mercoledì 29 dicembre 2010

Non avevamo dubbi, Lula!

Ignacio Lula da Silva, presidente (fortunatamente) uscente del Brasile, ha negato l'estradizione in Italia del terrorista comunista Cesare Battisti, perché il governo brasiliano teme che il criminale rischierebbe la vita se tornasse in Italia.
D'accordo, lo so: è l'esito scontato di un'ignobile farsa che, se non altro, ha il merito di tenere la faccia di merda di un ignobile, disgustoso e vigliacco criminale fuori dai confini italiani; ma almeno ci siano cortesemente risparmiati i finti timori per la sua preziosa incolumità, a meno che Battisti non sia allergico alla saliva degli sputi: quella che gli altri sarebbero ben felici di depositargli sulla faccia. 
La sua, invece, il glorioso combattente l'ha ormai consumata da tempo a vellicare l'ano dei politici brasiliani, supplicandoli di tenerlo a svernare sulle spiagge di Copacabana da dove potrà continuare ad esprimere il proprio anelito rivoluzionario.

Nella foto a fianco, un'immagine tratta da un documentario sul Brasile di Lula 

martedì 28 dicembre 2010

-turbàti

Venticinquemila euro.
Questa è la sanzione che il giudice ha comminato alla mamma che aveva denunciato una commessa di 26 anni per spalmarsi la crema in topless.
Le cose erano andate più o meno così.
L'estate scorsa, fra Anzio e Lavinio, una ragazza di 26 anni in topless era stata invitata dalla mamma di due ragazzini di 12 e 14 anni a smetterla di spalmarsi la crema perché i suoi gesti, riferiti ricchi di sensualità, turbavano i figli; siccome la ragazza ritenne di essere in diritto di continuare, la mamma la denunciò per oltraggio al pudore.
Già a fine estate, il giudice stabilì il non luogo a procedere, generando quindi una controquerela da parte della ragazza; adesso la sanzione alla mamma.

Posso dirlo sommessamente?
Sono perplesso.
Abbiamo veramente bisogno di ammorbare la Giustizia italiana - già spaventosamente lenta di suo - con cause che non stanno in cielo né in terra e che richiamano la codardia di Oscar Luigi Scalfaro in analoga situazione negli Anni Cinquanta (ricordate? Fu quando il futuro presidente insultò Edith Mingoni Toussan che si era tolta in un ristorante il bolerino dalle spalle per il caldo romano di luglio)?
Ma soprattutto mi domando che idea abbia la mamma del concetto di innocenza applicato ai suoi ragazzi, che i giornali descrivono come turbati dalla quarta di reggiseno della ventiseienne commessa.
Di grazia, in che mondo vivono? Nel castello fatato di Raperonzolo?
Non sono un moralista, anche se capisco il punto di vista della mamma; e tuttavia, atteso che il seno nudo è stato abbondantemente sdoganato sin dagli Anni Ottanta e che la televisione offre ai ragazzini in fregola ben altro che una ragazza che si spalma le pregevoli e abbondanti tette con crema solare, mi chiedo: chi è veramente turbato?
I ragazzini?
O la mamma?
E il papà, mai nominato, cosa ne pensa, ammesso che esista e abbia voce in capitolo? E, se dovesse malauguratamente trattarsi di papà separato, dovrà pagare lui la sanzione comminata all'improvvida ex moglie?
Non so. A me questa vicenda ha prepotentemente riportato alla mente un episodio di quando anch'io avevo suppergiù la stessa età dei ragazzini turbati. Era estate, un agosto di trenta e passa anni fa e sulla spiaggia di Santa Liberata faceva molto caldo. Per qualche giorno vi stazionò una ragazza dalla pelle color dell'ambra e con due tette da infarto, una quarta abbondante che sfidava orgogliosamente le leggi di gravità e che lei esponeva al sole con l'unica "protezione" di un generoso strato di Coppertone.
Non abbiamo mai saputo il nome o la provenienza di quella ragazza che arrivava, si esponeva sulla battigia e se ne andava, facendosi i trionfali affari suoi e inducendo tutti i maschi del circondario - giovani e non, nessuno escluso - a elencare le pratiche cui si sarebbero dedicati con la Strapocciona (come venne soprannominata dal signor Bizzi, ché nemmeno lui ebbe il privilegio di conoscerla non dico in senso biblico ma neppure per nome) se solo ne avessero avuto l'opportunità. 
Per quanto mi riguarda, a lungo l'ho considerata il manifesto stesso della sensualità.
Turbato? Macché.
Direi piuttosto che la ragazza forniva a tutti i giovani maschi della spiaggia con gli ormoni a palla (il termine non è scelto casualmente) materiale onirico per qualcosa in cui il -turbarsi c'entrava solo come parte del verbo.
Forse era la stessa pratica cui alludeva la mamma laziale parlando di come i suoi ragazzi si fossero -turbati, ma a questo punto la cronaca entrerebbe nel mare magnum delle supposizioni, per cui mi fermerei

Senza filtro


Dal primo gennaio 2011, con la chiusura dello stabilimento di Lecce, verrà dismessa l’ultima manifattura italiana del tabacco. E' una data importante, perché finisce un pezzo di storia della nostra Italietta, quella che non poteva permettersi Marlboro, Camel e Turmac.
Ma era una storia già archiviata, nonostante tutto.

Il Monopolio di Stato dei Tabacchi, come tale, come lo conoscevamo una volta, non esiste più da un po'. Nel 2000 l'Ente Tabacchi Italiano è diventato una società per azioni e nel 2003 è stato assorbito dalla British American Tobacco. Questa rivoluzione ha tolto alcune marche ormai passate di moda quando non francamente oltre i limiti di una generica pericolosità (Super, Alfa, forse anche le Stop che non vedo più da un sacco di tempo, ma qui non saprei proprio dire), ma soprattutto ha spostato l'asse di un modo tipicamente italiano di fumare, uniformandolo a un'idea di fumo molto americana. 
Molto Marlboro.
Varrebbe la pena di smettere di fumare già solo per quello.


Quando iniziai a fumare, ormai molti anni fa, consideravo la sigaretta una faccenda molto privata; non ricordo una sola volta in cui abbia ostentato una bionda (anzi, nel mio caso preferibilmente una bruna) come motivo di emancipazione, come avveniva per alcuni miei amici. Affascinato dalla gestualità del fumatore, non prendevo nemmeno lontanamente in considerazione Marlboro, Camel, Lucky Strike e Merit, nelle varie formulazioni light e extralight che già si stavano affermando come a mitigare l'idea stessa del fumo. Nossignori: mi facevo gli affaracci miei con le mie sigarette da quattro soldi, e quello era il mio orizzonte di libertà e la mia emancipazione. Nascondevo il pacchetto in un vecchio contenitore di alluminio nello stanzino, perché non le trovasse mia mamma sempre molto polemica nei confronti del fumo (mio papà su questo fronte è sempre stato più tollerante, per ovvi motivi: fuma da quando aveva dieci anni), lo tiravo fuori al momento opportuno e mi godevo il piacere solitario che non è quello che ognuno potrebbe associare a queste due parole...
Le mie prime sigarette furono quindi le Esportazione senza filtro nel pacchetto verde, quelle che fumava il mio nonno Peppino; e solo perché le Nazionali "N blu", quelle da 240 lire al pacchetto, erano pressoché introvabili. L'idea di un prodotto nazionale di qualità non ricercata e che costasse poco; il contatto delle labbra con i pezzetti di tabacco, anche se di bassa qualità; l'odore aspro e forte del fumo che mi inebriava dandomi un'idea di libertà; tutto concorreva a farmi godere il fumo in calma e pensosa solitudine, negli intervalli che mi concedevo fra un capitolo e l'altro dello studio. Dovevano passare anni prima che mi concedessi alle sdegnose americane, e cioè le Camel - che io chiamavo "le cammellacce" - affrontate anch'esse rigorosamente senza filtro e sempre assolutamente per gli affari miei. Le poche esperienze che m'ero concesso di sigarette con filtro mi toglievano sempre qualcosa del piacere che mi concedevo; ché tale era, decisamente, e senza mai diventare un vizio, tanto che quando decisi tre anni fa di distaccarmene fu una scelta priva di trauma. 
Certo, ci furono anche esperienze che sfondavano il confine del dandysmo: le Gauloises senza filtro, per esempio, con le volute di fumo di tabacco scuro e inebriante che scalciava nello stomaco; non ho mai fumato una canna, ma me l'immagino così. O le sigarette fatte con Drum e Old Holborn, arrotolate nelle cartine Rizla (imparai la tecnica a Trento, durante il mio periodo militare, dal mio autista di ambulanze che ci rollava ben altro, nelle cartine). E poi il lento declino, sino alle MS con cui ho chiuso la mia carriera di fumatore; e forse avrei dovuto smettere molto prima, proprio quando ero arrivato alle MS. Forse dovrei parlare anche della pipa, ma non è questa la sede: ci vorrà forse un articolo a parte.

