrazione dentaria può trasformarsi in un dramma se il paziente è cardiopatico, o inaspettatamente allergico agli anestetici locali, o senza saperlo è portatore di una coagulopatia che spesso viene scoperta proprio in occasioni banali come queste. Mi è capitato più facilmente di perdere anni di vita in occasione di appendicectomie che nella mente bacata di qualche comunicatore mediatico (mai nella mia, in ogni caso) sarebbero state classificate come banali ma che poi, alla resa dei conti, banali non lo erano poi tanto. 
Ci sono banali raffreddori che, in pazienti defedati ed immunosoppressi, diventano polmoniti per nulla banali.
Si sono diagnosi che sono banali solo nella testa bacata di chi ce le rappresenta in televisione, alla radio e sui giornali; e io, come chirurgo di discreta percorrenza, continuo a sostenere che la vera sfida nella mia professione, quella che fa tremare i polsi, non è l'intervento difficile, ma la diagnosi che sembra banale. Ma naturalmente questo tipo di considerazioni non hanno nessun significato per una platea abituata all'infallibilità non dico del Dr. House, ma a quella di Lele Martini del "Medico in famiglia" e di Rosanna Lambertucci.
L'unica vera banalità è quella di considerare una malattia uguale ad un'altra: è l'equivoco tipico di chi considera le malattie e mai i malati, ed è un errore che solitamente non viene mai commesso da un medico, bensì da chi ne parla, per lo più a sproposito: ancora una volta, avvocati e giornalisti. 
Sono tante e tali le variabili che possono impazzire nella cura di un paziente, che mai e poi mai userei un termine come banale per definirne la diagnosi o la cura: nella migliore delle ipotesi, a essere generosi sarei superficiale. 
A meno, ovviamente, di essere giornalista o avvocato


mercoledì 3 novembre 2010

Il capo di gabinetto

Non so se sia peggio lui o quelli che lo difendono.
Perché è indifendibile, davvero; e sarebbe il caso che ci riflettessero Feltri e Sallusti, invece di continuare ad affossare il mio caro, vecchio Giornale con campagne che tradiscono il pensiero liberale di cui fu l'unico alfiere in una stagione difficile.
E' in una posizione in cui non può né fare, né dire tutto il cazzo che gli passa per la testa. O meglio: lo può anche fare e dire, ma a casa sua e per conto suo, o con i sicofanti suoi abituali ospiti; non pubblicamente di fronte alle telecamere di tutto il mondo. E sia chiaro: non lo dico per fare - come tanti, in questo momento - il finocchio con il culo degli altri.
In questa miserabile farsa che, per i riferimenti al machismo perennemente esibito non come un plusvalore (e poi dicevano di Bossi...), ma come unico attributo possibile per un "vero" uomo e che ai tempi avrebbe potuto essere il plot narrativo di una pellicola con Alvaro Vitali, Bombolo e Cannavale si pone, per il protagonista, una questione di indecenza e di inadeguatezza al ruolo pubblico che ricopre. Lo dico con tristezza, visto che il principale attore di questa farsaccia dovrebbe essere il personaggio che, oltre a governarci, maggiormente ci rappresenta all'estero. E invece, all'estero, in quell'estero in cui una volta l'Italia era soprattutto pizza, mandolini e mafia, vedono adesso come immagine rappresentativa dell'Italia un primo ministro che va a troie, e questo sarebbe il meno, se non fosse che poi ogni professionista contattata dall'insaziabile premier si sente in dovere di scrivere un libro di memorie neanche avesse avuto un'esperienza con Rocco Siffredi; insidia le ragazzine, le paga, le riempie di regali, inventa palle per loro, ci scherza sopra come se nulla fosse; e, in ultimo, per confermare al mondo la potenza della sua generosa virilità, fa battute sui gay, e cara grazia che non ha usato termini come froci, o checche, o culattoni, che forse però in fondo avremmo accolto come una manifestazione di sincerità, perché questo ricorso al forbito eufemismo decisamente non si addice al Berlusca.
Sia chiaro: non me ne importa nulla del risentimento di Vendola, di Grillini, di Cecchi Paone o - chissà - di George Clooney, anche perché in questa squallida corsa al ribasso tutti, nessuno escluso, fanno e faranno abuso di ipocrisia.
In momenti come questi sono costretto a riabilitare la memoria di un vecchio gangster come Bettino Craxi, uno che i cazzi suoi se li faceva alla stragrande e con ben altro stile; per non parlare dei vecchi patriarchi della politica italiana. E senza citare gli Intoccabili, come Andreotti o Forlani - che pure mai si sarebbero sognati uscite o atteggiamenti di questo genere, qualunque sia il giudizio morale che di essi si possa dare - persino Giovanni Goria, politico di modesto profilo della prima repubblica e ormai semidimenticato, al confronto sembra Neville Chamberlain