Due sono i binari su cui scorre questa storia dal respiro potente, scritta con potente fantasia visionaria: uno è quello della Natura che circonda il paese di Erto, piccolo centro della Val Vajont e teatro della vicenda; l’altro è la natura dell’essere umano che, a contatto con se stesso, i propri simili e un ambiente ostile, dà il peggio di sé in una lotta per la sopravvivenza senza nessuna esclusione di colpi.
Il titolo del libro è: “Storia di Neve”, edito da Mondadori. L’autore è Mario Corona, alpinista friulano nato e residente proprio ad Erto, guida alpina, scultore di legno (ha scolpito la Via Crucis del Duomo di Sacile) e, da un po’ di tempo a questa parte, anche scrittore. Sviluppato in tredici quaderni manoscritti per più di ottocento pagine, non è un “Cent’anni di solitudine” rivisitato in salsa friulana; no, è il grande romanzo naturalista italiano che non ha nulla da invidiare, per potenza creativa, respiro visionario e violenza espressiva, a libri come “L’Assommoir” oppure “La bête humaine”.
Vi si narra la vicenda umana di Neve Corona Menin, morta a soli ventinove anni “in odore di santa” – come dice lo stesso Corona – e di tutta la comunità umana che le ruota intorno e che lotta per sopravvivere e per sopraffare il proprio prossimo. Il vero protagonista del libro è Felice, il padre di Neve che si accorge del fatto che la bambina probabilmente è dotata di un particolare carisma che fa sì che le vengano attribuiti eventi soprannaturali e guarigioni misteriose verificatisi in sua presenza e che decide di sfruttare il fatto per arricchirsi. Ne nasce un’escalation di odio, sopraffazione e violenza in cui cade non solo Felice, ma anche molte delle persone che abitano ad Erto e che cedono agli istinti più bestiali, arrivando ad uccidere il proprio vicino nei modi più impensabili e selvaggi che sembrano usciti dai racconti più splatter dei Fratelli Grimm.
La prosa di Corona, spesso naif – ma mi chiedo sino a che punto lo sia involontariamente – guida il lettore attraverso pagine indimenticabili in cui domina il respiro possente della Natura dei boschi e dei monti intorno a Erto; ma la stessa Natura è quella che grava come una cappa di piombo sui pensieri e sulla volontà degli esseri umani che si abbandonano spesso senza una vera premeditazione ai loro istinti, accoppiandosi come animali in calore (le sorelle “matte” Accione, don Severo con Fiorina finta indemoniata, Fernanda e Giulio sotto gli occhi dell’aguzzino che stanno per ammazzare) o uccidendo come unica reazione possibile ad uno sgarbo o a un torto.
Neve, pretesto e causa innocente e spesso inconsapevole dei miracoli che accadono in sua presenza (lo stesso Autore sembra dubitare della loro veridicità) sfuma sullo sfondo del libro che diventa invece il palcoscenico per le crudeltà di Felice e di tutti gli altri personaggi di Erto, dominati dalle loro passioni e da una Natura nemica che ha tolto loro tutto e che regola la loro vita. E, accanto ad alcune immagini volutamente forti e ricche di humour nero splatter (l’esercito di “topi e pantegani” che spolpano le vittime umane sino alle ossa), ce ne sono altre sicuramente prese dalla vita di tutti i giorni di un’umanità sospesa fra cielo e terra: uomini buttati nelle foibe per aver rubato un capo di bestiame, donne stuprate per un istinto primordiale, boscaioli e cui vengono amputate le mani con un colpo d’ascia perché sorpresi a barare giocando a morra.
Non manca poi un riferimento fuggevole alla “grande stua di cemento” – la diga – che chiuderà la Valle del Vajont e che il 9 ottobre del 1963, quindici anni dopo la morte di Neve, sarà la causa di una delle più grandi sciagure della storia dell’umanità; ma è quasi un inciso, non è l’argomento del libro, sennonché è un evento talmente difficile da sopportare che Corona non può fare a meno di farvi un rimando.
Cosa ci lascia questo libro?