No, non fraintendetemi: non rimpiango quelle vecchie sigarette dannose. 
Prodotti di una piccola Italia in costruzione, quella del Dopoguerra di cui non ho mai fatto parte se non nei racconti di papà, amavo delle Nazionali più che il sapore, l'idea che fossero l'espressione di una popolarità da provincia italiana, quella che aborro quando parlo di opera lirica nel mio sito, ma che è la stessa in cui vivo; quella vissuta e raccontata da Guareschi. Don Camillo in realtà viaggiava a mezzi Toscani - quelli che adesso la British American Tobacco aromatizza vigliaccamente con grappa, caffè e anice - ma teneva in un cassetto della sua canonica un pacchetto di Nazionali perché "...c'è sempre qualche idiota che fuma quella robaccia"

domenica 12 dicembre 2010

Bariade

Cos'è Bari?
Bari è un'idea come un'altra.
Per i baresi - soprattutto quelli lontani - è quella cosa che "...se Parigi avesse lu mare", ma che noi milanesi viaggiatori non arriviamo a capire..
Bari è l'hotel quattrostelle, con le finestre che guardano su un orrido casermone stile Gratosoglio e le coperte cammello stile militare, che sembrano prese dalla mia vecchia "Cesare Battisti" a Trento.
Bari è via Sparano, la risposta pugliese a via Montenapoleone: affollata, caotica, rilucente di mille vetrine ma singolarmente senza odori.
Bari è il lungomare Nazario Sauro, quello che costeggia il castello e arriva al Porto, illuminato da mille lampioni e dominato dal tanfo angosciante di alghe portate dalla risacca sui lastroni di porfido che arginano il lungomare e lasciate a imputridire in attesa della prossima mareggiata. E' il puzzo dell'Adriatico, dolciastro e greve, così diverso da quello serio e virile del Mar Ligure che si respira nei caruggi di Genova.
Bari è la ricerca spasmodica e infruttuosa di un ristorante aperto la domenica, perché anche se il barese emigrato che vuole consigliarti non lo ammetterà mai, sono tutti chiusi: anche L'Osteria del Gambero e persino Ai due ghiottoni, che ben ne dicesse il proprietario del negozio dove ho dovuto comprare l'ombrello per ripararmi dall'unica pioggia caduta quest'anno, che mi ha seguito dal nebbioso nord a bordo della fantozziana nuvoletta del medico congressista in trasferta. 
Bari è Barivecchia, che accetta sorridendo il milanese in trasferta, presentandogli la Cattedrale di San Nicola rigorosamente chiusa e i bassi che ricordano Napoli aperti come ferite - di più: come vulve deflorate da un ignoto stupratore, ma calde e accoglienti perché hanno fatto di necessità virtù. E dai bassi fuoriescono odore di Aiax e donne che sembrano essersi messe d'accordo per pulire tutta la loia che si accumula nel resto della settimana, e rovesciano nei tombini i secchi pieni di acqua sporca.
Bari è quel dialetto così incomprensibile, che non sembra affatto quello di tutte "e" al posto delle "a" di cui abbiamo imparato a sorridere ascoltandolo da Lino Banfi.
Bari è il caffè caldo e strettissimo, servito con regolare bicchiere d'acqua come succede sempre da Roma in giù, e che mi fanno pagare 70 centesimi come a Milano non succede più da... da quando? Da quando ci siamo abituati all'idea che un caffè trangugiato in fretta valga 1 euro intero? Qui ti danno il bicchiere d'acqua quasi a invogliarti a fermarti un attimo in più, a riposare il corpo oltre che la mente, a scansare per un istante in più tutto quello che hai da fare e che, se fossi a Milano, non potrebbe aspettare.
Bari è il sorriso dei due vecchietti cui ho chiesto un'informazione, che hanno guardato incuriositi ma affabili il polentone in trasferta, prima di suggerirmi la strada del Lungomare invece che quella che passa attraverso la Città vecchia,  "...che è più breve ma tanto più difficile", e io che già avevo visto la carnalità dei bassi aperti sulle strade strette ho capito quello da cui cercavano di proteggermi, forse perché convinti che non lo potessi capire.
Bari è la strada infinita sotto le mie suole, alla ricerca della comprensione del mistero che portano sempre seco tutte le città di mare: quel senso di sospensione che deriva dalla commistione fra terra e mare, da un confine molto labile che molto spesso non c'è. E' la stessa sensazione che si prova a Genova, Savona, Venezia, Ancona, Livorno, Messina e tutte le altre città che ho visto e che traggono la loro vita dal mare e che col mare respirano, spesso, un vento greve, pesante, salmastro, caldo anche d'inverno.

E tu cammini pensieroso, triste e solo sotto la pioggia, pensando che non ce la farai, che vuoi di nuovo sentirti a casa con la tua vecchia nebbia: pericolosa, spessa, fredda, umida e talvolta impenetrabile, ma che è casa tua.
E pensi di aver visto tutto, ma improvvisamente ecco che ti si materializzano davanti le vetrine di Magda, il famoso panificio di Bari, quello che - in quel momento, alle 19.30 di domenica sera - ti sembra improvvisamente il centro pulsante della vita di questa strana città. E vedi i ragazzi che fanno ressa dentro e fuori, e capisci che quella, a Bari, è casa meglio e più dello Zucca in Galleria del Corso a Milano. 
Entro, vado alla cassa e chiedo una porzione della specialità della casa: la famosa focaccia barese. Vado al bancone dove una signora corpulenta, una autentica fausse blonde mi chiede con malagrazia cosa voglio. Le porgo timidamente lo scontrino e lei in cambio prende le forbici, taglia mezza ruota, la avvolge in due fogli di carta spessa e bianca e me la porge. Una signora accanto a me la vede e batte le mani estasiata: "Che bella, è tutta bruciata come deve essere!".
Esco sotto la pioggia e assaggio la mia mezza.
I denti si scontrano inizialmente con la consistenza calda e croccante del bordo. Poi trovano il soffice saporoso dei pomodorini che si frangono sprizzando il loro sugo caldo, che cerca di debordare al di fuori dell'angusto spazio della bocca. E infine trovano la parte più morbida della pasta, quella intrisa di generoso olio di oliva pugliese, che ti scende giù per il mento senza che ti venga voglia di asciugarti, a perfezionare una sinfonia di sapori che non avresti creduto di poter provare tutti insieme con questa intensità. E quando credi di aver provato tutto, arriva alla fine l'aspra oliva che scoppia in bocca mille scintille di indescrivibile bontà.

