Avevo previsto un articolo disimpegnato – comunque già pronto, sarà pubblicato nei prossimi giorni – ma la morte del senatore Ted Kennedy mi obbliga a spendere due parole che spero contribuiscano a dare qualche spunto di riflessione.
Non mi è mai stato molto chiaro il rapporto fra l’America e l’ingombrante famiglia Kennedy.
Ingombrante per il peso politico, piuttosto inconsueto per dei cattolici irlandesi che hanno mosso i loro passi dal Massachusetts.
Ingombrante anche per l’eccezionale prolificità di ogni singolo componente: a partire dai capostipiti, Joseph e Rose (nove figli) sino a Bob che fece fare la bellezza di undici figli alla moglie!
Ingombrante, infine, per l’ambiguità di un piccolo esercito che sembrava nato per fare politica e che poi inciampava in trappoloni degni di un assai più prosaico Bill Clinton. Mi riferisco, ovviamente, a quelle donne che i maschi della famiglia Kennedy hanno sempre dimostrato di apprezzare oltremodo, sino agli scandali clamorosi di Marilyn Monroe, per JFK e Bob, e di Mary Jo Kopechne, la segretaria annegata in un imbarazzante incidente per Ted che, per evitare scandali, “omise” di soccorrerla. L’onda lunga di questa tragedia pesò come un macigno alle uniche primarie cui partecipò quando, nel 1980, il Partito Democratico gli preferì l’imbelle ed incapace Jimmy Carter: per chi non lo ricordasse, “Peanuts” – come veniva soprannominato – fu il peggior presidente della storia degli USA.
Diventato Senatore nel 1962 e sempre rieletto, Ted era la punta di diamante dei Democratici, di cui incarnava il pensiero più progressista; ed era anche lo stratega che aveva individuato nel 2004 in Barack Obama, all’epoca semisconosciuto, le potenzialità per una grande carriera che, sapientemente guidata, avrebbe portato i risultati che ben conosciamo.
Ma Ted assommava in sé anche le contraddizioni della Famiglia Kennedy, quelle che spesso vengono taciute allo scopo di non inficiare l’immagine pressoché mitizzata di un clan che avrebbe dovuto influenzare la politica degli Stati Uniti e, quindi, del mondo intero.
Ho sempre avuto la sensazione che, in Italia come altrove, ci si sia fatta un’idea un po’ particolare della Famiglia Kennedy.
Nell’immaginario collettivo sono sempre stati paladini della libertà, ma il famigerato Joseph McCarthy, repubblicano e poco incline al dialogo, era molto amico della famiglia Kennedy: Bob aveva lavorato nel suo staff. Nel 1954 JFK avrebbe dovuto pronunciare un discorso di censura nei confronti di McCarthy, ma non lo fece mai, il che gli alienò le simpatie di Eleanor Roosevelt oltre che i sospetti di molti Democratici.
Nell’immaginario collettivo i Kennedy sono sempre stati alfieri del pacifismo, ma durante la presidenza di JFK ci fu l’episodio della Baia dei Porci, la crisi dei missili di Cuba (e la conseguente trattativa con Kruscev che frenò per un pelo la Terza Guerra Mondiale, quella definitiva) e le premesse per la guerra del Vietnam, poi avviata ufficialmente da Lyndon Johnson.
Ma soprattutto, nell’immaginario collettivo i Kennedy uscivano dai canoni standard dei politici come li avevamo visti sino a quel momento, per incarnare il personaggio del vicino di casa, dell’amico della porta accanto che poteva farsi carico dei bisogni di una popolazione che aveva appena vinto un conflitto ed era impegnata nella ben più sfibrante Guerra Fredda. In questo particolare contesto, al di là delle contraddizioni, appariva sicuramente più rassicurante il sorriso dei fratelli Kennedy che non la grinta di Joseph Mc Carthy e delle sue commissioni che avevano guidato la “caccia alle streghe” degli Anni Cinquanta, con l’apice emotivo dell’esecuzione a Sing Sing di Julius e Ethel Rosenberg nel 1953.
