lunedì 29 giugno 2009

Leo


La settimana scorsa si e' ufficialmente conclusa la parabola professionale di un autentico genio del bisturi. Leandro Gennari, per il vero un po' obtorto collo, ha deciso di abbandonare quella sala operatoria che - in guisa di palcoscenico - l'ha visto protagonista assoluto per oltre 40 anni. Il caso ha voluto che proprio io, orgoglioso ultimo dei suoi "figli spirituali", abbia avuto il privilegio di aiutarlo nella sua ultima fatica, peraltro consumata con una nonchalance invidiabile, ad onta delle quasi 80 primavere. C'era una strana atmosfera vagamente malinconica nella sala operatoria 5 del Blocco A dell'Istituto dove lavoriamo: da una parte il sorriso un po' triste di Leo (perdonatemi se lo chiamo con questo nomignolo affettuoso: il nome e' più breve ma il rispetto e' immutato) che ventilava l'idea di non rinnovare l'iscrizione all'Ordine dei Medici, dall'altra la mia consapevolezza di essere testimone di un momento storico e l'idea, la convinzione che, al mio posto, forse ci sarebbe dovuto essere qualcun altro. Per esempio, uno di quei meravigliosi campioni dell'arte chirurgica cresciuti all'ombra di questo Uomo magro, quasi emaciato, dal profilo ascetico, dal sorriso ora infantile e ora sardonico e dallo sguardo febbrile.
Nato e cresciuto professionalmente nella Milano del boom economico, trovo' subito casa in quell'Istituto dei Tumori che, sotto la guida di chirurghi come Vinicio Catania, Pricolo e Bucalossi, stava cercando di uscire dalla definizione di cronicario, di posto per i malati che non possono guarire. Lì il giovane Leo trova la sua strada e l'incontro con un altro genio della Medicina, Umberto Veronesi, che capisce l'eccezionalità dell'uomo che ha davanti e ne imbriglia il talento con le redini del rigore scientifico. Ne nasce uno di quei sodalizi che siamo soliti ammirare in altri campi, per lo più artistici, fra due menti geniali che si completano a vicenda: Veronesi mette la propria sagacia politica, Leo la propria eccezionale abilità manuale, la sensibilità del grande Artista e la spregiudicatezza del pioniere che non si pone limiti. Fonda l'Endoscopia dell'Istituto e la mette poi in altre mani; sarà così per tutti i campi che toccherà, con particolare riferimento alla grande chirurgia dell'addome. Stomaco, colon, pancreas, il misterioso fegato con le prime avventurose resezioni affrontate fra i primissimi in Italia alla fine degli Anni Settanta (furono in tre: Belli a Niguarda, Gozzetti a Bologna e Leo in Istituto), e poi i misteriosi ed affascinanti sarcomi, le neoplasie dei tessuti molli, e ancora i trapianti di fegato per neoplasia. In poco tempo l'Istituto diventa la Mecca verso cui un intero popolo di sofferenti rifiutati da chirurghi più o meno famosi del resto d'Italia si rivolge per l'ultima speranza: quella accordata loro da questo uomo tanto scavato da sembrare divorato egli stesso da una strana malattia e che regala una possibilità, spesso l'ultima, quasi sempre l'unica. Non sempre va bene, ma i pazienti scoprono in Leo l'amico che parla la loro stessa lingua: per una volta il Mago del bisturi è uno di loro, non il solito Barone arrogante che sembra venire da un'altra galassia.

Il Leo che mi porterò sempre nel cuore mi ha insegnato più col suo esempio che non col suo gesto. Attore protagonista della grande rappresentazione della vita che si tiene ogni giorno sul palcoscenico della sala operatoria, non era fatto per guidare i primi passi titubanti dell'allievo: a ciò aveva delegato altri, salvo poi compiacersi dei suoi successi come se fossero merito suo.
Il Leo che mi parlerà anche quando si sarà definitivamente dedicato a plasmare le sue sculture di vetro anziché le viscere dei pazienti, è quello che mi ha ripetuto sino allo sfinimento di guardare più avanti del mio naso, di fare un intervento di meno e di scrivere un articolo di più, perché ciò che fa la differenza fra il grande chirurgo e il manovale è la capacità di relazionarsi col diffidente mondo esterno, quello che non è disposto a credere ai tuoi successi se non li pubblichi sulle riviste più prestigiose, e quello che ti cede il microfono ai congressi con riluttanza perché non sei universitario.
Il Leo che vedrò sempre davanti a me è il chirurgo spregiudicato e fantasioso, che tiene davanti a sé le regole degli altri solo per superarle con le proprie perché - vero Ulisse dei nostri tempi - pensa che violare le colonne d'Ercole in fondo non sia un peccato di hybris ma un rinnovarsi dell'eterna sfida dell'uomo contro il vecchio nemico: la morte.
Qualche anno fa, ad una cena organizzata dai genitori di Mara, una donna morta troppo giovane, la nostra collega ed amica Paola Bignami, con gli occhi umidi per l'emozione, definì Leo: "Il più grande chirurgo del mondo".
Aveva ragione.