Ecco: dopo aver tanto peregrinato, dopo aver pensato tutto il male possibile, dopo aver persino rimpianto la mia nebbia, finalmente Bari mi ha lasciato scoprire la sua anima in un trancio di pasta di pane bruciacchiata con olio di oliva, pomodorini e olive.
Perché non ho ancora imparato a capire che la vita va gustata lentamente,  con la saggezza dell'attesa?

domenica 5 dicembre 2010

Lacrymosa dies illa


Bergamo: un uomo di origine tunisina è in stato di fermo con l'imputazione di omicidio, forse per un movente sessuale, nei confronti della tredicenne Yara Gambirasio, scomparsa circa 10 giorni fa a Brembate Sopra. E' la bimba con l'apparecchio ai denti che vedete nella foto qui accanto. E' purtroppo la notizia che tutti stavamo aspettando, senza nessuna speranza in un miracolo. Che l'uomo sia tunisino, o marocchino, italiano, francese o inglese poco conta: è solo, con tutta probabilità, l'ennesimo rappresentante di una categoria di esseri viventi che, quando vedono qualcosa che piace loro, se la prendono, la usano e la gettano. 
Se è una bambina, meglio ancora: si difenderà meno


Lamezia Terme: un uomo di 21 anni (anche in questo caso extracomunitario, ma è solo un caso, lo ribadisco), drogato e senza patente ha investito un gruppo di ciclisti a Lamezia Terme: 8 morti e 2 feriti gravi. L'assassino sorpassava un automezzo a velocità folle: la stessa infrazione che gli era costata la patente sette mesi fa. Un paio d'anni fa era stata prospettata l'imputazione di omicidio volontario per questa specie di eventi; i soliti garantisti di merda, quelli stessi che applaudono alle condanne di Brega Massone e Spaccarotella (ineccepibili, sia chiaro), si sono levati come un sol uomo a difendere questi efferati assassini

Roma, Ospedale San Filippo Neri: un ragazzo con una malattia ematologica muore in sala operatoria per cause ancora da accertare; siamo lontani le mille miglia dall'identificazione di un nesso di causa, ma i saggi giornalisti hanno già deciso e affermato con voce vibrante che - indovinate un po'! - si tratta di un caso di malasanità. I medici escono per partecipare la notizia ai parenti i quali, per tutta risposta, si fanno giustizia come hanno imparato dai media: la Legge è troppo lenta, intanto ci si fa giustizia da soli: li aggrediscono pestandoli a sangue. Segue denuncia. Ovviamente dei parenti contro ai medici

Televisione, un canale nazionale a larga diffusione: una famosa conduttrice, uno sciacallo con le tette, dopo aver annunciato di aver messo i suoi sgherri all'usta a Brembate Sopra in cerca di notizie e lacrime fresche su un nuovo cadavere preferibilmente minorenne e di sesso femminile, ha presentato garrula l'esclusiva di una lettera che la madre di Sarah Scazzi le avrebbe affidato. Purtroppo quest'ultimo annuncio ha fatto poco effetto, ma doveva essere messo nel conto, no? Ci stupisce che una vecchia lenza come la conduttrice di cui sopra abbia scelto di tornare ad Avetrana, in attesa di altri potenziali morti ben più interessanti. A volte basta aspettare e rilassare un po' l'audience, magari parlando di ricette di cucina; tanto è questione al massimo di una settimana

    Oggi una persona cui voglio molto bene, affezionata lettrice di questo blog, mi ha chiesto come mai da un po' di tempo non vi scrivo articoli.
    Vuoi sapere il perché? Ho orrore dell'essere umano.
    Per un po' mi rifugio nel mio sito di opera lirica; mi trovate lì

    domenica 21 novembre 2010

    Oh Signore, questa notte guida le mie mani

    Nel corridoio che nel mio Istituto collega le scale mobili con la buvette c'è una libreria dove si vendono libri usati a metà del prezzo di copertina; il ricavato va in beneficenza per la Fondazione che ha lo stesso nome del mio Ospedale. Ci passo davanti tutti i giorni e non ci faccio quasi caso; è stato Vittorio che ha alzato il dito della mano destra indicando una copertina rilegata in primo piano:
    "Guarda lì", m'ha detto.
    Ho alzato il naso e sono rimasto fulminato nel vedere un volto sorridente  che conosco molto bene, perchè è stato il primo vero eroe - forse l'unico - della mia gioventù; il libro era la sua autobiografia. Sono entrato come un fulmine: il volume, praticamente intonso, portava il prezzo ancora in lire, 3000, al cambio circa 1 euro e 50, la cui metà è 75 centesimi. Ho estratto dal portafoglio un deca senza chiedere il resto e l'ho fatto per due ragioni: la prima è ovviamente la beneficenza, ma la seconda è che mi dispiaceva pagare così poco per leggere il racconto della vita di un autentico pioniere, uno di quegli uomini che, con la loro audacia, hanno veramente cambiato la storia dell'Umanità.

    Il luogo è Città del Capo, Sudafrica.
    La data è il 3 dicembre 1967.
    Il teatro si chiama Groote Schuur e in afrikaaner significa "Grande granaio": è un ospedale, una cittadella della salute e vi si curano bianchi e coloured, anche se questi ultimi hanno ingressi separati: siamo in pieno apartheid, ma questo è un altro pezzo di storia.
    In un'unità di Terapia Intensiva di questo grande ospedale giace Louis Washkansky, di 53 anni, affetto da cardiomiopatia dilatativa e con un'unica speranza: un intervento che nessuno ha mai matto, un'idea pazza e disperata, quella di sostituire il suo cuore ammalato con un altro cuore.
    Solo che, perché lui viva, qualcuno deve morire; ed è quello che sta succedendo in un altro punto dell'ospedale. 
    In un altro letto di Rianimazione i medici tengono artificialmente in vita una ragazza che è stata coinvolta in un incidente stradale; il suo cuore, così prezioso, batte ancora, ma è un nonsenso, perché non c'è più nessuna vita da alimentare: la ragazza è clinicamente morta. Il suo nome è Denise Darvall.
    I destini di queste due esseri umani che non si conoscono verranno uniti, in una notte interminabile, da un chirurgo sudafricano di 45 anni che, mentre aspetta di entrare in sala operatoria, si fa la doccia e intanto prega. Il suo nome è Christiaan Barnard: ha studiato tutta la vita per arrivare a quel momento, ma è terrorizzato dall'enormità di quello che si appresta a fare:
    Oh Signore, ti prego, guida stasera le mie mani...
    Mantienile libere dall'errore
    Così come mi hai liberato dal dubbio
    Mostrandomi la strada
    Affinché io operi al meglio delle mie possibilità
    Operi a vantaggio di quest'uomo
    Che ha messo la sua vita 
    Nelle mie mani


    Due sale operatorie comunicanti.
    In una si consuma il sacrificio di Denise. 
    Marius, fratello di Chris e numero due della squadra, è sul donatore. E' affranto: "Che vergogna - dice - stiamo uccidendo un cuore". Il cuore, organo magico, sede dell'anima, l'origine del moto perpetuo della vita.
    L'équipe è presa dall'angoscia di violare qualcosa di sacro, e che l'Asso di Picche, la Morte, il vecchio nemico sia lì sorridente ad aspettare nella sala operatoria l'uomo che, come Ulisse, sta commettendo il più grande peccato di superbia che si possa immaginare, quello che il chirurgo cerca di commettere ogni giorno: fermare la morte, violando le Colonne d'Ercole del corpo umano. Ma è troppo tardi per ripensarci.
    Nella sala accanto, legato a Denise quasi da un cordone ombelicale, Louis Washkanski aspetta col torace aperto, col cuore che si muove incoordinato come un mare in tempesta.
    La squadra guidata da Chris va avanti come un fiume in piena, fra le mille difficoltà dell'ignoto, ma alla fine il piccolo cuore di Denise riprende a battere nell'ampio torace di Louis.
    Il primo uomo trapiantato sopravvivrà poco: morirà per una polmonite dopo appena 19 giorni. Ma la strada era stata tracciata quella notte di oltre quarant'anni fa, in una sala operatoria del "Grande granaio"


    Se dovessi fare un elenco di uomini straordinari nel campo della Chirurgia, probabilmente sarebbe molto ristretto: Thomas Starzl, Paul Sugarbaker, Leandro Gennari e, appunto, Christiaan Barnard.
    Ognuno, a proprio modo, è stato un pioniere e ognuno, a proprio modo, ha scritto un capitolo fondamentale della Storia di quest'arte meravigliosa, terribile e affascinante.
    Barnard ha probabilmente avuto qualcosa in più: il fatto di aver affrontato una prova così incredibile nel Sudafrica della fine degli Anni Sessanta, all'alba dell'immunosoppressione, con mezzi giudicabili oggi di fortuna; il fatto di aver sostituito il cuore, quella che in fondo tutti noi ancora oggi consideriamo la sede della nostra anima, forse perché dà il ritmo incessante alla nostra stessa esistenza; l'estrema spregiudicatezza pur di arrivare alla destinazione; il fascino di un divo del cinema, che lo portò a dissipare la credibilità scientifica nel bel mondo, accanto a donne sempre diverse e sempre più giovani. E poi, il lento declino, inseguendo idee sempre più folli, devastato dall'artrite reumatoide che lo colpì nelle mani, il simbolo stesso del suo lavoro. Quelle mani con le quali, in una notte pazza e disperata, aveva sfidato la Natura e fatto battere il cuore di una donna morta nel petto di un altro essere vivente.

