lunedì 31 agosto 2009

I grandi Papi del Secolo

Lo confesso: non sono un lettore di “Repubblica”; e così mi ero perso le famose dieci domande cui il premier si rifiuta di rispondere.

Solo ieri ho scoperto che le domande pubblicate dal quotidiano non riguardano come si potrebbe pensare, data la nota serietà della testata, la politica economica del governo, le politiche in materia di immigrazione, i rapporti con l'opposizione, la riforma della costituzione o il federalismo fiscale. No, le domande si avvitano tutte intorno alle ormai famose curve di Noemi Letizia, diciottenne partenopea di belle sembianze nota ai più perché chiama Berlusconi con l'appellativo “Papi” e perché è stato l'argomento elettorale più interessante messo in campo da Dario Franceschini, PD e compagni nel corso delle recenti europee.

Ora, parrebbe che Papi si rifiuti di rispondere a questi quesiti; ed è strano, in fondo, perché le domande, che sembrano scritte a quattro mani da Bob Woodward e Carl Bernstein in persona, sono un piccolo gioiello di giornalismo.

Prendiamo la numero 5: “Quando ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia?”.

È logico che di fronte ad un quesito così ficcante e ricco di eloquenza, il Berlusca si senta spaesato, smarrito e messo in un angolo. Si capisce perché non può rispondere: per molto meno – una fellatio, per capirci – Bill Clinton a momenti perse la Presidenza degli Stati Uniti.

La numero 6 entra maggiormente nel vivo del problema: “Quante volte ha avuto modo di incontrare Noemi e dove?”. Roba forte, insomma: per l'impegno civile e la ricca documentazione che la sostiene, una domanda così violenta sembra uscita direttamente dalla penna di Marco Travaglio.

La numero 7 ha un tono paternalistico che qualche critico ad oltranza potrebbe imputare a socialismo umanitario tardo-ottocentesco: “Lei si occupa di Noemi e del suo futuro e sostiene economicamente la sua famiglia?”. Probabilmente Giuseppe D'Avanzo, autore di questa requisitoria meritevole di un Pulitzer, si riconosce nella corrente culturale che rese famoso Edmondo De Amicis.

A me personalmente, però, piace molto la 10: “Sua moglie [Veronica Lario, ndr] dice che non sta bene e che andrebbe aiutato. Quali sono le sue condizioni di salute?”. La questione, che fa riferimento alla nota satiriasi del premier, è suffragata da un parere autorevolissimo di un geriatra che scrive nientemeno che su “Novella 2000” del 9 maggio. In cui si parla di degenerazione psicopatologica di tratti narcisistici della personalità. Una nota bibliografica con i controcazzi, se mi si perdona il francesismo: solo un giornalista di quella sinistra che da sempre è appaltatrice della cultura prima che – più recentemente – della morale, poteva far riferimento a “Novella 2000” per avvalorare le proprie argomentazioni medico-scientifiche.

D'Avanzo tiene meticolosamente acceso e funzionante un timer in cui conta giorni, ore, minuti e secondi trascorsi senza risposta da parte di Papi. In attesa che il Premier lo degni di quella considerazione che in cuor suo sente di meritare, egli ha perfezionato il suo meccanismo inquisitorio con dieci nuovi quesiti. Fra questi, tutti di altissimo profilo morale, citerei il numero 4: “Lei si è intrattenuto con una prostituta la notte del 4 novembre 2008 e sono decine le squillo, secondo le indagini, condotte nelle sue residenze. Sapeva fossero prostitute?”. A parte la sintassi non di primissima lana (ma non sottilizziamo), probabilmente in questo caso la domanda mira a chiarire se il Berlusca le puttane le paga come tutti, oppure se gli si concedono gratuitamente. Questo privilegio, sogno di ogni uomo e spesso tradotto in film di successo (pensiamo, per esempio, a “Irma la dolce” con la grandissima Shirley McLaine), farebbe morire d'invidia il giornalista che, evidentemente, non vanta sulle mercenarie lo stesso ascendente di Papi.

Ora, ad uso e consumo di Giuseppe D'Avanzo, Ezio Mauro, Marco Travaglio e di tutti gli altri lucidi commentatori di quell'area politica erettasi (ancora una volta, hony soit qui mal y pense) a baluardo della moralità altrui e giammai della propria, ricorderemo che quando nel 1948 Palmiro Togliatti cadeva sotto i colpi di Antonio Pallante, trovavasi casualmente a braccetto della compagna Nilde Jotti. La quale Nilde non era, come molti pensano, la moglie (che invece si chiamava Rita Montagnana), bensì da almeno due anni l'amante di 27 anni più giovane che, grazie all'intercessione del Migliore, proprio dal 1946 aveva intrapreso quella brillante carriera politica che poi l'avrebbe portata sullo scranno più alto di Montecitorio per un tempo infinito.

Insomma, una roba da Papi.

Ora, potrei sbagliare ma nessuno ha mai fatto le pulci al Migliore se, di fronte al fascino della carne fresca, trascurò la Camera dei Deputati per la camera da letto: dopotutto, i due condividevano oltre ai banali piaceri della carne, quell'Idea che poteva tacere ogni pettegolezzo.

È vero: oggi l'Idea non esiste più e il mondo in cui viviamo è assai più grigio e prosaico, ma quello della grande Nilde è proprio un esempio di fulgida e preclara carriera politica costruita sul sapiente uso di una risorsa anatomica cui molti uomini sono sensibili. E tuttavia nessuno mi toglie dalla testa che Togliatti sia stato molto fortunato a non vivere nei nostri tempi, altrimenti anch'egli si sarebbe trovato di fronte un Travaglio col ditino alzato, o un D'Avanzo che gli avrebbe fatto dieci domande.

Chissà. Magari gli avrebbe anche risposto.

giovedì 27 agosto 2009

I politici della porta accanto


Avevo previsto un articolo disimpegnato – comunque già pronto, sarà pubblicato nei prossimi giorni – ma la morte del senatore Ted Kennedy mi obbliga a spendere due parole che spero contribuiscano a dare qualche spunto di riflessione.

