sabato 6 novembre 2010

La banalità della malattia

Anche oggi, ennesima fatwa giornalistica contro i medici.
Motivo della condanna mediatica - come al solito netta, senza difesa e senza appello - è la morte per cause ancora da accertare di un ragazzo di 17 anni, deceduto all'ospedale di Ivrea per complicazioni dopo un banale intervento all'Ospedale di Ivrea.
Il banale intervento, durato 5 ore (e si sa che tutti gli interventi seri durano dalle 6 ore in su, no? Sino a 5 ore di durata, gli interventi sono sempre banali!) è stato effettuato su un povero ragazzone di 150 Kg (!) che si era fratturato il femore a seguito di un incidente motociclistico da cui - parole della cronista del TG5 di questa sera - era uscito "quasi illeso". C'è veramente da rimanere allibiti: e la frattura di femore che fa perdere almeno un litro di sangue cos'è? Un cappero incistato?
Non c'era un posto disponibile in Rianimazione, per cui il ragazzone dopo il difficile intervento è stato riportato in Reparto, monitorizzato e sorvegliato a vista dagli Anestesisti che lo avrebbero valutato non meno di sette volte durante la notte. Ma, nonostante questo, il ragazzone è morto.
E adesso, ovviamente, avvisi di garanzia per omicidio colposo, avvocati in smania di protagonismo con gli occhi fuori dalle orbite e il faccino serio di circostanza, interviste luttuose ai parenti del poveretto e solite vesti stracciate.
Non potevano aspettare un giorno in più, i medici, che magari si sarebbe liberato un posto in Terapia Intensiva? 
Forse sì, forse no. Stiamo parlando di un ragazzone di 150 Kg di peso con una frattura di femore, quindi - per definizione - a rischio emboligeno elevatissimo a tenerlo fermo nel letto come è necessario sinché la frattura non è stata riparata. Senza contare l'emorragia che continua sino a che non hai stabilizzato una frattura. E poi, con un pronto soccorso in piena attività, sappiamo benissimo che i letti di rianimazione vengono occupati continuamente.
Sarebbe cambiato qualcosa per il ragazzo se fosse stato ricoverato in Rianimazione?
No.
A quanto si legge, il ragazzo era monitorato ed è stato valutato non meno di sette volte dal Rianimatore durante la notte: pensate che in Rianimazione avrebbero potuto fare meglio di così? Ma naturalmente l'avvocato, assetato di sangue, afferma che il ragazzo è stato "...buttato lì in reparto come un paziente qualunque, come se si fosse rotto una caviglia". E cosa cazzo ne sa un avvocato di queste cose? Nulla, ovviamente. Ma parla. Non sa, per esempio, che una banale frattura di polso esposta può dare uno shock emorragico. Ma andiamo avanti.
Era un paziente tranquillo, esente da rischi? Certo che no! Infatti su "La Stampa" si legge quanto segue:
"Ma Davide non era un paziente qualunque, come gli stessi medici sapevano fin dall’inizio. Perché pesava 150 chili e perché aveva perso tantissimo sangue sia nell’incidente stradale in cui si era fratturato il femore sia durante l’intervento, eseguito tre giorni dopo il ricovero. Un’operazione apparentemente veloce ma che si era protratta quasi sei ore"
E allora, santa miseria, se diamo per veritiere le parole scritte qui sopra, come cazzo si fa a parlare di un banale intervento? 
Stiamo parlando di una frattura di femore (si possono perdere litri di sangue in una frattura di femore, santo Dio!) su un paziente obeso e gravemente emorragico, una di quelle situazioni che nessuno di quelli che fanno il mio lavoro vorrebbe mai affrontare! 
E pensate che ci sia fra i miei colleghi qualche pazzo incosciente che affronta una situazione così piena di elementi di rischio senza cercare di mettersi al sicuro in tutti i modi?
Avete idea di cosa voglia dire operare, per di più in regime di urgenza (sia pure differita) un paziente obeso e gravemente emorragico?
Qualcuno degli intelligenti giornalisti o dei saggi avvocati sempre col ditino alzato - se lo ficcassero nel culo -  e la voce vibrante di emozione mi può cortesemente spiegare come affronterebbero, loro, una situazione come questa che essi stessi definiscono banale?
Ed è quest'ultimo aspetto, soprattutto, che mi fa veramente imbestialire.

Il lavoro medico può essere tante cose, ma non è mai banale.
Possono esserci errori nella gestione di un paziente - si chiama malpractice, una volta per tutte - perché anche il medico è un essere umano e sbaglia come tutti, ma non sbaglia mai per aver trasformato una pratica banale in un macello. E questo per due buoni motivi.
Il primo è che sì, certo, ci sono professionisti di vario genere e non tutti sono alla stessa altezza, ci mancherebbe, ma è difficile, molto difficile che qualcuno dotato di cervello mediamente raziocinante si butti in uno strapiombo del genere senza prima essersi attrezzato con un paracadute. Doppio.
Il secondo - che poi è quello più importante - è che non si può trasformare una pratica banale  in un macello per il motivo molto semplice che nella cura dell'essere umano non esistono pratiche banali: anche una banale estrazione dentaria può trasformarsi in un dramma se il paziente è cardiopatico, o inaspettatamente allergico agli anestetici locali, o senza saperlo è portatore di una coagulopatia che spesso viene scoperta proprio in occasioni banali come queste. Mi è capitato più facilmente di perdere anni di vita in occasione di appendicectomie che nella mente bacata di qualche comunicatore mediatico (mai nella mia, in ogni caso) sarebbero state classificate come banali ma che poi, alla resa dei conti, banali non lo erano poi tanto. 
Ci sono banali raffreddori che, in pazienti defedati ed immunosoppressi, diventano polmoniti per nulla banali.
Si sono diagnosi che sono banali solo nella testa bacata di chi ce le rappresenta in televisione, alla radio e sui giornali; e io, come chirurgo di discreta percorrenza, continuo a sostenere che la vera sfida nella mia professione, quella che fa tremare i polsi, non è l'intervento difficile, ma la diagnosi che sembra banale. Ma naturalmente questo tipo di considerazioni non hanno nessun significato per una platea abituata all'infallibilità non dico del Dr. House, ma a quella di Lele Martini del "Medico in famiglia" e di Rosanna Lambertucci.
L'unica vera banalità è quella di considerare una malattia uguale ad un'altra: è l'equivoco tipico di chi considera le malattie e mai i malati, ed è un errore che solitamente non viene mai commesso da un medico, bensì da chi ne parla, per lo più a sproposito: ancora una volta, avvocati e giornalisti. 
Sono tante e tali le variabili che possono impazzire nella cura di un paziente, che mai e poi mai userei un termine come banale per definirne la diagnosi o la cura: nella migliore delle ipotesi, a essere generosi sarei superficiale. 
A meno, ovviamente, di essere giornalista o avvocato


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