giovedì 13 agosto 2009

Memorabilia


Ho letto sul “Corriere” la notizia di un ingegnoso personaggio, americano ma nato in Italia (e ti pareva…), che ha aperto una catena di istituti ove si cancellano i tatuaggi. Fa incassi faraonici, tanto che sta progettando di aprire in giro per il mondo molti altri di questi centri ove le memorie incise sul nostro corpo subiscono un colpo di spugna. E questo, permettetemi, è qualcosa di talmente inquietante da indurmi qualche riflessione.

Mentre scrivo sono sulla spiaggia – i soliti Bagni Lido di Celle Ligure – e ho sotto gli occhi i glutei di un’altra giovane mamma. Contrariamente a quelli di cui parlavo qualche giorno fa, questi sarebbero ben poco interessanti anche per una loro precoce ed intrinseca tendenza a soccombere alla legge di gravità, se non fosse che la loro proprietaria ha deciso di impreziosirli con due enormi ed elaborati tatuaggi a forma di fiore. Grazie alla sapiente copertura offerta da uno slip, noi ne apprezziamo solo le propaggini laterali, e credo che sia un bene vista la conformazione anatomica della ragazza ma, mi chiedo, cosa ne penserà colui che ha un accesso alla visione integrale dello spettacolo? Sarà talmente contento ed appagato da fare come quel personaggio di un racconto di Roald Dahl e proporre, alla loro proprietaria, l’asportazione della pelle per incorniciarla ed esporla su una parete, magari anche per perpetua visione privata? Oppure, come appare più ragionevole, ne proporrà l’asportazione tout court? E, quesito più inquietante di tutti, anche ammesso che tutto ciò non si verifichi adesso, cosa succederà fra qualche anno quando, con l’avanzare dell’età, delle rughe, dell’adipe, dei capelli e dei peli bianchi, della corruzione del corpo e delle carni flaccide, quei fiori, pur dipinti, appassiranno? Come li sentirà la loro proprietaria: una parte integrante di sé, un segno di appartenenza ad una comunità elitaria, o un qualche cosa di estraneo che, a quel punto, appesantirà il corpo invece di slanciarlo verso chissà quale empireo?
Sì, lo so: questo è il classico quesito estivo da vacanziero senza pensieri che non ha nulla di meglio da fare, eppure è un problema non banale se consideriamo – a detta degli esperti – che per rimuovere un tatuaggio si spende almeno dieci volte tanto quello che si è sborsato per posizionarlo sulla nostra epidermide, venti volte se il tatuaggio è a colori e anche di più, se è uno di quelli oversize. Teniamo conto di quanti ormai portano un tatuaggio anche modesto e avremo le dimensioni del problema. Un affare, insomma, per chi ci si dedica, tenuto conto che il tatuaggio può venire in uggia esattamente quanto qualunque capo di abbigliamento ma, diversamente da questo, non può essere smesso con serena e placida indifferenza. Occorre una specie di piccolo intervento chirurgico, molto meno artistico di quello che ha infisso l’opera d’arte nelle nostre carni, e non meno doloroso di questo, a dimostrazione di quanto poco Madre Natura accetti i cambiamenti inflitti al nostro corpo.
Cosa ci induce a tatuare il nostro corpo? Il desiderio di personalizzare ed impreziosire la carrozzeria che è stata data in dote alla nostra misera utilitaria? La necessità di mandare un segnale a chi ci circonda? La voglia di segnalare la nostra appartenenza a qualcuno, oppure ad una comunità? Il bisogno di sfogare il nostro istinto artistico? La banale soccombenza ad una moda corrente? La soddisfazione di un desiderio di un partner, potenziale o in atto?
Quale che sia la necessità che soddisfiamo, con il tatuaggio imponiamo al nostro corpo un cambiamento sulla cui definitività, spesso, sembriamo non riflettere. Questo vale ovviamente e a maggior ragione per i piercing, per i marchi a fuoco (sì, esistono anche quelli per gli esseri umani: chi se li fa praticare racconta estasiato le sofferenze correlate alla procedura) e per tutte le altre violazioni dell’integrità fisica che mirano a cambiarne profondamente l’aspetto esteriore, sino alle pratiche estreme che sono quelle che finiscono in trasmissioni da casi quasi umani come “Il guinness dei primati”, ove ci sarebbe da riflettere profondamente sul termine “primati”.
Prendiamo il caso di chi infigge sulle proprie carni il nome dell’amato(a): c’è chi dice – forse scaramanticamente, ma non del tutto a torto – che la procedura mini profondamente la durata del rapporto. Il risultato è, ovviamente, la necessità di sottoporsi ad un umiliante tour de force per asportare quel marchio che sanciva l’appartenenza del suo portatore ad un padrone, né più né meno che un manzo ad un branco. Ma questo, se vogliamo, è un caso peculiare: il problema è che oltre il 40% di chi si sottopone ad un tatuaggio se ne pente molto precocemente, addirittura poche settimane dopo la procedura; e la percentuale sale drasticamente col passare del tempo, e questo indipendentemente dal tema e dalla bellezza artistica del disegno.
Credo, a giudicare dall’estensione e dall’elaborata complicazione dei disegni, che ormai lo scopo principale di un tatuaggio sia banalmente quello di stupire chi ne fruisce, fosse anche il vicino di ombrellone, lasciando così perdere tutte le altre connotazioni antropologiche: e questo appagherebbe quella voglia di apparire che sembra sempre più caratterizzare questa epoca vissuta all’ombra di talent e reality show. Altrimenti detto: in assenza di valenze più pregnanti da ricondurre preferibilmente alla sempre più negletta sfera intellettuale, ci si preoccupa di stupire il proprio pubblico e di ottenere un fugace momento di celebrità estremizzando gli aspetti che hanno un impatto più immediato. E questo aspetto, che comprende ovviamente anche le tette di Cristina del Grande Fratello pompate dalla “quarta” naturale all’ “ottava” artificiale, sulla pelle va dal tatuaggio arabescato sino ai casi estremi di chi occupa ogni segmento libero visibile. E spesso mi sono trovato a pensare che, probabilmente, chi occupa così tanto gli spazi cutanei evidentemente coltiva l’idea di una specie di eterna giovinezza in cui ci sarà sempre spazio per un nuovo tatuaggio.

Ho a lungo carezzato anch’io l’idea di un tatuaggio che mi contraddistingua in mezzo alla folla ma l’unico che mi viene in mente è quello che riproduca la diga del Vajont da disegnare su una parte innominabile di me, posizionando strategicamente il coronamento superiore in corrispondenza di quella parte che l’ignoto autore de “Il processo di Sculacciabuchi” (anonimo poemetto goliardico italiano) definiva sapidamente “il cornicione”. Probabilmente non contribuirebbe in modo significativo al miglioramento della mia visibilità mediatica, ma – col lugubre simbolismo del disastro per eccellenza – mi ricorderebbe se non altro in modo autoironico la qualità delle mie performances. E ciò risponderebbe anche al preziosissimo consiglio che, a suo tempo, mi diede il mio omonimo zio quando si prese l’incarico di darmi qualche istruzione sui fatti della vita: “Ricorda: dopo non chiederle mai se le è piaciuto”.
Grazie, zio

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