Non mi è mai stato molto chiaro il rapporto fra l’America e l’ingombrante famiglia Kennedy.
Ingombrante per il peso politico, piuttosto inconsueto per dei cattolici irlandesi che hanno mosso i loro passi dal Massachusetts.
Ingombrante anche per l’eccezionale prolificità di ogni singolo componente: a partire dai capostipiti, Joseph e Rose (nove figli) sino a Bob che fece fare la bellezza di undici figli alla moglie!
Ingombrante, infine, per l’ambiguità di un piccolo esercito che sembrava nato per fare politica e che poi inciampava in trappoloni degni di un assai più prosaico Bill Clinton. Mi riferisco, ovviamente, a quelle donne che i maschi della famiglia Kennedy hanno sempre dimostrato di apprezzare oltremodo, sino agli scandali clamorosi di Marilyn Monroe, per JFK e Bob, e di Mary Jo Kopechne, la segretaria annegata in un imbarazzante incidente per Ted che, per evitare scandali, “omise” di soccorrerla. L’onda lunga di questa tragedia pesò come un macigno alle uniche primarie cui partecipò quando, nel 1980, il Partito Democratico gli preferì l’imbelle ed incapace Jimmy Carter: per chi non lo ricordasse, “Peanuts” – come veniva soprannominato – fu il peggior presidente della storia degli USA.
Diventato Senatore nel 1962 e sempre rieletto, Ted era la punta di diamante dei Democratici, di cui incarnava il pensiero più progressista; ed era anche lo stratega che aveva individuato nel 2004 in Barack Obama, all’epoca semisconosciuto, le potenzialità per una grande carriera che, sapientemente guidata, avrebbe portato i risultati che ben conosciamo.
Ma Ted assommava in sé anche le contraddizioni della Famiglia Kennedy, quelle che spesso vengono taciute allo scopo di non inficiare l’immagine pressoché mitizzata di un clan che avrebbe dovuto influenzare la politica degli Stati Uniti e, quindi, del mondo intero.

Ho sempre avuto la sensazione che, in Italia come altrove, ci si sia fatta un’idea un po’ particolare della Famiglia Kennedy.
Nell’immaginario collettivo sono sempre stati paladini della libertà, ma il famigerato Joseph McCarthy, repubblicano e poco incline al dialogo, era molto amico della famiglia Kennedy: Bob aveva lavorato nel suo staff. Nel 1954 JFK avrebbe dovuto pronunciare un discorso di censura nei confronti di McCarthy, ma non lo fece mai, il che gli alienò le simpatie di Eleanor Roosevelt oltre che i sospetti di molti Democratici.
Nell’immaginario collettivo i Kennedy sono sempre stati alfieri del pacifismo, ma durante la presidenza di JFK ci fu l’episodio della Baia dei Porci, la crisi dei missili di Cuba (e la conseguente trattativa con Kruscev che frenò per un pelo la Terza Guerra Mondiale, quella definitiva) e le premesse per la guerra del Vietnam, poi avviata ufficialmente da Lyndon Johnson.
Ma soprattutto, nell’immaginario collettivo i Kennedy uscivano dai canoni standard dei politici come li avevamo visti sino a quel momento, per incarnare il personaggio del vicino di casa, dell’amico della porta accanto che poteva farsi carico dei bisogni di una popolazione che aveva appena vinto un conflitto ed era impegnata nella ben più sfibrante Guerra Fredda. In questo particolare contesto, al di là delle contraddizioni, appariva sicuramente più rassicurante il sorriso dei fratelli Kennedy che non la grinta di Joseph Mc Carthy e delle sue commissioni che avevano guidato la “caccia alle streghe” degli Anni Cinquanta, con l’apice emotivo dell’esecuzione a Sing Sing di Julius e Ethel Rosenberg nel 1953.
E, nonostante tutto, mi riesce difficile immaginare perché gli Americani abbiano deciso di privarsi di questi campioni della democrazia. Certo, la spiegazione più semplice potrebbe essere quella per cui il giusto finisce sempre per soccombere all’iniquo, ma c’è un vecchio adagio, per il vero piuttosto cinico, che recita che gli Americani sanno sempre come disfarsi di un Presidente non gradito. In questo caso, forse, addirittura tre: uno in carica, uno potenziale e uno che non è mai stato nemmeno in grado di cominciare.
Comunque sia, un’epopea contraddittoria e di difficile lettura anche ai nostri tempi; e, in ogni caso, ci andrei molto cauto con beatificazioni che, erogate dal nostro Vecchio Continente, hanno sempre il torto di non tener conto delle ragioni di Oltre Oceano, a noi per lo più poco comprensibili. Ma, chissà perché, l’Europa ha sempre avuto il bisogno di trovare il referente di sinistra anche nello Studio Ovale. Sedici anni fa Bill Clinton doveva essere il polo americano dell’Ulivo planetario; e adesso è il turno di Obama, quello che avrebbe dovuto smantellare subito il carcere di Guantanamo che invece è ancora lì, come se sul trono ci fosse un GW Bush qualsiasi.
Concluderei con questa bella frase di Stenio Solinas, apparsa sul “Giornale” di oggi: “John e Robert Kennedy passarono alla Storia non per quello che erano, ma per quello che si decise sarebbero potuti e/o dovuti essere. Alla realtà si sovrappose il Mito che la rimodellò secondo i desideri e le speranze di una Nazione. Solo con Ted, il più piccolo dei fratelli, ciò non avvenne: condannato in vita a non essere morto in tempo”