    Ho provato a chiedere a Giacomo, mio figlio, di 13 anni, se il nome di Christiaan Barnard gli dicesse qualcosa, ma mi ha risposto sorridendo di no; ne sono rimasto un po' sgomento perché, alla sua età, per me quel nome era già leggenda.
    Lo è ancora

    martedì 16 novembre 2010

    Il dottor C. e le donne

    Oggi sono a casa di recupero, piove e mi rendo conto che è arrivato il momento di parlare del dottor C.

    Abito in un paese, e questo vuol dire aver ogni tanto a che fare con qualche piccolo siparietto che in una città passerebbe più o meno inosservato.
    E del resto, solo in un paese ci potrebbe essere posto per un personaggio come il dottor C., glorioso farmacista che sembra ancora calato in una realtà come quella della provincia italiana degli Anni Sessanta.
    Quanti anni avrà il dottor C.? Una sessantina? Di più? Difficile da dire: i capelli grigio-bianchi, acconciati come Elsa Lanchester ne "La moglie di Frankenstein"; due o tre golf sotto il camice ormai grigiastro; le unghie lunghissime che servono a rimuovere le fustelle dalle scatole dei farmaci. Al mattino arriva il giornalaio che gli consegna l'Avvenire che lui depone regolarmente dietro al banco; non è dato sapere se lo legga.
    La bottega è triste, grigia come il camice del suo proprietario e oppressivamente retrò in tutto: alti scaffali di legno e vetro - Anni Sessanta, appunto - sempre coperti da uno strato di polvere come il salotto di Nonna Speranza; dietro le vetrine articoli innocui come shampoo o pappe per i bimbi; sugli scaffali non c'è nessun preservativo come quelli orgogliosamente in mostra sulle altre e ben più moderne farmacie, ma tutt'al più le mitiche caramelle all'orzo che, fossimo rimasti a vent'anni fa, verrebbero usate come resto in alternativa ai gettoni del telefono. E non è solo questione di preservativi, ça va sans dire: il dottor C. rifiuta l'erogazione della pillola anticoncezionale in quanto immorale, a meno che non sia prescritta come terapia, per esempio per la dismenorrea, e anche in quel caso con molta riluttanza, hai visto mai che la novella Messalina stia cercando di fregarlo...
    Il dottor C., come una specie di Re Mida al contrario, ingrigisce tutto quello che tocca, a cominciare dalla sua assistente farmacista, giovane ma quasi prosciugata da questo anziano gentleman cui la provincia in cui abita riconosce un ruolo, uno status sociale di cui egli fa uso e abuso rifiutando decisamente le avanguardie della modernità, si direbbe quasi con civetteria. E se proprio deve assoggettarsi al computer - dove col termine "computer" intendo una vecchia caffettiera, probabilmente un Commodore Vic 20, asmatica e grigia come tutto il resto dell'arredamento - lo fa con ostentato impaccio, come a dire: "Io vorrei anche, ma dovrebbero essere le macchine a seguire i miei ritmi".
    Questo vecchio signore, dalle lentezze esasperanti, retrogrado e bolso, vanta un ascendente particolare con le signore - preferibilmente anziane - che lo adorano. 
    Meglio non entrare nella sua farmacia se come oggi, putacaso, uno ha fretta. Il malcapitato utente di sesso maschile verrà scavalcato con nonchalance dalla vecchietta di turno che lo guarderà con aria fra il finto innocente e il battagliero articolando con malgarbo un: "C'era prima lei?"; dopo di che intratterrà col farmacista un'interessante conversazione di questo genere:
    "Sono tre giorni che non vado di corpo. Lei cosa dice, dottore? Posso prendere questo?", dice l'anziana cliente agitando il dorso di una scatola di magnesia.
    "Mah, sì - risponde il dottor C. serafico, benché poco convinto - Le funziona bene?"
    "Sì, ma se esagero vado di diarrea"
    "Sicura?"
    "Altroché. E' proprio molle!", conclude scandendo l'aggettivo con voce improvvisamente squillante come quella di Maria Callas in una cabaletta del Nabucco.
    A questo punto il dottor C. sorride con aria amichevole, si gira verso l'armadietto dietro di lui, prende un vasetto di Citrosodina e glielo propone quasi con nonchalance:
    "Che ne dice di questo? L'ha mai provato?"
    La vecchia signora si ritrae momentaneamente facendo finta di frugare nella memoria. 
    Certo che la conosci, penso io! Compragli 'sta cavolo di Citrosodina così poi riesco a farmi dare il mio Coefferalgan!
    Ma la signora non ha fretta e sorride a sua volta alle lusinghe del dottor C. che probabilmente ha toccato una corda nascosta del suo cuore:
    "Ora che ci penso - concede - potrei averla provata".
    Il volto avvizzito del dottor C. si distende in un ampio sorriso giallastro di tartaro mai ablato:
    "Ah! E' un rimedio sovrano"
    Santo Iddio!, penso, rimedio sovrano! Quanti anni sono che non sentivo quest'espressione! E' una frase da Soluzione Schoum che, non a caso, campeggia ancora nei suoi scaffali. Deve essere l'ultimo farmacista sulla faccia della terra a venderla.
    Il dottor C. continua a sorridere mentre alza il dito indice della mano destra nella sua piccola lezioncina. Tenetelo lontano dal suo Vic 20 e farete di lui un uomo felice, in mezzo ai suoi farmaci. La vecchina pende dalle sue labbra mentre il dottor C. inizia il suo piccolo apologo:
    "Vede signora, ne basta un cucchiaio mezz'ora prima dei pasti e le calmerà l'acidità, le permetterà una più rapida digestione e soprattutto l'aiuterà ad andare".
    , penso, e fra poco dico ad entrambi dove! 
    Prego che la vicenda veda la sua fine; la vecchia però finge perplessità anche se è perfettamente convinta dell'acquisto:
    "Sì, ma due cucchiai al giorno non saranno troppo? Io la magnesia la prendo ogni tanto".
    Il sorriso scompare immediatamente dalla bocca ingrommata del dottor C. che riporta verso di sé la scatoletta bianca e gialla. Il tono di voce non è offeso; è solo triste mentre constata che una cliente non ha avuto fiducia nelle sue capacità:
    "Naturalmente se preferisce la magnesia..."
    La vecchia capisce di averla fatta grossa:
    "Oh no, dottore! Mi dia pure la Citrosodina!"
    C'è un attimo di silenzio in cui io prefiguro il disastro incombente. Sospiro. So quello che sta per succedere e chino la testa. Avessi una pala, mi scaverei una fossa e mi ci seppellirei. 
    Non mi sbaglio, infatti: il dottor C. solleva un indice con l'unghia quasi femminea, mi indica e dice:
    "Se non si fida di me, abbiamo qui un dottore..."
    La vecchia si gira verso di me. E' chiaramente disgustata: io, immondo rappresentante della schifosa razza medica, non avrò mica il coraggio di contraddire quello che dice il dottor C.?
    Non ci penso nemmeno, ovviamente:
    "Il dottor C. ha ragione, signora. Vada tranquilla"
    "Certo che vado tranquilla! - sibila come una vipera - Ci può giurare!"
    Allunga la mano sul vasetto bianco e giallo e paga serena mentre il dottor C. glielo incarta. Ma il farmacista ha ancora un asso nella manica:
    "Vorrebbe lo stesso una scatola di magnesia? Sa, per quando finisce la Citrosodina", conclude con aria complice.
    E' troppo. La signora, che ha accettato l'alternativa propostale, ha la possibilità di avere anche il farmaco che si era autoprescritta con la benedizione del suo personalissimo guru, le cui parole sono un mantra. La vecchia apre la bocca in un ampio sorriso sdentato e, se non fosse l'età, la verosimile prolungata vedovanza e le circostanze potrebbe forse farci un pensierino, ma si limita ad aprire il portamonete e tirar fuori un altro deca.
    Esce.
    Tocca finalmente a me. Il dottor C. mi rivolge un ampio sorriso che farebbe la gioia del mio igienista. Osservo quasi rapito il tartaro che ha riempito gli spazi fra un dente e l'altro. La foto del padre a sua volta farmacista, che immagino terribile despota sul povero figlio forse unigenito, mi guarda arcigna dalla vetrina davanti e mi imbarazza. Chiedo rapidamente il Coefferalgan e apro il portafoglio.
    La mia richiesta lascia poco spazio alle variazioni, ma il farmacista ha sempre un asso nella manica. Si china, poi riemerge come un folletto su un fungo velenoso e mi dice:
    "E' sicuro di non preferire il Tachidol? Forse cambia un po' il sapore..."
    Il dottor C. si prende cura della salute di tutto il quartiere