sabato 13 giugno 2009

A volte ritornano


Oggi a Milano, al processo contro le nuove brigate rosse, ne è successa una carina. Premesso che è difficile stabilire quanto siano "nuove" queste brigate, giacché lo erano anche quelle della simpaticissima Lioce e lo sono, per i giornalisti, anche quelle appena smontate mentre stavano progettando nuovi attentati, per cui quelle processate a Milano forse sono brigate rosse "come nuove", c'è da dire che questi curiosi relitti di un passato ormai putrefatto cantano come i famosi canarini della filastrocca, in questo caso evidentemente non per amore. E non solo loro.
A parte ameni slogan come: «Contro la crisi dell'imperialismo guerra di classe per il comunismo» e «Contro il fascismo e la repressione, rivoluzione» ci piace notare come una parte di pubblico, alzando il pugno sinistro al cielo, si sia unito ai freschi condannati intonando l'Internazionale.
Siamo onesti: ma questa gente dove crede di essere? A Stalingrado? O in una bella assemblea alla Statale Anni Settanta?
Questo Paese idiota, che sino a un anno fa si segnalava per essere all'incirca l'unico al mondo ad avere due, tre o forse più (non ricordo esattamente quanti) Partiti Comunisti rappresentati in Parlamento - uno in effetti sembrava troppo poco - non solo è ancora l'unico al mondo a poter vantare un Partito Comunista Combattente, ma è probabilmente l'unico al mondo ad offrire ai miserabili guitti di questa farsa ignobile anche un pubblico entusiasta!
A volte ritornano, verrebbe da dire citando Stephen King, ma in fondo siamo abbastanza tranquilli: a parte i quattro gatti squinternati che si identificano nei patetici ideali di questi falliti e li applaudono, ormai sono talmente prevedibili che li blindano subito prima ancora che si riuniscano. Se avessere un po' di cervello potrebbero capirlo, ma non c'è molta speranza. Giovannino Guareschi li definiva e li disegnava come "trinaricciuti" mica per niente: la terza narice serviva a sfiatare i fumi dentro il cranio

giovedì 4 giugno 2009

Viale del tramonto


Spiace doverlo dire, ma in questa campagna elettorale così miserabile, montata com'è su natiche di fanciulle "Barely legal", sulle erezioni degli ospiti di Villa Certosa immortalate dai paparazzi e sui gorgheggi di Mariano Apicella, trasportato dagli aerei presidenziali, nonostante tutto chi ci fa la figura più patetica è il solito Franceschini. Il quale - poveretto - ad onor del vero, ha fatto quello che ha potuto con le poche carte che aveva in mano. Non ha mai avuto nessuna idea sua, non poteva iniziare adesso; quindi ha ammiccato, ha fatto qualche risatina sprezzante, è andato in metropolitana e sui tram a sentire la gente (uno dei suoi predecessori andava in bicicletta e in pullman) e si è accocolato sull'antiberlusconismo come ci si siede sul cesso: un compito sgradevole ma inevitabile. Non ha fatto altro che accodarsi al carrozzone di quel Barnum che i suoi fondatori hanno voluto chiamare Partito Democratico, portando in dote la stessa puzzetta sotto il naso che aveva - prima di lui - il buon vecchio Romano Prodi, rispetto al quale riesce ad essere anche meno scaltro, mancandogli quel senso da "scarpe grosse e cervello fino" che aveva il pretone di Scandiano.
Gli concedo l'attenuante di essere salito in corsa a raccogliere i cocci di una disfatta umiliante e che non è completamente colpa sua. Gli concedo anche l'attenuante di essere un democristiano che cerca di governare gli eredi del fu PCI, che - su istigazione del loro vero capo, Massimo D'Alema - ancora ritengono di essere i Grandi Predestinati ad una Missione Superiore, e che invece hanno preso una serie di scarpate sul grugno da un brianzolo che ha fatto il grano con televisioni private ed altri affari quanto meno poco chiari (ad essere eufemistici) sui quali, nonostante vari tentativi, non sono riusciti ad inchiodarlo seriamente.
Quello che non gli passo, ovviamente, è di essersi accomodato (è il verbo adatto: Franceschini non si scomoda mai) sul cesso di cui parlavo poco sopra - quello dell'antiberlusconismo fine a se stesso - portando seco a scopo autoerotico le foto di Berlusconi alla festa di compleanno di una lolita diciottenne e chiedendo al premier di "riferirne in Parlamento", pensando così di inchiodarlo alle proprie presunte responsabilità.
Ora non vorrei sembrare particolarmente irrispettoso nei confronti del segretario PD, ma prima che ci si mettesse lui, col suo sorrisino da primo della classe, a cercare di appiccicare al muro Berlusconi ci si erano provati personaggi di ben altro spessore inquisitorio come - per esempio - Di Pietro versione magistrato, che ai tempi si accompagnava a calibri di tutto rispetto come Francesco Saverio Borrelli e Gherardo Colombo, dimostrando al mondo - coi loro risultati inesistenti - che non era quella la strada per fermare il piccolo manager brianzolo.
Sempre lì si torna: l'antiberlusconismo come unico valore di una Sinistra totalmente priva di idee, che ha rinnegato i propri ideali di una volta ma non li ha saputi sostituire; che non sa più cosa farsene di quella classe operaia che una volta era il suo zoccolo duro e cerca di sostituirla con gli immigrati che, peraltro, non li capiscono; che non ha più cose di sinistra da dire, tutta presa com'è a cercare di polverizzare Berlusconi. Ho diversi amici di sinistra che esauriscono il loro "esserci" in questa mission: è l'unico appello cui rispondono "Presente!", senza rendersi conto che solo con una Sinistra forte, aperta, creativa, riformista si ripropone quella democrazia dell'alternanza che è alla base di uno Stato libero.
Domani si vota. Il PD non avrà il mio voto (nemmeno il PDL, però), ma nonostante tutto, auguro a questi quattro guitti squinternati di portare a casa un risultato onorevole, perché farebbe bene a quella democrazia dell'alternanza che sempre nel cuor mi sta. E dopo, di liberarsi dei cessi che arredano i loro uffici e di sostituirli con delle pratiche turche: si puliscono rapidamente e, soprattutto, non fanno venire la tentazione di sedercisi sopra