lunedì 24 agosto 2009

Storia di Neve


Due sono i binari su cui scorre questa storia dal respiro potente, scritta con potente fantasia visionaria: uno è quello della Natura che circonda il paese di Erto, piccolo centro della Val Vajont e teatro della vicenda; l’altro è la natura dell’essere umano che, a contatto con se stesso, i propri simili e un ambiente ostile, dà il peggio di sé in una lotta per la sopravvivenza senza nessuna esclusione di colpi.
Il titolo del libro è: “Storia di Neve”, edito da Mondadori. L’autore è Mario Corona, alpinista friulano nato e residente proprio ad Erto, guida alpina, scultore di legno (ha scolpito la Via Crucis del Duomo di Sacile) e, da un po’ di tempo a questa parte, anche scrittore. Sviluppato in tredici quaderni manoscritti per più di ottocento pagine, non è un “Cent’anni di solitudine” rivisitato in salsa friulana; no, è il grande romanzo naturalista italiano che non ha nulla da invidiare, per potenza creativa, respiro visionario e violenza espressiva, a libri come “L’Assommoir” oppure “La bête humaine”.
Vi si narra la vicenda umana di Neve Corona Menin, morta a soli ventinove anni “in odore di santa” – come dice lo stesso Corona – e di tutta la comunità umana che le ruota intorno e che lotta per sopravvivere e per sopraffare il proprio prossimo. Il vero protagonista del libro è Felice, il padre di Neve che si accorge del fatto che la bambina probabilmente è dotata di un particolare carisma che fa sì che le vengano attribuiti eventi soprannaturali e guarigioni misteriose verificatisi in sua presenza e che decide di sfruttare il fatto per arricchirsi. Ne nasce un’escalation di odio, sopraffazione e violenza in cui cade non solo Felice, ma anche molte delle persone che abitano ad Erto e che cedono agli istinti più bestiali, arrivando ad uccidere il proprio vicino nei modi più impensabili e selvaggi che sembrano usciti dai racconti più splatter dei Fratelli Grimm.
La prosa di Corona, spesso naif – ma mi chiedo sino a che punto lo sia involontariamente – guida il lettore attraverso pagine indimenticabili in cui domina il respiro possente della Natura dei boschi e dei monti intorno a Erto; ma la stessa Natura è quella che grava come una cappa di piombo sui pensieri e sulla volontà degli esseri umani che si abbandonano spesso senza una vera premeditazione ai loro istinti, accoppiandosi come animali in calore (le sorelle “matte” Accione, don Severo con Fiorina finta indemoniata, Fernanda e Giulio sotto gli occhi dell’aguzzino che stanno per ammazzare) o uccidendo come unica reazione possibile ad uno sgarbo o a un torto.
Neve, pretesto e causa innocente e spesso inconsapevole dei miracoli che accadono in sua presenza (lo stesso Autore sembra dubitare della loro veridicità) sfuma sullo sfondo del libro che diventa invece il palcoscenico per le crudeltà di Felice e di tutti gli altri personaggi di Erto, dominati dalle loro passioni e da una Natura nemica che ha tolto loro tutto e che regola la loro vita. E, accanto ad alcune immagini volutamente forti e ricche di humour nero splatter (l’esercito di “topi e pantegani” che spolpano le vittime umane sino alle ossa), ce ne sono altre sicuramente prese dalla vita di tutti i giorni di un’umanità sospesa fra cielo e terra: uomini buttati nelle foibe per aver rubato un capo di bestiame, donne stuprate per un istinto primordiale, boscaioli e cui vengono amputate le mani con un colpo d’ascia perché sorpresi a barare giocando a morra.
Non manca poi un riferimento fuggevole alla “grande stua di cemento” – la diga – che chiuderà la Valle del Vajont e che il 9 ottobre del 1963, quindici anni dopo la morte di Neve, sarà la causa di una delle più grandi sciagure della storia dell’umanità; ma è quasi un inciso, non è l’argomento del libro, sennonché è un evento talmente difficile da sopportare che Corona non può fare a meno di farvi un rimando.

Cosa ci lascia questo libro?
Non è probabilmente la Grande Epopea che sognava Corona, perché gli uomini che ne sono protagonisti sono persone spesso piccole, meschine, crudeli e violente. È più ragionevole pensare ad un grande affresco sull’Umanità corrotta che si fa sopraffare da una Natura totalizzante che in sé assorbe il suo grido di sofferenza.
Nessuno ha il coraggio di lasciare il paese, perché nessuno saprebbe sopravvivere lontano da una Natura che è capace di segnare così profondamente l’uomo che vi risiede. Persino Felice, il crudele freddo e raziocinante Felice, una delle figure più odiose di tutta la Letteratura italiana, diventato ricco non riesce a separarsi da Erto e si fa costruire la casa-castello sul punto più panoramico del paese ed è pronto ad affrontare l’inevitabile vendetta delle forze oscure e nemiche che si coalizzano contro di lui pur di non abbandonare la posizione che si è violentemente ritagliato nel panorama.
E la Natura si chiude sull’uomo come il mare sopra la nave dell’Ulisse che ci viene raccontato da Dante, assorbendo nei ghiacciai l’urlo di un’Umanità triste ed offesa: non c’è pace né redenzione per nessuno, nemmeno per Neve i cui resti finiranno dentro una bottiglia chiusa di cui tutti si dimenticheranno dopo la morte dei protagonisti.
Nessuno si salva in questo ritratto crudele e fortemente visionario, se non forse Valentino, il povero fidanzato di Neve sequestrato per undici anni e ridotto alla pazzia da Felice, riscattato alla fine dall’amore di Neve e assorbito dalla Natura in una sorta di delirio panteista. Non Maria, moglie di Felice, tragicamente consapevole della fine precoce di Neve e soggiogata dal marito. Non i preti del Paese, costretti a vivere a contatto con un’umanità corrotta e con cui essi stessi saranno costretti a scendere a patti. Non le povere, dolci sorelle “matte” Accione, inconsapevoli delle regole sociali, che si concedono a chiunque abbia voglia in qualunque momento.
Nemmeno la figura dolce e luminosa di Neve, che sacrifica se stessa per l’amore impossibile rinunciando così ad una missione di redenzione verso un’umanità corrotta riesce a riscattare il profondo pessimismo di Corona nei confronti dell’essere umano. “Tutti gli altri – conclude Corona – buoni e cattivi protagonisti di questa storia sono morti. Pace alle loro anime”.
Splendido libro