    domenica 7 novembre 2010

    Sagrada Familla

    Non sono omofobo.
    Ho diversi amici gay, nello stesso modo in cui loro potrebbero dire di avere diversi amici etero: non c'è distinzione né categorizzazione, da nessuna delle due parti, ma solo una banale constatazione e, se vogliamo, accettazione reciproca.
    Probabilmente anche i miei nonni hanno avuto in passato amici gay, ma non lo sapevano perché non esistevano espressioni come fare outing oppure coming out.
    Non sono gay, ma in compenso, pur essendo credente, sono anche contemporaneamente laico e liberale e penso - fermamente convinto - che chiunque abbia diritto alla propria fetta di felicità in questo mondo. 
    E' anche per questo motivo che sono a favore del matrimonio fra gay. E sono sinceramente convinto che ci si possa amare anche in famiglie omosessuali tanto quanto in famiglie etero. 
    Ma sono anche nettamente a favore del pudore nelle manifestazioni sentimentali: non mi sono mai fatto vedere pubblicamente intento a cacciare la mia lingua come un formichiere in gola ad una donna; va be', forse in passato sarà capitato, quando ero un ragazzino alle prese con le prime cotte, ma comunque anche quello con moderazione e tendenzialmente non nell'età adulta.

    Non amo papa Ratzinger.
    Cresciuto sotto il pontificato vulcanico, umanissimo eppure profondamente mistico di Karol Wojtyla, fatico a riconoscermi in questo burocrate timido ed evasivo di fronte alle folle oceaniche che si riunivano sotto il suo predecessore. Non amo la sua predilezione per quel camauro che rimanda ai vecchi ritratti di Papa Giulio II, per il trono ritirato fuori dall'armadio dopo che l'aveva messo in soffitta Albino Luciani nel 1978, per i paramenti ricamati, per tutto quell'oro che Giovanni Paolo II aveva drasticamente ridotto. Non ne amo la rigidità di fronte a tutte quelle questioni sulle quali la Chiesa dovrebbe pensare di smussare gli angoli, a cominciare dal celibato del clero, problema vivo e spinoso, fino al concetto di famiglia, profondamente cambiato in questi anni. 
    Non amo quest'omino tedesco, teologo rigido e curiale, ma lo rispetto, così come rispetto (quasi) chiunque.
    E' proprio per questo che io, non come etero ma come laico e liberale, mi sono sentito offeso dalla catena di lingua in bocca che si sono vicendevolmente cacciati una coorte di gay al passaggio della papamobile di fronte alla Sagrada Familla a Barcellona.

    Non credo che la comunità gay possa aspettarsi accettazione e validazione del proprio status da parte della Chiesa; credo anzi, au contraire, che manifestazioni come questa siano dimostrazione di razzismo e intolleranza ben maggiore di quella che essi stessi lamentano.
    Non sono a discutere di giustizia ed equità, ma la Chiesa rappresenta una religione - quella cristiana - che non prevede le unioni fra persone dello stesso sesso. Cosa ci aspettiamo che dica un Papa? Che cambi le regole delle quali è custode?
    E' possibile, in astratto, che si arrivi fra un po' di tempo all'abolizione del celibato dei sacerdoti, ma la questione dello sdoganamento dell'omosessualità è tutto un altro paio di maniche e, anche lo volesse, un Papa non potrebbe metterci mano.
    Ragionandoci sopra con un minimo di buona volontà, e non con l'egoismo di chi pensa di essere sempre e comunque dalla parte della ragione, si dovrebbe arrivare a considerare il fatto che realizzare una catena di baci gay davanti al Papa non è né un gesto di protesta né una provocazione: è solo un gesto maleducato, profondamente stupido e avvilente verso un uomo anziano che non può fare né dire niente di diverso da quello che dice
    Non bacerei mai "avec la langue" mia moglie davanti ai miei amici, etero o gay che siano, così come non mi aspetto che lo facciano i miei amici, etero o gay che siano, davanti a me: sarebbe semplicemente una manifestazione di cattivo gusto, dall'una come dall'altra parte

    Continuo con i brani tratti dalla Messa in si minore di Bach. Questo è il Benedictus, un piccolo capolavoro che propongo nell'interpretazione di Philippe Herreweghe alla testa dei suoi complessi e del tenore Chistoph Prégardien:

    sabato 6 novembre 2010

    La banalità della malattia

    Anche oggi, ennesima fatwa giornalistica contro i medici.
    Motivo della condanna mediatica - come al solito netta, senza difesa e senza appello - è la morte per cause ancora da accertare di un ragazzo di 17 anni, deceduto all'ospedale di Ivrea per complicazioni dopo un banale intervento all'Ospedale di Ivrea.
    Il banale intervento, durato 5 ore (e si sa che tutti gli interventi seri durano dalle 6 ore in su, no? Sino a 5 ore di durata, gli interventi sono sempre banali!) è stato effettuato su un povero ragazzone di 150 Kg (!) che si era fratturato il femore a seguito di un incidente motociclistico da cui - parole della cronista del TG5 di questa sera - era uscito "quasi illeso". C'è veramente da rimanere allibiti: e la frattura di femore che fa perdere almeno un litro di sangue cos'è? Un cappero incistato?
    Non c'era un posto disponibile in Rianimazione, per cui il ragazzone dopo il difficile intervento è stato riportato in Reparto, monitorizzato e sorvegliato a vista dagli Anestesisti che lo avrebbero valutato non meno di sette volte durante la notte. Ma, nonostante questo, il ragazzone è morto.
    E adesso, ovviamente, avvisi di garanzia per omicidio colposo, avvocati in smania di protagonismo con gli occhi fuori dalle orbite e il faccino serio di circostanza, interviste luttuose ai parenti del poveretto e solite vesti stracciate.
    Non potevano aspettare un giorno in più, i medici, che magari si sarebbe liberato un posto in Terapia Intensiva? 
    Forse sì, forse no. Stiamo parlando di un ragazzone di 150 Kg di peso con una frattura di femore, quindi - per definizione - a rischio emboligeno elevatissimo a tenerlo fermo nel letto come è necessario sinché la frattura non è stata riparata. Senza contare l'emorragia che continua sino a che non hai stabilizzato una frattura. E poi, con un pronto soccorso in piena attività, sappiamo benissimo che i letti di rianimazione vengono occupati continuamente.
    Sarebbe cambiato qualcosa per il ragazzo se fosse stato ricoverato in Rianimazione?
    No.
    A quanto si legge, il ragazzo era monitorato ed è stato valutato non meno di sette volte dal Rianimatore durante la notte: pensate che in Rianimazione avrebbero potuto fare meglio di così? Ma naturalmente l'avvocato, assetato di sangue, afferma che il ragazzo è stato "...buttato lì in reparto come un paziente qualunque, come se si fosse rotto una caviglia". E cosa cazzo ne sa un avvocato di queste cose? Nulla, ovviamente. Ma parla. Non sa, per esempio, che una banale frattura di polso esposta può dare uno shock emorragico. Ma andiamo avanti.
    Era un paziente tranquillo, esente da rischi? Certo che no! Infatti su "La Stampa" si legge quanto segue:
    "Ma Davide non era un paziente qualunque, come gli stessi medici sapevano fin dall’inizio. Perché pesava 150 chili e perché aveva perso tantissimo sangue sia nell’incidente stradale in cui si era fratturato il femore sia durante l’intervento, eseguito tre giorni dopo il ricovero. Un’operazione apparentemente veloce ma che si era protratta quasi sei ore"
    E allora, santa miseria, se diamo per veritiere le parole scritte qui sopra, come cazzo si fa a parlare di un banale intervento? 
    Stiamo parlando di una frattura di femore (si possono perdere litri di sangue in una frattura di femore, santo Dio!) su un paziente obeso e gravemente emorragico, una di quelle situazioni che nessuno di quelli che fanno il mio lavoro vorrebbe mai affrontare! 
    E pensate che ci sia fra i miei colleghi qualche pazzo incosciente che affronta una situazione così piena di elementi di rischio senza cercare di mettersi al sicuro in tutti i modi?
    Avete idea di cosa voglia dire operare, per di più in regime di urgenza (sia pure differita) un paziente obeso e gravemente emorragico?
    Qualcuno degli intelligenti giornalisti o dei saggi avvocati sempre col ditino alzato - se lo ficcassero nel culo -  e la voce vibrante di emozione mi può cortesemente spiegare come affronterebbero, loro, una situazione come questa che essi stessi definiscono banale?
    Ed è quest'ultimo aspetto, soprattutto, che mi fa veramente imbestialire.