E, nonostante tutto, mi riesce difficile immaginare perché gli Americani abbiano deciso di privarsi di questi campioni della democrazia. Certo, la spiegazione più semplice potrebbe essere quella per cui il giusto finisce sempre per soccombere all’iniquo, ma c’è un vecchio adagio, per il vero piuttosto cinico, che recita che gli Americani sanno sempre come disfarsi di un Presidente non gradito. In questo caso, forse, addirittura tre: uno in carica, uno potenziale e uno che non è mai stato nemmeno in grado di cominciare.
Comunque sia, un’epopea contraddittoria e di difficile lettura anche ai nostri tempi; e, in ogni caso, ci andrei molto cauto con beatificazioni che, erogate dal nostro Vecchio Continente, hanno sempre il torto di non tener conto delle ragioni di Oltre Oceano, a noi per lo più poco comprensibili. Ma, chissà perché, l’Europa ha sempre avuto il bisogno di trovare il referente di sinistra anche nello Studio Ovale. Sedici anni fa Bill Clinton doveva essere il polo americano dell’Ulivo planetario; e adesso è il turno di Obama, quello che avrebbe dovuto smantellare subito il carcere di Guantanamo che invece è ancora lì, come se sul trono ci fosse un GW Bush qualsiasi.
Concluderei con questa bella frase di Stenio Solinas, apparsa sul “Giornale” di oggi: “John e Robert Kennedy passarono alla Storia non per quello che erano, ma per quello che si decise sarebbero potuti e/o dovuti essere. Alla realtà si sovrappose il Mito che la rimodellò secondo i desideri e le speranze di una Nazione. Solo con Ted, il più piccolo dei fratelli, ciò non avvenne: condannato in vita a non essere morto in tempo”
Non mi è mai stato molto chiaro il rapporto fra l’America e l’ingombrante famiglia Kennedy.
Ingombrante per il peso politico, piuttosto inconsueto per dei cattolici irlandesi che hanno mosso i loro passi dal Massachusetts.
Ingombrante anche per l’eccezionale prolificità di ogni singolo componente: a partire dai capostipiti, Joseph e Rose (nove figli) sino a Bob che fece fare la bellezza di undici figli alla moglie!
Ingombrante, infine, per l’ambiguità di un piccolo esercito che sembrava nato per fare politica e che poi inciampava in trappoloni degni di un assai più prosaico Bill Clinton. Mi riferisco, ovviamente, a quelle donne che i maschi della famiglia Kennedy hanno sempre dimostrato di apprezzare oltremodo, sino agli scandali clamorosi di Marilyn Monroe, per JFK e Bob, e di Mary Jo Kopechne, la segretaria annegata in un imbarazzante incidente per Ted che, per evitare scandali, “omise” di soccorrerla. L’onda lunga di questa tragedia pesò come un macigno alle uniche primarie cui partecipò quando, nel 1980, il Partito Democratico gli preferì l’imbelle ed incapace Jimmy Carter: per chi non lo ricordasse, “Peanuts” – come veniva soprannominato – fu il peggior presidente della storia degli USA.
Diventato Senatore nel 1962 e sempre rieletto, Ted era la punta di diamante dei Democratici, di cui incarnava il pensiero più progressista; ed era anche lo stratega che aveva individuato nel 2004 in Barack Obama, all’epoca semisconosciuto, le potenzialità per una grande carriera che, sapientemente guidata, avrebbe portato i risultati che ben conosciamo.
Ma Ted assommava in sé anche le contraddizioni della Famiglia Kennedy, quelle che spesso vengono taciute allo scopo di non inficiare l’immagine pressoché mitizzata di un clan che avrebbe dovuto influenzare la politica degli Stati Uniti e, quindi, del mondo intero.