giovedì 20 agosto 2009

Medioman Pride


Era la love story dell’estate, quella fra il fascinosissimo e tenebroso George Clooney e la bellissima Elisabetta Canalis.
Lui è il super macho cui basta suonare ad una porta stappando una bottiglia di spumante per avere un universo femminile ai suoi piedi; lei ha da tempo smesso i panni di velina per tentare di riciclarsi in un mondo dello spettacolo che sta diventando sempre più selettivo nei confronti dei suoi pretendenti, anche se ne hanno già fatto parte a lungo.
All’inizio di quest’estate Elisabetta Canalis era la donna più invidiata del pianeta: le belle terga appoggiate sul sedile posteriore di una Harley-Davidson, abbracciata al suo George che mostrava i muscoli ben torniti sotto una polo bianca, le si perdonava l’appostamento che evidentemente aveva fatto fuori dal cancello di Villa Oleandra pur di ferire al cuore il bel tenebroso. Ho detto: “le si perdonava”, ma avrei dovuto dire “noi uomini le perdonavamo”, perché in realtà le donne non le hanno perdonato un bel niente: non posso riportare i commenti di mia moglie Cristina, immortalati su un sms che purtroppo è andato perduto con un crash del mio BlackBerry, ma credetemi in parola se vi dico che erano cattivi come solo quelli di una donna tradita possono essere.
Adesso scoppia la bomba: la bellissima Canalis non è la donna più invidiata del pianeta, quella che ha fatto capitolare lo scapolo più appetibile e misteriosamente resistente di tutta Hollywood; no, Elisabetta è nient’altro che una copertura di un misterioso partner di Big George.
Avete letto bene: “un” partner.
A svelare il mistero è l’amico di sempre, Brad Pitt che ha detto al cronista: “Io e Angie [Jolie, ndr] non ci sposeremo sinché al mio amico George non sarà permesso di sposarsi col suo compagno”.
Sposarsi, nientemeno.
E la povera Elisabetta, nemmeno sedotta e già abbandonata, chi la consolerà nella prigione dorata di Villa Oleandra? Il maggiordomo?
A margine di queste considerazioni ai limiti del boccaccesco, ci sarebbe da chiedersi se George sia contento che l’amichevole (?) Brad Pitt abbia fatto outing per conto terzi, specie avendo sentito il bisogno di noleggiare – mi si passi il termine assai poco elegante – la Canalis come copertura ma, ammesso e non concesso che la rivelazione di Brad sia vera, fa strano che proprio in un momento come questo in cui l’omosessualità è definitivamente sdoganata un attore come lui senta il bisogno di nascondere questo lato di sé.

Per conto mio, oggi è il giorno della rivincita dei Medioman, categoria di cui faccio orgogliosamente parte.
Ho amato follemente la figura da superuomo di George Clooney che, nei panni del Dr. Doug Ross di ER, era il medico che io avrei sempre voluto essere e che, a causa della mia pancia e della pelata che mi fanno assomigliare piuttosto a Homer Simpson, non sarò mai. Cristina sbavava nemmeno troppo di nascosto mentre seguivamo il telefilm dei medici superuomini, ma quello che maggiormente amava l’eroe ero io: lui era bello, forte, maschio, precocemente brizzolato; la bellissima Julianna Margulies se lo mangiava con gli occhi riproponendo quel rapporto mitico fra medico ed infermiera che io, nel mio piccolo, non ho mai potuto assaggiare.
Ma probabilmente il film di Clooney che mi ha entusiasmato maggiormente è stato “The Peacemaker” in cui lui, al fianco di una Nicola Kidman mai così bella, interpreta il colonnello DeVol che, da solo (o quasi), rifila una solenne lezione ai russi perennemente cattivi che, anche dopo la fine della Guerra Fredda, coltivano i sogni di sganciare l’atomica sull’Occidente. Un film reazionario come pochi, ma lui è un supermacho da urlo che riesce anche ad agganciare al volo a mani nude una camionetta ad un elicottero: un fenomeno!
Che c’entra, direte voi: forse che un gay non può essere macho? Siamo ancora attaccati ad icone da checca isterica come lo strepitoso Michel Serrault ne “Il vizietto” con Tognazzi?
Certo che no. Ma l’immagine di machismo di Clooney è sempre stata tenacemente connessa a quella di sciupa femmine scapolo impenitente, che si rifugiava nel suo castello dorato di Laglio ove un’alcova dorata era pronta a chiudere come una conchiglia le più meravigliose perle dell’universo femminile. Oddìo, qualcosa s’era fatta scappare una sedicente ex che affermava che, fra le lenzuola, il bel tenebroso era lontano le mille miglia dalle 8 ore di sesso tantrico sbandierate a suo tempo da Sting (e anch’egli sputtanato di recente da Bob Geldof), ma si pensava ovviamente alla ripicca dell’ex sedotta ed abbandonata e giammai ad una copertura.
Che vergogna. Proprio nel Terzo Millennio, quando l’omosessualità è stata definitivamente sdoganata, quando sportivi e personaggi dello spettacolo non fanno mistero di vivere la propria sessualità in modo sereno e consapevole – si pensi a Jodie Foster, Anne Heche, Billie Jean King, Martina Navratilova, Amelie Mauresmo (oddìo, ora che ci penso ho citato solo donne: sarà perché sono più responsabili e sincere degli uomini?), c’è ancora uno di essi che pensa che sia un orrore, qualcosa di cui vergognarsi, e si rifugia nel vecchio cliché di misterioso sciupa femmine come un qualunque Rock Hudson degli Anni Sessanta.
È per questo che oggi io, l’Homer Simpson di Melegnano (si può pensare a qualcosa di più provinciale?), proclamo la giornata del Medioman Pride: prendo per buona la parola dell’antipaticissimo Brad Pitt, che detesto dai tempi in cui aveva scopato e tradito la bellissima Geena Davis di “Thelma & Louise” e decreto che George Clooney, la cui presenza su un calendario ho dovuto sopportare per tre anni nella mia camera da letto, non ha più diritto di porsi come termine di paragone di fronte alle mie performances fra le lenzuola!