    Il lavoro medico può essere tante cose, ma non è mai banale.
    Possono esserci errori nella gestione di un paziente - si chiama malpractice, una volta per tutte - perché anche il medico è un essere umano e sbaglia come tutti, ma non sbaglia mai per aver trasformato una pratica banale in un macello. E questo per due buoni motivi.
    Il primo è che sì, certo, ci sono professionisti di vario genere e non tutti sono alla stessa altezza, ci mancherebbe, ma è difficile, molto difficile che qualcuno dotato di cervello mediamente raziocinante si butti in uno strapiombo del genere senza prima essersi attrezzato con un paracadute. Doppio.
    Il secondo - che poi è quello più importante - è che non si può trasformare una pratica banale  in un macello per il motivo molto semplice che nella cura dell'essere umano non esistono pratiche banali: anche una banale estrazione dentaria può trasformarsi in un dramma se il paziente è cardiopatico, o inaspettatamente allergico agli anestetici locali, o senza saperlo è portatore di una coagulopatia che spesso viene scoperta proprio in occasioni banali come queste. Mi è capitato più facilmente di perdere anni di vita in occasione di appendicectomie che nella mente bacata di qualche comunicatore mediatico (mai nella mia, in ogni caso) sarebbero state classificate come banali ma che poi, alla resa dei conti, banali non lo erano poi tanto. 
    Ci sono banali raffreddori che, in pazienti defedati ed immunosoppressi, diventano polmoniti per nulla banali.
    Si sono diagnosi che sono banali solo nella testa bacata di chi ce le rappresenta in televisione, alla radio e sui giornali; e io, come chirurgo di discreta percorrenza, continuo a sostenere che la vera sfida nella mia professione, quella che fa tremare i polsi, non è l'intervento difficile, ma la diagnosi che sembra banale. Ma naturalmente questo tipo di considerazioni non hanno nessun significato per una platea abituata all'infallibilità non dico del Dr. House, ma a quella di Lele Martini del "Medico in famiglia" e di Rosanna Lambertucci.
    L'unica vera banalità è quella di considerare una malattia uguale ad un'altra: è l'equivoco tipico di chi considera le malattie e mai i malati, ed è un errore che solitamente non viene mai commesso da un medico, bensì da chi ne parla, per lo più a sproposito: ancora una volta, avvocati e giornalisti. 
    Sono tante e tali le variabili che possono impazzire nella cura di un paziente, che mai e poi mai userei un termine come banale per definirne la diagnosi o la cura: nella migliore delle ipotesi, a essere generosi sarei superficiale. 
    A meno, ovviamente, di essere giornalista o avvocato


    mercoledì 3 novembre 2010

    Il capo di gabinetto

    Non so se sia peggio lui o quelli che lo difendono.
    Perché è indifendibile, davvero; e sarebbe il caso che ci riflettessero Feltri e Sallusti, invece di continuare ad affossare il mio caro, vecchio Giornale con campagne che tradiscono il pensiero liberale di cui fu l'unico alfiere in una stagione difficile.
    E' in una posizione in cui non può né fare, né dire tutto il cazzo che gli passa per la testa. O meglio: lo può anche fare e dire, ma a casa sua e per conto suo, o con i sicofanti suoi abituali ospiti; non pubblicamente di fronte alle telecamere di tutto il mondo. E sia chiaro: non lo dico per fare - come tanti, in questo momento - il finocchio con il culo degli altri.
    In questa miserabile farsa che, per i riferimenti al machismo perennemente esibito non come un plusvalore (e poi dicevano di Bossi...), ma come unico attributo possibile per un "vero" uomo e che ai tempi avrebbe potuto essere il plot narrativo di una pellicola con Alvaro Vitali, Bombolo e Cannavale si pone, per il protagonista, una questione di indecenza e di inadeguatezza al ruolo pubblico che ricopre. Lo dico con tristezza, visto che il principale attore di questa farsaccia dovrebbe essere il personaggio che, oltre a governarci, maggiormente ci rappresenta all'estero. E invece, all'estero, in quell'estero in cui una volta l'Italia era soprattutto pizza, mandolini e mafia, vedono adesso come immagine rappresentativa dell'Italia un primo ministro che va a troie, e questo sarebbe il meno, se non fosse che poi ogni professionista contattata dall'insaziabile premier si sente in dovere di scrivere un libro di memorie neanche avesse avuto un'esperienza con Rocco Siffredi; insidia le ragazzine, le paga, le riempie di regali, inventa palle per loro, ci scherza sopra come se nulla fosse; e, in ultimo, per confermare al mondo la potenza della sua generosa virilità, fa battute sui gay, e cara grazia che non ha usato termini come froci, o checche, o culattoni, che forse però in fondo avremmo accolto come una manifestazione di sincerità, perché questo ricorso al forbito eufemismo decisamente non si addice al Berlusca.
    Sia chiaro: non me ne importa nulla del risentimento di Vendola, di Grillini, di Cecchi Paone o - chissà - di George Clooney, anche perché in questa squallida corsa al ribasso tutti, nessuno escluso, fanno e faranno abuso di ipocrisia.
    In momenti come questi sono costretto a riabilitare la memoria di un vecchio gangster come Bettino Craxi, uno che i cazzi suoi se li faceva alla stragrande e con ben altro stile; per non parlare dei vecchi patriarchi della politica italiana. E senza citare gli Intoccabili, come Andreotti o Forlani - che pure mai si sarebbero sognati uscite o atteggiamenti di questo genere, qualunque sia il giudizio morale che di essi si possa dare - persino Giovanni Goria, politico di modesto profilo della prima repubblica e ormai semidimenticato, al confronto sembra Neville Chamberlain

    sabato 30 ottobre 2010

    Avere i numeri giusti

    Il laboratorio di responsabilità sanitaria è un progetto nato dall'intuizione di un grande professionista della Medicina Legale, il mio amico Umberto Genovese, Ricercatore dell'Università degli Studi di Milano e pilastro della Sezione di Medicina Legale. Scopo dell'iniziativa è fare chiarezza nel casino apocalittico in cui sono piombate tutte le vicende sanitarie sub specie iuris, grazie ad una migliore coscienza del cittadino e per colpa di una serie di figure che su queste vicende ci campano, in primis giornalisti e avvocati.
    Cito dal sito del Laboratorio di Responsabilità Sanitaria: 


    La consulenza di medicina legale fornisce un supporto tecnico ai singoli, ma anche ai diversi servizi sanitari, in questo caso in grado di interfacciarsi con soggetti esterni (Assicurazioni, Magistratura, cittadini) e con le figure professionali interne a questi, al fine, anche, della gestione del rischio clinico.
    Un'efficace attività di prevenzione, mediante una appropriata gestione del rischio ed una educazione del personale sanitario consente di trasferire all'assicuratore soltanto la copertura degli eventi straordinari così da condurre alla riduzione dei sinistri e, di conseguenza, al contenimento del costo della copertura assicurativa. Quest'ultima peraltro sempre più di frequente limitata a quelle strutture che garantiscono una tutela interna di controllo e monitoraggio del rischio clinico.
    Si è d'altra parte convinti che l’esigenza della adeguata informazione risulti una priorità non solo del paziente, ma anche di chi, appunto, in concreto se ne prende cura, e che non infrequentemente si sente condizionato nelle sue scelte diagnostiche e terapeutiche più dal timore di incorrere in “guai” giudiziari, che dal perseguire ciò che “scienza e coscienza” gli consiglierebbero.