Non è probabilmente la Grande Epopea che sognava Corona, perché gli uomini che ne sono protagonisti sono persone spesso piccole, meschine, crudeli e violente. È più ragionevole pensare ad un grande affresco sull’Umanità corrotta che si fa sopraffare da una Natura totalizzante che in sé assorbe il suo grido di sofferenza.
Nessuno ha il coraggio di lasciare il paese, perché nessuno saprebbe sopravvivere lontano da una Natura che è capace di segnare così profondamente l’uomo che vi risiede. Persino Felice, il crudele freddo e raziocinante Felice, una delle figure più odiose di tutta la Letteratura italiana, diventato ricco non riesce a separarsi da Erto e si fa costruire la casa-castello sul punto più panoramico del paese ed è pronto ad affrontare l’inevitabile vendetta delle forze oscure e nemiche che si coalizzano contro di lui pur di non abbandonare la posizione che si è violentemente ritagliato nel panorama.
E la Natura si chiude sull’uomo come il mare sopra la nave dell’Ulisse che ci viene raccontato da Dante, assorbendo nei ghiacciai l’urlo di un’Umanità triste ed offesa: non c’è pace né redenzione per nessuno, nemmeno per Neve i cui resti finiranno dentro una bottiglia chiusa di cui tutti si dimenticheranno dopo la morte dei protagonisti.
Nessuno si salva in questo ritratto crudele e fortemente visionario, se non forse Valentino, il povero fidanzato di Neve sequestrato per undici anni e ridotto alla pazzia da Felice, riscattato alla fine dall’amore di Neve e assorbito dalla Natura in una sorta di delirio panteista. Non Maria, moglie di Felice, tragicamente consapevole della fine precoce di Neve e soggiogata dal marito. Non i preti del Paese, costretti a vivere a contatto con un’umanità corrotta e con cui essi stessi saranno costretti a scendere a patti. Non le povere, dolci sorelle “matte” Accione, inconsapevoli delle regole sociali, che si concedono a chiunque abbia voglia in qualunque momento.
Nemmeno la figura dolce e luminosa di Neve, che sacrifica se stessa per l’amore impossibile rinunciando così ad una missione di redenzione verso un’umanità corrotta riesce a riscattare il profondo pessimismo di Corona nei confronti dell’essere umano. “Tutti gli altri – conclude Corona – buoni e cattivi protagonisti di questa storia sono morti. Pace alle loro anime”.
Splendido libro
Il titolo del libro è: “Storia di Neve”, edito da Mondadori. L’autore è Mario Corona, alpinista friulano nato e residente proprio ad Erto, guida alpina, scultore di legno (ha scolpito la Via Crucis del Duomo di Sacile) e, da un po’ di tempo a questa parte, anche scrittore. Sviluppato in tredici quaderni manoscritti per più di ottocento pagine, non è un “Cent’anni di solitudine” rivisitato in salsa friulana; no, è il grande romanzo naturalista italiano che non ha nulla da invidiare, per potenza creativa, respiro visionario e violenza espressiva, a libri come “L’Assommoir” oppure “La bête humaine”.
Vi si narra la vicenda umana di Neve Corona Menin, morta a soli ventinove anni “in odore di santa” – come dice lo stesso Corona – e di tutta la comunità umana che le ruota intorno e che lotta per sopravvivere e per sopraffare il proprio prossimo. Il vero protagonista del libro è Felice, il padre di Neve che si accorge del fatto che la bambina probabilmente è dotata di un particolare carisma che fa sì che le vengano attribuiti eventi soprannaturali e guarigioni misteriose verificatisi in sua presenza e che decide di sfruttare il fatto per arricchirsi. Ne nasce un’escalation di odio, sopraffazione e violenza in cui cade non solo Felice, ma anche molte delle persone che abitano ad Erto e che cedono agli istinti più bestiali, arrivando ad uccidere il proprio vicino nei modi più impensabili e selvaggi che sembrano usciti dai racconti più splatter dei Fratelli Grimm.