domenica 16 agosto 2009

La nobile arte

Esiste una categoria di sportivi che induce sempre alla riflessione compassionevole: è quella del “pugile suonato”.
Chi è costui? È spesso uno sportivo che ha praticato il pugilato a livelli variabili in età giovanile e che, in età pre-senescente, si trova a riflettere sulla nullità della propria condizione e decide di ritornare sul ring o di non allontanarsene, nel caso sia ancora in attività, quando teoricamente farebbe ancora a tempo lasciando un buon ricordo di sé. Nei suoi sogni c’è l’idea di dimostrare al pubblico, all’avversario più giovane e a se stesso (non sempre in quest’ordine) che lui non è ancora finito, che lo sport potrebbe solo guadagnare dalla sua esperienza e dalla sua classe e che i veri valori non sono quelli squallidi e patetici di oggi, ma quelli dei suoi tempi. Naturalmente di solito tutto finisce malissimo: il pugile suonato prende sul grugno un treno di botte, raccoglie oltre ai fischi del pubblico ingrato la propria misera borsa e si allontana nell’ombra, a meditare sull’ingiustizia della vita che non premia i veri protagonisti; nella sua testa c’è sempre un po’ più di un’ombra di disprezzo per l’umanità ignorante che non è in grado di capire la Vera Arte.
Questa triste categoria di sportivi, messa in scena in numerosi film, ha trovato a mio modesto parere la sua sublimazione nell’ultimo episodio de “I mostri” di Dino Risi, intitolato appunto “La nobile arte”, in cui il grandissimo Gassman presta la propria straordinaria mimica alla tragica maschera di uno di questi mediocri protagonisti: circuito da un manager senza scrupoli (Ugo Tognazzi, anch’egli al meglio delle proprie possibilità), finirà per prendere un sacco di botte.
Quella del pugile suonato con la sua tragica valenza euripidea è, chiaramente, una maschera applicabile a qualunque campo della vita di tutti i giorni, ivi compreso il giornalismo che una volta fu militante, e che oggi è solo di colore.
E questo ci porta diritti al problema che vorrei affrontare oggi.

È noto a molti (non a tutti: alcuni quotidiani anche importanti hanno bellamente ignorato il fatto) che Giorgio Bocca, ex grande giornalista tuttora in attività oltranzista come i pugili suonati cui facevamo riferimento poco sopra e dei quali ha gli stessi atteggiamenti patetici e spocchiosi, abbia dedicato la pagina che l’Espresso gli dà settimanalmente in gestione per sputare non già su Berlusconi – cosa che fa quotidianamente senza mai aver fatto uno sforzo per capirne le ragioni del successo e, quindi, autocritica, atteggiamento che non può essere compatibile con la sua arroganza da vecchio militante – ma sulle forze dell’ordine.
Citando fonti di attendibilità quanto meno da verificare come Leoluca Orlando o Totò Riina, il Nostro dice – cito testualmente – “…il problema numero uno della nazione non è il conflitto fra il legale e l’illegale, fra guardie e ladri, fra capi bastone e le loro vittime inermi, ma il loro indissolubile patto di coesistenza”; e, poco oltre: “I carabinieri, specie quelli che arrivano da altre provincie, sanno che la loro vita è appesa a un filo, che un colpo di lupara può raggiungerli in ogni vicolo, in ogni tratturo. Non è naturale, obbligatorio che si creino delle tacite regole di coesistenza o di competenza?”.
Si badi: l’anziano giornalista non dice “alcuni” carabinieri; dice “i” carabinieri, dando per scontato che la battaglia con la mafia sia persa perché le forze dell’ordine sono conniventi con la criminalità organizzata, quella stessa che non ha mai esitato a colpirne gli esponenti più o meno in vista (un nome su tutti, il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa).
Ora, posso anche essere d’accordo in astratto con chi – procedendo come al solito per teoremi – adombra liaisons fra la malavita organizzata e frange corrotte di alcuni ambienti delle forze dell’ordine: ce ne sono sempre state in tutto il mondo, per cui questo non sarà un aspetto che debba particolarmente scandalizzare il lettore mediamente smaliziato, che non ha certo bisogno di documentarsi sulle rubriche di Bocca.
Ma il fatto che il senescente giornalista affermi l’esistenza di connivenze de facto fra “i” carabinieri e la mafia, è una cosa che mi irrita profondamente per alcuni motivi essenziali:

  1. Quello dei teoremi è un malcostume squisitamente italico ed appannaggio esclusivo di quella sinistra che ignora la questione morale nel proprio ambito, ma è fortemente attratta da quella altrui. In quest’ottica, è ben difficile che il Divino Bocca si metta a parlare della tresca fra la giunta regionale pugliese e la Sacra Corona Unita per gli appalti sanitari, mentre invece eccolo pronto ad ipotizzare connivenze mai provate fra criminalità organizzata siciliana e forze dell’ordine che hanno lasciato sul campo vittime di ogni età e grado. A fare un teorema non si sbaglia mai: la calunnia fa sempre parlare di sé e un vecchio giornalista ben oltre le soglie della pensione vive per queste cose. Tanto, ora che qualcuno si prende la briga di verificare la bontà di un teorema, il danno è già stato fatto
  2. Data questa premessa, chi se ne frega di provare le calunnie, di citare dati e fonti, di documentare le palate di escrementi che l’anziano e livoroso compilatore della rubrica su “L’Espresso” solleva quotidianamente con la propria tastiera? Nella peggiore delle ipotesi, anche l’avversario più accanito scuoterà la testa dicendo: “Tanto è vecchio”, nella migliore troverà il solito mucchio di sicofanti che si beano della sua prosa distruttiva e qualcuno, magari, pur non avendo mai capito un cazzo di queste cose, ma avendo seguito con attenzione “Il Padrino” 1, 2 e 3 e “Il capo dei capi”, scuoterà l testa in senso opposto dicendo: “Io l’avevo sempre detto” .
  3. Non gli faremo un torto se affermeremo che l’uomo palesemente dimostra gli anni che ha: già solo per questo motivo è difficile che l’Arma dei Carabinieri gli si rivolti contro dicendogli pubblicamente quello che si merita. E così si può permettere di dire tutto quello che gli passa per la testa, sia che si tratti di insultare gli italiani che non hanno votato secondo le sue idee, sia che si tratti di accanirsi contro le forze dell’ordine