    Quest'ultimo in particolare non è un problema banale: nonostante la Magistratura consideri sempre più l'omissione come un elemento di colpa tanto quanto un errore, non sono pochi i miei colleghi che fanno sempre più ricorso, nell'esercizio della loro professione, all'espressione icastica: "Pararsi il culo", ormai praticamente un paradigma di vita, nel cui contesto entrano i più disparati atteggiamenti, che vanno dall'astensione a pratiche minimali che evitino la sovraesposizione dell'operatore

    Ieri si è tenuto a Milano, presso l'Aula Magna dell'Università, un convegno molto interessante presieduto da Umberto e con la partecipazione di diverse autorità e di addetti ai lavori. L'argomento era: La Sanità Italiana ha ancora "buoni numeri", e il titolo giunge a proposito dopo che mercoledì la stampa e i telegiornali avevano diffuso l'ennesima fatwa sulla cosiddetta malasanità, tirando fuori numeri che, messi in quel contesto, non avevano nessun senso se non, ovviamente, quello di tenere alta la tensione dei cittadini nei confronti di chi si dovrebbe prendere cura della loro salute.
    Le cifre diffuse dai telegiornali sono, come al solito, urlate a pieni polmoni: la Commissione parlamentare sugli errori sanitari presieduta da Leoluca Orlando ha rilevato nell'ultimo anno 242 vittime per malpractice, di cui 163 morti, e la maggioranza in Calabria e Sicilia. Generalizzando ancora di più, in Italia c'è, secondo la Commissione parlamentare, una vittima ogni 3 giorni
    A beneficio di chi non fosse informato in materia, è utile premettere che:
    1. nessuno spiega questi 242 vittime in che rapporto numerico siano rispetto al numero complessivo di persone a vario titolo curate in un anno
    2. nessuno spiega se questi 242 vittime siano stati effettivamente riconosciute tali in conseguenza (quindi, con dimostrato nesso causale) di una malpractice, o se vi sia solo supposizione di dolo, perché questo cambia tutto: ci vogliono anni di istruttoria per dimostrare un nesso di causa fra una presunta malpractice e il decesso di un paziente, e questa dimostrazione nell'80% dei casi viene negata in fase processuale o pre-processuale
    3. siccome la rilevazione di questi numeri arriva a Settembre di quest'anno, il primo inevitabile rilievo è che il compilatore di questa lista ha messo nel calderone tutto ciò che ha trovato come in una ricerca con Google, senza curarsi di accertare l'esatta natura di quello che ha trovato 
    Ma facciamo finta, per un momento, di credere alla buonafede di chi ha dato in pasta alla stampa questi dati; e proviamo, giusto per amore di conversazione, a paragonarli a dati sicuramente raccolti con ben altra serietà da un'Istituzione seria e abituata a dirimere gli errori medici, essendo consulente del Tribunale.
    La Sezione di Medicina Legale del Dipartimento di Morfologia dell'Università degli Studi di Milano - quindi un osservatorio di tutto rispetto, almeno per una realtà come quella italiana, visto che raccoglie tutti i dati di Milano e provincia - ha riesaminato 14177 autopsie effettuate dal 1996 al 2009. 
    Di queste, 317 sono quelle effettuate in 13 anni per sospetta - sottolineo il termine sospetta - malpractice. Questo comporta, come risultato del calcolo bruto, meno di 2 persone al mese vittime di sospetta malpractice. Si ribadisce il "sospetta": di queste 2 persone è ancora tutto da accertare il nesso di causa con una reale malpractice.
    Come ognuno può vedere, i calcoli lombardi portano a conseguenze molto diverse.
    Certo - si obbietterà - la sanità milanese è ben diversa da quella di Cosenza o di Messina. Verissimo. Ma è ora di finirla di generalizzare, perché è necessario una volta per tutte arrivare a una redefinizione e rinegoziazione del rapporto fra medici e - dall'altra parte - pazienti, parenti, avvocati e giornalisti. 
    E qui è necessario un piccolo inciso.

    Alla tavola rotonda era presente anche tale Enrico Moscoloni, avvocato e Consigliere Segretaio dell'Ordine degli Avvocati di Milano.

    Alla domanda di una giornalista: "Ma non vi sembra a voi avvocati di spingere un po' troppo verso le cause sanitarie?", la risposta è stata dapprima un "Dobbiamo far fare qualcosa ai giovani avvocati " e poi: "Noi non facciamo nulla se prima non c'è il parere medico legale".
    Palle, avvocato.
    Panzane allo stato puro, mi conceda, e non occorre granché per smascherarLa.
    Se un utente qualunque fa una ricerca su Google mettendo come termine di ricerca "malasanità", per prima cosa trova una sfilza di servizi in franchising che offrono consulenze per presunti casi di malpractice
    Non occorre molto: dopo che la Cassazione ha stabilito che nelle cause civili di questo specifico ambito l'onere della prova è a carico del medico che subisce la denuncia (follia allo stato puro), basta che un qualunque paziente si senta "parte lesa" (come dice una pubblicità) per mettere in moto il tutto. 
    L'avvocato, se va bene, si prenderà la sua fetta di torta dal risarcimento che, nelle cause civili, viene riconosciuto al postulante nell'80% dei casi (come si vede, esattamente l'opposto delle cause penali). 
    Far causa a un medico conviene sempre, questa è la verità.
    Ma questo giochino, alla lunga, può produrre dei bei danni terziari.
    E infatti, le conseguenze le stiamo cominciando a vedere.
    • Una di esse è quella cui facevo riferimento prima: la cosiddetta medicina difensiva: molti medici rifiutano di prendere iniziative eroiche, preferendo demandarle ad altri o negandole tout court al paziente: non è etico, ma si può capire. Oppure, in alternativa, si imbarcano in manovre aggressive solo dopo decine di accertamenti strumentali dai costi spaventosi, che tutelano il medico più che il paziente ma con ricadute mostruose sulla spesa pubblica
    • L'altra conseguenza è la carenza di medici che si dedichino all'attività chirurgica. Il numero di iscritti alle scuole di specialità in chirurgia è in crollo verticale, e uno dei motivi è proprio la consapevolezza di tutti i rischi legali che un chirurgo correrà nel corso della sua vita professionale.
    • La terza conseguenza è il costo spaventoso in termini assicurativi, sia per la società che per i singoli: una polizza RC per un chirurgo ha un costo da brivido che, molte volte, un giovane professionista non è in grado di sostenere
    • La quarta conseguenza è il mistake semantico. Mancata guarigione o complicanza sono diventati sinonimi di errore, colpa e/o malasanità. Per quanto la sua malattia sia grave, nessun paziente accetta che le cose possano andare in modo diverso da quanto si è prefissato per intima convinzione, perché così ha letto su Internet o perché gli è stato detto dal vicino di casa
    • La quinta conseguenza è il blocco del sistema giudiziario, per soddisfare un'utenza fomentata dagli  organi di stampa, assetata di sangue e alla ricerca di "giustizia", con il medico che diventa il terminale di tutte le frustrazioni e del male di vivere di chi non ammette che di una malattia si possa anche non guarire

    Auguro al mio amico Umberto la miglior fortuna con la sua iniziativa: ne abbiamo tutti bisogno, utenti e operatori sanitari.
    E concludo con una citazione del Prof. Federico Stella, insigne giurista e studioso del problema della Giustizia in un'accezione quasi filosofica:
    "Gli studenti [di Giurisprudenza, ndr] vengono così a trovarsi in una situazione davvero singolare: non sanno cos'è la giustizia, ma riescono a riconoscere senza esitazione una situazione di ingiustizia" (F. Stella, La giustizia e le ingiustizie, il Mulino 2006): e non è forse così per ogni campo delle attività di qualunque essere umano?...