Ho sempre avuto la sensazione che, in Italia come altrove, ci si sia fatta un’idea un po’ particolare della Famiglia Kennedy.
Nell’immaginario collettivo sono sempre stati paladini della libertà, ma il famigerato Joseph McCarthy, repubblicano e poco incline al dialogo, era molto amico della famiglia Kennedy: Bob aveva lavorato nel suo staff. Nel 1954 JFK avrebbe dovuto pronunciare un discorso di censura nei confronti di McCarthy, ma non lo fece mai, il che gli alienò le simpatie di Eleanor Roosevelt oltre che i sospetti di molti Democratici.
Nell’immaginario collettivo i Kennedy sono sempre stati alfieri del pacifismo, ma durante la presidenza di JFK ci fu l’episodio della Baia dei Porci, la crisi dei missili di Cuba (e la conseguente trattativa con Kruscev che frenò per un pelo la Terza Guerra Mondiale, quella definitiva) e le premesse per la guerra del Vietnam, poi avviata ufficialmente da Lyndon Johnson.
Ma soprattutto, nell’immaginario collettivo i Kennedy uscivano dai canoni standard dei politici come li avevamo visti sino a quel momento, per incarnare il personaggio del vicino di casa, dell’amico della porta accanto che poteva farsi carico dei bisogni di una popolazione che aveva appena vinto un conflitto ed era impegnata nella ben più sfibrante Guerra Fredda. In questo particolare contesto, al di là delle contraddizioni, appariva sicuramente più rassicurante il sorriso dei fratelli Kennedy che non la grinta di Joseph Mc Carthy e delle sue commissioni che avevano guidato la “caccia alle streghe” degli Anni Cinquanta, con l’apice emotivo dell’esecuzione a Sing Sing di Julius e Ethel Rosenberg nel 1953.
E, nonostante tutto, mi riesce difficile immaginare perché gli Americani abbiano deciso di privarsi di questi campioni della democrazia. Certo, la spiegazione più semplice potrebbe essere quella per cui il giusto finisce sempre per soccombere all’iniquo, ma c’è un vecchio adagio, per il vero piuttosto cinico, che recita che gli Americani sanno sempre come disfarsi di un Presidente non gradito. In questo caso, forse, addirittura tre: uno in carica, uno potenziale e uno che non è mai stato nemmeno in grado di cominciare.
Comunque sia, un’epopea contraddittoria e di difficile lettura anche ai nostri tempi; e, in ogni caso, ci andrei molto cauto con beatificazioni che, erogate dal nostro Vecchio Continente, hanno sempre il torto di non tener conto delle ragioni di Oltre Oceano, a noi per lo più poco comprensibili. Ma, chissà perché, l’Europa ha sempre avuto il bisogno di trovare il referente di sinistra anche nello Studio Ovale. Sedici anni fa Bill Clinton doveva essere il polo americano dell’Ulivo planetario; e adesso è il turno di Obama, quello che avrebbe dovuto smantellare subito il carcere di Guantanamo che invece è ancora lì, come se sul trono ci fosse un GW Bush qualsiasi.
Concluderei con questa bella frase di Stenio Solinas, apparsa sul “Giornale” di oggi: “John e Robert Kennedy passarono alla Storia non per quello che erano, ma per quello che si decise sarebbero potuti e/o dovuti essere. Alla realtà si sovrappose il Mito che la rimodellò secondo i desideri e le speranze di una Nazione. Solo con Ted, il più piccolo dei fratelli, ciò non avvenne: condannato in vita a non essere morto in tempo”
Come al solito, parole e pensieri gradevoli e di assoluto rispetto. Come sempre più spesso succede, sono in pieno accordo con te e con quello che dici/scrivi. Mi devo preoccupare?
RispondiEliminaCerto che no, Stefano!
RispondiEliminaAverti fra i miei lettori è come andare a bere un cafè al mattino con un vecchio amico. Il che, peraltro, succede con discreta frequenza...