Ora, del gruppo dei politici rappresentati in Parlamento, gli unici che si sono schierati dalla parte del vecchio giornalista sono ovviamente quelli dell’Italia dei valori, sempre pronti ad allinearsi al vecchio secondo principio di Murphy secondo cui “La merda, più la rimesti, più puzza”; gli altri partiti, invece, di destra come di sinistra, se ne sono pubblicamente dissociati, dimostrando che qualche volta non basta sputar veleno per mutuare consensi.
Va bene così, per carità; ma in fondo un po’ mi dispiace. Non ho simpatia per Giorgio Bocca, e non ne ho mai fatto mistero, ma una volta era un giornalista di buon rilievo (non eccezionale), autore anche di alcuni saggi di importanza non banale nella comprensione di fatti recenti della storia italiana, anche se scritti con la puzzetta sotto il naso e con l’aria di chi la sa sempre più lunga degli altri. Ma così com’è adesso, anziano, livoroso, triste, va bene solo per i Valorosi Italiani che trovano in lui quel minimo riferimento intellettuale che non possono – ça va sans dire – trovare nel loro leader

giovedì 13 agosto 2009

Memorabilia


Ho letto sul “Corriere” la notizia di un ingegnoso personaggio, americano ma nato in Italia (e ti pareva…), che ha aperto una catena di istituti ove si cancellano i tatuaggi. Fa incassi faraonici, tanto che sta progettando di aprire in giro per il mondo molti altri di questi centri ove le memorie incise sul nostro corpo subiscono un colpo di spugna. E questo, permettetemi, è qualcosa di talmente inquietante da indurmi qualche riflessione.

Mentre scrivo sono sulla spiaggia – i soliti Bagni Lido di Celle Ligure – e ho sotto gli occhi i glutei di un’altra giovane mamma. Contrariamente a quelli di cui parlavo qualche giorno fa, questi sarebbero ben poco interessanti anche per una loro precoce ed intrinseca tendenza a soccombere alla legge di gravità, se non fosse che la loro proprietaria ha deciso di impreziosirli con due enormi ed elaborati tatuaggi a forma di fiore. Grazie alla sapiente copertura offerta da uno slip, noi ne apprezziamo solo le propaggini laterali, e credo che sia un bene vista la conformazione anatomica della ragazza ma, mi chiedo, cosa ne penserà colui che ha un accesso alla visione integrale dello spettacolo? Sarà talmente contento ed appagato da fare come quel personaggio di un racconto di Roald Dahl e proporre, alla loro proprietaria, l’asportazione della pelle per incorniciarla ed esporla su una parete, magari anche per perpetua visione privata? Oppure, come appare più ragionevole, ne proporrà l’asportazione tout court? E, quesito più inquietante di tutti, anche ammesso che tutto ciò non si verifichi adesso, cosa succederà fra qualche anno quando, con l’avanzare dell’età, delle rughe, dell’adipe, dei capelli e dei peli bianchi, della corruzione del corpo e delle carni flaccide, quei fiori, pur dipinti, appassiranno? Come li sentirà la loro proprietaria: una parte integrante di sé, un segno di appartenenza ad una comunità elitaria, o un qualche cosa di estraneo che, a quel punto, appesantirà il corpo invece di slanciarlo verso chissà quale empireo?
Sì, lo so: questo è il classico quesito estivo da vacanziero senza pensieri che non ha nulla di meglio da fare, eppure è un problema non banale se consideriamo – a detta degli esperti – che per rimuovere un tatuaggio si spende almeno dieci volte tanto quello che si è sborsato per posizionarlo sulla nostra epidermide, venti volte se il tatuaggio è a colori e anche di più, se è uno di quelli oversize. Teniamo conto di quanti ormai portano un tatuaggio anche modesto e avremo le dimensioni del problema. Un affare, insomma, per chi ci si dedica, tenuto conto che il tatuaggio può venire in uggia esattamente quanto qualunque capo di abbigliamento ma, diversamente da questo, non può essere smesso con serena e placida indifferenza. Occorre una specie di piccolo intervento chirurgico, molto meno artistico di quello che ha infisso l’opera d’arte nelle nostre carni, e non meno doloroso di questo, a dimostrazione di quanto poco Madre Natura accetti i cambiamenti inflitti al nostro corpo.
Cosa ci induce a tatuare il nostro corpo? Il desiderio di personalizzare ed impreziosire la carrozzeria che è stata data in dote alla nostra misera utilitaria? La necessità di mandare un segnale a chi ci circonda? La voglia di segnalare la nostra appartenenza a qualcuno, oppure ad una comunità? Il bisogno di sfogare il nostro istinto artistico? La banale soccombenza ad una moda corrente? La soddisfazione di un desiderio di un partner, potenziale o in atto?
Quale che sia la necessità che soddisfiamo, con il tatuaggio imponiamo al nostro corpo un cambiamento sulla cui definitività, spesso, sembriamo non riflettere. Questo vale ovviamente e a maggior ragione per i piercing, per i marchi a fuoco (sì, esistono anche quelli per gli esseri umani: chi se li fa praticare racconta estasiato le sofferenze correlate alla procedura) e per tutte le altre violazioni dell’integrità fisica che mirano a cambiarne profondamente l’aspetto esteriore, sino alle pratiche estreme che sono quelle che finiscono in trasmissioni da casi quasi umani come “Il guinness dei primati”, ove ci sarebbe da riflettere profondamente sul termine “primati”.
Prendiamo il caso di chi infigge sulle proprie carni il nome dell’amato(a): c’è chi dice – forse scaramanticamente, ma non del tutto a torto – che la procedura mini profondamente la durata del rapporto. Il risultato è, ovviamente, la necessità di sottoporsi ad un umiliante tour de force per asportare quel marchio che sanciva l’appartenenza del suo portatore ad un padrone, né più né meno che un manzo ad un branco. Ma questo, se vogliamo, è un caso peculiare: il problema è che oltre il 40% di chi si sottopone ad un tatuaggio se ne pente molto precocemente, addirittura poche settimane dopo la procedura; e la percentuale sale drasticamente col passare del tempo, e questo indipendentemente dal tema e dalla bellezza artistica del disegno.
Credo, a giudicare dall’estensione e dall’elaborata complicazione dei disegni, che ormai lo scopo principale di un tatuaggio sia banalmente quello di stupire chi ne fruisce, fosse anche il vicino di ombrellone, lasciando così perdere tutte le altre connotazioni antropologiche: e questo appagherebbe quella voglia di apparire che sembra sempre più caratterizzare questa epoca vissuta all’ombra di talent e reality show. Altrimenti detto: in assenza di valenze più pregnanti da ricondurre preferibilmente alla sempre più negletta sfera intellettuale, ci si preoccupa di stupire il proprio pubblico e di ottenere un fugace momento di celebrità estremizzando gli aspetti che hanno un impatto più immediato. E questo aspetto, che comprende ovviamente anche le tette di Cristina del Grande Fratello pompate dalla “quarta” naturale all’ “ottava” artificiale, sulla pelle va dal tatuaggio arabescato sino ai casi estremi di chi occupa ogni segmento libero visibile. E spesso mi sono trovato a pensare che, probabilmente, chi occupa così tanto gli spazi cutanei evidentemente coltiva l’idea di una specie di eterna giovinezza in cui ci sarà sempre spazio per un nuovo tatuaggio.