    mercoledì 20 ottobre 2010

    Maria nelle mie mani

    La sala 5 del Blocco A.
    Una piccola folla di gente che mi accoglie sorridendo, persone amiche che vogliono accogliere la mia tensione per scioglierla e assorbirla.
    Tu non ci sei ancora, e ti vengo a cercare in recovery, e sei lì, nelle mani di Stefania che ti mette il sottile catetere della peridurale, e sei uno scricciolo in quel letto troppo grande per te, e mi fai una tenerezza infinita e devo farmi violenza per non far scendere quei due lacrimoni che sono tutta la mia emozione al pensiero di quello che ti devo fare fra poco, e ho una paura infinita di farti male, ma tu mi sorridi fiduciosa e serena perché hai messo la tua vita nelle mie mani.
    Le mie mani che accarezzano i tuoi capelli in sala operatoria mentre Stefania fa scendere dolcemente il sonno nelle tue vene.
    Le mie mani che cercano la strada nella tua pelvi martoriata per il precedente intervento e per la malattia, ed è un percorso aspro, frastagliato, difficile in mezzo a decine di strutture anatomiche che conosco per nome, con le quali mi do del tu e per le quali ho un rispetto quasi reverenziale, una sorta di tacito patto reciproco di non belligeranza, ma qualcuna la devo sacrificare, lo so, e lo faccio con decisione perché voglio toglierti questa malattia che si è impossessata delle tue viscere e ha riempito ogni spazio libero.
    Le mie mani che, mentre il tempo passa (e alla fine saranno passate undici ore e mezza), diventano sempre meno agili e più stanche, devono rifare un'anastomosi sbagliata e, alla decima ora, devono strappare ancora la capsula dal fegato che, ovviamente, sembra offendersi e sanguina e poi, preoccupate, devono rapidamente avvolgere l'organo nelle pezze intrise di acqua bollente che ferma il sangue, ed è un lavoro estenuante che non finisce mai, ma Andrea e Antonella sono lì con me e Cristina mi sorride dall'altra parte.
    Ma tutto finisce e di notte Nadia mi dice: "Tranquillo, è sveglia, ha alzato la mano in segno di ok", e finalmente posso schiantarmi nel letto in un sonno senza sogni.
    E oggi entro in sala di rianimazione, e intanto indosso il camice di carta che svolazza intorno al mio corpaccione pesante e affaticato, ma ti vedo, vedo il tuo sorriso stanco, e accanto hai tua sorella gemella che ha il tuo stesso sorriso buono e fiducioso.
    Un dito, quel dito che indossa con grazia il saturimetro come se fosse un anello di Cartier, si solleva indicandomi; sento la tua voce con l'irresistibile e dolce cadenza emiliana che tocca una corda nascosta del mio cuore.
    E la tua voce dice, sicura: "E' quello il mio chirurgo"


    domenica 17 ottobre 2010

    La pelle


    "Ero stanco di veder soffrire gli uomini, gli animali, gli alberi, il cielo, la terra, il mare, ero stanco delle loro sofferenze, delle loro stupide e inutili sofferenze, dei loro terrori, della loro interminabile agonia. Ero stanco di aver orrore, stanco di aver pietà. Ah, la pietà! Avevo vergogna di aver pietà. Eppure tremavo di pietà e di orrore" 
    (Curzio Malaparte, "La pelle")


    Credevo d'aver commentato tutto l'obbrobrio a disposizione in Italia, ma mi sbagliavo.
    Mancavano ancora:

    • Barbara D'Urso - a fronte della quale persino Michele Santoro sembra David Letterman - che invita, in esclusiva, nella sua ignobile e scatologica trasmissione, le cugine di Sarah. E siccome c'è un dio per tutti, anche per gli sciacalli, il destino le ha riservato la grande fortuna dell'arresto, pochi giorni dopo di una di esse
    • la cugina Sabrina, giustappunto, che si scopre aver aiutato il padre a coprire le sue attenzioni verso la cugina, mediante concorso in omicidio. In altre parole, ha attirato Sarah nel garage dove era appostato il verme, l'ha tenuta ferma mentre lui la strangolava e poi l'ha aiutato a caricarla in macchina per portarla a compostare nel pozzo
    • le mamme che portano i bimbi in gita domenicale al pozzo dove era stata buttata Sarah, per fare foto ricordo
    • le famigliole che, non sapendo cosa fare di meglio, si organizzano dai paesi vicini per andare a vedere la casa in cui sono cresciuti due mostri accertati e magari chissà, se siamo veramente fortunati, qualcun altro che aspetta ancora di venire alla luce. Magari, quando si affaccia la signora Cosima per mandarli affanculo, qualcuno potrebbe chiederle cosa ne pensa delle personcine della sua famiglia; oppure, alla peggio, possono mettersi tutti in mostra dietro a Tony Capuozzo e farsi riprendere dalla televisione 
    Poi, come se non bastasse:


    • l'intervista agli amici di quello che ha fatto fuori l'infermiera romena Maricica Hahaianu con un pugno ben assestato (cosa che gli è venuta abbastanza facile, essendo pugile); i quali amici, oltre a manifestare solidarietà all'assassino, hanno detto che tutti avrebbero fatto la stessa cosa
    • l'avviso di garanzia ai medici che hanno curato la stessa Maricica, perché in questo porco paese, quando non sai cosa fare, se denunci il medico di turno non sbagli mai; dopotutto l'Italia è l'unico paese al mondo con la Polonia a prevedere il codice penale per la colpa medica - vera o presunta che sia, e vera non lo è quasi mai - per cui, male che vada, troverai sempre un giornalista che darà adeguato risalto alla notizia



    venerdì 8 ottobre 2010

    Ces gens-là

    Quelli che pensano che - in fondo - lo zio Michele abbia fatto bene a dare una lezione alla nipote che non gliela voleva mollare, che così le ha fatto vedere chi è l'uomo, quello vero, quello che comanda.
    Quelli che applaudono sempre le bare, anche quelle delle ragazze morte troppo presto per aver detto un no di troppo, perché in fondo resistere agli stupratori di cadaveri è pur sempre un bel modo di morire.
    Quelli che aprono su Facebook i fans club per Michele Misseri, perché "la mocciosa ha avuto quello che meritava".
    Quelli che considerano la donna un oggetto da possedere, brutalizzare, coprire completamente con tendaggi e telerie assortite, confinare in un'altra camera perché indegna di stare a tavola con l'essere umano di sesso maschile.
    Quelli che definiscono "un'altra civiltà con dignità e storia pari alla nostra" quella che insegna ad ammazzare a sassate o bastonate la donna che non accetta di sposare un uomo scelto dal padre e dal fratello, o che la fa morire di dolori se in ospedale non c'è un medico donna (che spesso peraltro non c'è, perché in certi paesi la donna è considerata indegna di studiare, e si mettono bombe di fronte alle scuole elementari femminili).
    Quelli che affermano che la pena di morte svilisce l'uomo che la commina, che la pena deve essere educativa più per il detentore che per il detenuto, perché dobbiamo sempre recuperare l'umanità del colpevole, ma nessuno sa spiegare dove sia l'umanità in un troglodita che prima strangola alle spalle una quindicenne e poi, dopo morta, finalmente se la può scopare in tutta tranquillità; ottenendo così, tra l'altro, il biglietto quasi sicuro per la semi-infermità mentale.
    Quelli che pensano che la forca o il muro non siano fini: molto meglio, caso mai, buttare il troglodita in mezzo ai carcerati duri e incalliti, che ci pensano loro con il loro "codice d'onore" a ripassargli prima il buco del culo, poi le carotidi, così nessun benpensante si sporca le mani, il tutto detto ovviamente con aria molto seria e compunta.
    Quelli che brandiranno il microfono in faccia alla madre di una ragazza di quindici anni prima ammazzata e poi stuprata da un troglodita in calore, e le chiederanno: "Cosa vorrebbe dire all'assassino di sua figlia?" oppure, meglio ancora: "Pensa di riuscire a perdonare l'assassino di sua figlia?".
    Quelli che - già da adesso - cercano il loro momento di gloria facendosi intervistare in lacrime, dicendoci che loro l'avevano sempre saputo, oppure almeno mostrando gli avambracci muscolosi dietro alla cronista del telegiornale, salutando gli amici del bar e urlando "Viva Sarah!".
    Quelli che cercheranno di scaricare la responsabilità sulla nostra coscienza narcisista, corrotta da spettacoli televisivi che ci rimandano una società annegata nell'edonismo, nell'egoismo e nella facile rappresentazione dei casi quasi umani.

    Quelli che ancora non ho mandato a fare in culo, perché non me li ricordo, perché sono troppo infimi e particolarmente indegni della mia memoria, o solo perché sono troppo stanco e affranto.
    Quelli.
    Sì, anche quelli