La prosa di Corona, spesso naif – ma mi chiedo sino a che punto lo sia involontariamente – guida il lettore attraverso pagine indimenticabili in cui domina il respiro possente della Natura dei boschi e dei monti intorno a Erto; ma la stessa Natura è quella che grava come una cappa di piombo sui pensieri e sulla volontà degli esseri umani che si abbandonano spesso senza una vera premeditazione ai loro istinti, accoppiandosi come animali in calore (le sorelle “matte” Accione, don Severo con Fiorina finta indemoniata, Fernanda e Giulio sotto gli occhi dell’aguzzino che stanno per ammazzare) o uccidendo come unica reazione possibile ad uno sgarbo o a un torto.
Neve, pretesto e causa innocente e spesso inconsapevole dei miracoli che accadono in sua presenza (lo stesso Autore sembra dubitare della loro veridicità) sfuma sullo sfondo del libro che diventa invece il palcoscenico per le crudeltà di Felice e di tutti gli altri personaggi di Erto, dominati dalle loro passioni e da una Natura nemica che ha tolto loro tutto e che regola la loro vita. E, accanto ad alcune immagini volutamente forti e ricche di humour nero splatter (l’esercito di “topi e pantegani” che spolpano le vittime umane sino alle ossa), ce ne sono altre sicuramente prese dalla vita di tutti i giorni di un’umanità sospesa fra cielo e terra: uomini buttati nelle foibe per aver rubato un capo di bestiame, donne stuprate per un istinto primordiale, boscaioli e cui vengono amputate le mani con un colpo d’ascia perché sorpresi a barare giocando a morra.
Non manca poi un riferimento fuggevole alla “grande stua di cemento” – la diga – che chiuderà la Valle del Vajont e che il 9 ottobre del 1963, quindici anni dopo la morte di Neve, sarà la causa di una delle più grandi sciagure della storia dell’umanità; ma è quasi un inciso, non è l’argomento del libro, sennonché è un evento talmente difficile da sopportare che Corona non può fare a meno di farvi un rimando.
Cosa ci lascia questo libro?
Non è probabilmente la Grande Epopea che sognava Corona, perché gli uomini che ne sono protagonisti sono persone spesso piccole, meschine, crudeli e violente. È più ragionevole pensare ad un grande affresco sull’Umanità corrotta che si fa sopraffare da una Natura totalizzante che in sé assorbe il suo grido di sofferenza.
Nessuno ha il coraggio di lasciare il paese, perché nessuno saprebbe sopravvivere lontano da una Natura che è capace di segnare così profondamente l’uomo che vi risiede. Persino Felice, il crudele freddo e raziocinante Felice, una delle figure più odiose di tutta la Letteratura italiana, diventato ricco non riesce a separarsi da Erto e si fa costruire la casa-castello sul punto più panoramico del paese ed è pronto ad affrontare l’inevitabile vendetta delle forze oscure e nemiche che si coalizzano contro di lui pur di non abbandonare la posizione che si è violentemente ritagliato nel panorama.
E la Natura si chiude sull’uomo come il mare sopra la nave dell’Ulisse che ci viene raccontato da Dante, assorbendo nei ghiacciai l’urlo di un’Umanità triste ed offesa: non c’è pace né redenzione per nessuno, nemmeno per Neve i cui resti finiranno dentro una bottiglia chiusa di cui tutti si dimenticheranno dopo la morte dei protagonisti.
Nessuno si salva in questo ritratto crudele e fortemente visionario, se non forse Valentino, il povero fidanzato di Neve sequestrato per undici anni e ridotto alla pazzia da Felice, riscattato alla fine dall’amore di Neve e assorbito dalla Natura in una sorta di delirio panteista. Non Maria, moglie di Felice, tragicamente consapevole della fine precoce di Neve e soggiogata dal marito. Non i preti del Paese, costretti a vivere a contatto con un’umanità corrotta e con cui essi stessi saranno costretti a scendere a patti. Non le povere, dolci sorelle “matte” Accione, inconsapevoli delle regole sociali, che si concedono a chiunque abbia voglia in qualunque momento.
Nemmeno la figura dolce e luminosa di Neve, che sacrifica se stessa per l’amore impossibile rinunciando così ad una missione di redenzione verso un’umanità corrotta riesce a riscattare il profondo pessimismo di Corona nei confronti dell’essere umano. “Tutti gli altri – conclude Corona – buoni e cattivi protagonisti di questa storia sono morti. Pace alle loro anime”.
Splendido libro
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