Ho a lungo carezzato anch’io l’idea di un tatuaggio che mi contraddistingua in mezzo alla folla ma l’unico che mi viene in mente è quello che riproduca la diga del Vajont da disegnare su una parte innominabile di me, posizionando strategicamente il coronamento superiore in corrispondenza di quella parte che l’ignoto autore de “Il processo di Sculacciabuchi” (anonimo poemetto goliardico italiano) definiva sapidamente “il cornicione”. Probabilmente non contribuirebbe in modo significativo al miglioramento della mia visibilità mediatica, ma – col lugubre simbolismo del disastro per eccellenza – mi ricorderebbe se non altro in modo autoironico la qualità delle mie performances. E ciò risponderebbe anche al preziosissimo consiglio che, a suo tempo, mi diede il mio omonimo zio quando si prese l’incarico di darmi qualche istruzione sui fatti della vita: “Ricorda: dopo non chiederle mai se le è piaciuto”.
Grazie, zio

domenica 2 agosto 2009

In teoria e in pratica

In Italia c'e' un nutrito e rispettabilissimo gruppo di persone che si preoccupa della possibile deriva antidemocratica del berlusconismo. Tale preoccupazione nasce dalla constatazione della presunta totale mancanza di sense of humour di una classe politica come quella attualmente dominante che rifiuterebbe l'ironia - vuoi mettere invece il tollerante, raffinato e simpaticissimo D'Alema? - della satira politica; e dalla mancanza di un'opposizione sempre più al margine della scena politica. Dico francamente che entrambe le posizioni mi sembrano pretestuose: Travaglio, Gomez, Barbacetto e compagnia cantante escono con almeno 4 libri all'anno (l'ultimo in ordine di tempo - "Papi" - ci narra delle mirabolanti imprese porno del piccolo grande Puttaniere di Arcore e delle sue ninfette; roba che in confronto Rocco Siffredi e' un brufoloso onanista), tutti pubblicati senza censure di regime e abbondantemente venduti (posso confermare: li leggo anch'io); i suddetti, ben documentati sulle chiappe di Noemi, sono invece misteriosamente a corto di informazioni su altri problemi magari politicamente un po' più spessi come, per esempio, le indagini sulle connivenze della giunta regionale pugliese del compagno Vendola con la Sacra Corona Unita ma, anche in questo caso, nessuno trova alcunchè da ridire. Quanto invece all'inconsistenza di un partito di opposizione ridicolo, be', questo problema davvero non puo' essere addebitato a Papi. E di problema si tratta veramente, perchè non giova a nessuno, né a destra né a sinistra, un'opposizione indecente che sviluppa al suo interno come unico dibattito interessante e meritevole di sviluppi mediatici, se accettare o no la candidatura alla segreteria di un ex comico famoso per mandare a fare in culo quella classe politica in cui ambirebbe disperatamente entrare.
Perchè questo preambolo?
Perchè - come ben sanno le centinaia di migliaia di lettori di questo blog - il vero liberal, di destra o di sinistra poco conta, è profondamente convinto del fatto che non ci sia democrazia senza equilibrio fra maggioranza ed opposizione. Ma non la pensano tutti così nel mondo, come ci informa il Corriere della Sera di oggi, giornale che scelgo appositamente per la sua equanimità.

A fronte di queste preoccupazioni nostrane, infatti, in Venezuela stanno vivendo probemi attuali e di altra portata metafisica, la cui doverosa conoscenza ridimensiona un po' le angosce di Travaglio e Vauro circa il rischio ipotetico di deriva autoritaria di casa nostra.
Costaggiù, infatti, il Presidente della Repubblica (?), un paciarottone rubicondo di nome Hugo Chàvez, comunista dichiarato e amico di Fidel Castro, ha chiuso con un editto 34 (leggansi: trentaquattro) radio private sospettate di essere schierate con quello che rimane di un'opposizione sempre più chiusa in un angolo. Non solo: il suddetto sta promulgando una legge contro i cosiddetti crimini mediatici. In pratica, e sempre citando il Corriere, il carcere aspetta chiunque attraverso qualunque mezzo mediatico disturbi la quiete del Paese o comprometta gli interessi dello Stato, nell'interesse della sanità mentale dei cittadini: col che si possono aprire le porte anche dei manicomi di Stato che ai regimi totalitari in genere, e a quelli comunisti in particolare, sono sempre piaciuti.
Siamo alle solite, a quanto pare: di fronte ai presunti e giustamente temuti fascismi di ritorno, ci sono i comunismi che non sono mai andati in pensione, quelli delle censure alla libertà d'espressione, del carcere a chi dissente e, ovviamente, dei manicomi criminali di buona memoria.
Possiamo quindi dare ai nostri lettori alcune sicurezze: Chàvez esiste, si comporta come descritto dal Corriere (non quindi dal fascista Feltri a cavallo fra Libero e Giornale) e come ha imparato dal suo maestro cubano. Il suo Venezuela ormai è sempre più uno di quegli Stati comunisti che esistono, riducono in miseria la popolazione, sopprimono la libertà e ammazzano o internano (il che, ai fini pratici, è la stessa cosa) gli oppositori.
Di queste situazioni, gli alfieri della Libertà di casa nostra non parlano, convinti come sono che l'unica anomalia esistente al mondo sia Berlusconi e il suo parterre di zoccole e non, putacaso, un partito d'opposizione inesistente per dinamiche interne.
In Venezuela - stato comunista, lo ribadiamo per chi non avesse colto il concetto - l'inesistenza succede invece per editto presidenziale

Prevedibile, troppo prevedibile


Crogiolato sotto il sole cocente del 1 agosto, mi godo sulla spiaggia dei Bagni Lido di Celle Ligure un assaggio della vacanza che verra', non prima di una settimana.
A fronte della voglia di evasione degli italiani che, quest'anno, si concretizza in una particolare predilezione per gli Adventure Travel, ci sta la mia pensosa pigrizia che mi porta, una volta di più, a scegliere di stare attaccato come una cozza agli scogli della ridente localita' del Ponente ligure.
Dicevamo dei viaggi avventurosi. L'altro giorno Chiara mi ha raccontato della vacanza avventurosa che fara' in Grecia, in non so più quale arcipelago, in compagnia di persone che non conosce, con una guida che si improvvisa tale, probabilmente senza alberghi prenotati; il tutto e' (dis)organizzato da un'agenzia famosa per rendere la vita difficile ai vacanzieri che pagano caro questo privilegio.
Oggi ascolto inorridito Federica - giovane e rampante avvocato, erede di una grande tradizione di Principi del Foro - che mi narra della sua prossima partenza dalla vicina Andora, di notte, in barca a vela, con 10 persone che non conoscerà sino al momento dell'imbarco, alla volta della Corsica che circumnavighera' con i suoi sconosciuti compagni d'avventura.
E mentre ascolto questi progetti di avventure estive, che avranno per teatro quello stesso mare affrontato nella notte dei tempi da Odisseo, archetipo prototipo di ogni sfida dell'uomo ai limiti che gli sono imposti da una sorta di Legge ultraterrena, resto incerto se invidiare o compiangere coloro che saranno protagonisti della grande sfida.
Seduto sulla sdraio davanti alla lenta risacca dello stesso mare che per me, da questo privilegiato punto di vista, sara' sempre placido, contemplo scorrere davanti a me la vita di persone che vedo una volta all'anno e che, nondimeno, mi sono familiari come se le avessi davanti a me tutto il tempo.
Alla mia sinistra, laggiu' in fondo, ci sta l'altera e spocchiosa S. con madre, padre e le due figlie. Il marito non si fa vedere da due anni e mi piace pensare (perché mi è simpatico) che sia scappato dalla moglie, che aveva maltrattato la sorella abbandonata perche' non era stata capace di tenersi il marito, e dai suoceri opprimenti, convinti che ogni valore della vita abbia una valutazione monetaria. Poco oltre, M. e F. si scambiano battute noiosissime, ma sembrano felici.
Una giovane mamma che conosco solo di vista inalbera un bikini talmente esiguo che lo slip le lascia piacevolmente scoperta la chiappa destra obbligandola continuamente a riabbassarlo e generando cosi', nell'interessato spettatore, l'inevitabile domanda su chi l'abbia obbligata a prendere un indumento cosi', se si sente obbligata a coprire le esposte rotondità.
Alla mia destra siede il signor F., con un riporto che ormai parte da sotto l'orecchio sinistro. E' originario dell'Agro Pontino e tifosissimo della Lazio. Tutti gli anni - soprattutto gli ultimi che, calcisticamente parlando, hanno ringalluzzito parecchio lui e rattristato me - mi si rivolge col suo vocione baritonale e mi chiede: "Allora, dottore, va male il suo Milan?" inducendomi a dissertazioni metafisiche sull'indifendibile campagna acquisti di Berlusconi e Galliani.
Poco oltre, il signor S. si e' accorto che, da quando e' in pensione, ha poco da raccontare per cui legge il Corriere mentre la moglie F., come tutti gli anni, si mette come un batrace al sole senza comunicare con nessuno.
Cristina mi propone una partita a racchettoni e la guardo malissimo; lei scuote le chiome con aria di commiserazione pensando a quale ingiusto destino l'abbia costretta a familiarizzare con un plantigrado noioso e pesante come me.
Io ridacchio e penso, mentre scrivo queste note sul mio BlackBerry, ormai ridotto al rango di una Moleskine qualsiasi, che la prevedibilita' di Celle Ligure dovrebbe essere promossa al rango di risorsa dell'Umanita' e che non vorrei essere in nessun altro posto al mondo