Saranno due mesi abbondanti che "Il Giornale", quello che una volta era il mio "Giornale" (non lo leggo più), non fa altro che pubblicare in prima pagina la stessa notizia: la storia indecorosa finché si vuole, ma ormai ampiamente logorroica, della casa a Montecarlo di Gianfranco Fini e della compagna (termine che una volta Fini non avrebbe gradito) Elisabetta Tulliani, con l'aggiunta del cognato Giancarlo, di Luciano Gaucci e giù giù tutti gli altri protagonisti di questa squallida storia.
A me fa malinconia vedere la prima pagina di questa gloriosa testata svilita quotidianamente da notizie così triviali. Questa vicenda si sarebbe potuta chiudere molte, ma molte (prime) pagine fa se Gianfranco Fini avesse ammesso da subito le sue debolezze: conosce molto bene anche lui Feltri, sa che razza di mastino sia (vedi il caso Boffo), avrebbe potuto evitare la reticenza. Il pubblico del PdL gli avrebbe perdonato la stamberga acquistata a basso costo per se stesso e per il parentado tolto in prestito a mesata; difficilmente invece gli perdonerà il castello di falsità che, agli occhi del medio elettore di destra, suona in modo non diverso da quelle ideate da William Jefferson Clinton allorquando l'opinione pubblica gli chiese conto della fellatio praticatagli sotto la scrivania dello Studio Ovale dalla stagista Monica Lewinsky.
E Clinton corse il rischio di perdere la presidenza degli Stati Uniti d'America non per un pompino, bensì per una menzogna: quella cioè con cui negò più volte il per lui piacevole atto.
Ma de hoc satis. Ci siamo abbondantemente rotti di questa storia.
Non neghiamo che i giornalisti alle dipendenze di Feltri sappiano fare il loro mestiere: si sono attaccati come cozze a questa storia e ne hanno fatto uno scoop che forse non meriterà il Pulitzer solo per il basso profilo dei personaggi che vi sono implicati, a fronte dei quali persino una stagista piuttosto corpulenta e con le capsule ai denti sembra assumere i connotati morali di Golda Meir o di Margareth Thatcher.
Ma adesso basta, paulo maiora canamus: questo è il "Giornale" che fu fondato da Montanelli e, anche se dal 1979 è proprietà della famiglia Berlusconi, non può essere ridotto alla stregua di un organo di partito. Io, quanto meno, non lo accetto.
Quando nel 1974 Giulia Crespi (la cui "amicizia" - chiamiamola così - con Mario Capanna era cosa ben nota nei salotti culturali radical-chic) impose al "Corriere" una linea editoriale non diversa da quella di "Paese sera" o "Lotta continua", Indro Montanelli decise di andarsene da via Solferino per fondare un nuovo quotidiano che - unico nel suo genere nel panorama italiano - si facesse espressione di quel pensiero liberale che, nato con John Locke e Alexis De Tocqueville, passato attraverso Immanuel Kant, aveva trovato in Italia in Giuseppe Prezzolini, Leo Longanesi e Mario Pannunzio i più importanti ed eloquenti rappresentanti. Montanelli era indiscutibilmente il loro continuatore e aveva fatto del "Giornale" un circolo culturale di area liberale, l'unico del suo genere in Italia: Egisto Corradi, François Fejto, Enzo Bettiza, Cesare Zappulli, Nicola Abbagnano, Piero Buscaroli, Giorgio Torelli, Mario Luzi, Federico Orlando, Geno Pampaloni, Giorgio Soavi, persino Mauro Mancia e tanti altri ancora, fra cui citerei almeno il grande Gianni Brera a nobilitare la pagina sportiva.
Nasceva - o meglio, rinasceva: ed era ora - una cultura liberale che aveva trovato nel vecchio "Cilindro" un anfitrione elegante pur se non sempre forbitissimo, intriso com'era di quello spirito toscano che gli permetteva di dire quello che pensava con suppergiù le stesse parole con cui lo pensava. Il risultato? Fu bollato di "fascista" - etichetta distribuita a tutti coloro che all'epoca non si conformarono al comune sentire - e fu gambizzato il 2 giugno 1977 dalle brigate rosse. E non solo lui fu fascista per l'opinione pubblica conformista: tutti noi suoi lettori eravamo conseguentemente "fascisti", e se a qualcuno venisse da sorridere è solo perché, magari per limiti anagrafici, questo qualcuno non può capire cosa volesse dire, alla fine degli Anni Settanta, entrare in un liceo okkupato con il "Giornale" ripiegato sotto al braccio, e i compagni che - nella migliore delle ipotesi - ti guardano torvi.
Montanelli continuò nelle sue battaglie fino al 12 gennaio 1994, anno in cui Berlusconi fondò il suo partito auspicando che "Il Giornale" ne diventasse l'organo: Montanelli - da uomo libero qual'era - rifiutò e iniziò l'era di Feltri.
Feltri è un gran bravo professionista, pur senza essere un fuoriclasse come Montanelli (d'altra parte, chi lo è mai stato da lui in avanti?). Amo molto il primo Feltri, che diede esempio di ottimo giornalismo d'assalto in una serie di brillanti editoriali contro le infingardaggini di Romano Prodi ai tempi del suo primo governo.
Poi anche lui fu costretto ad andarsene e "Il Giornale" passò di mano, con alterne fortune, fra penne di buon livello (Cervi e Belpietro) o decisamente bassino, come il pur volenteroso Mario Giordano.
Adesso il ritorno di Feltri (dal 2009) ha portato una decisa sterzata della testata in senso organico al partito di Berlusconi, togliendo così l'ultima connotazione di liberismo alla testata giornalistica più bella della storia italiana: l'unico giornale che è stato veramente "libero" e "liberale" in un momento in cui ammantarsi di questa etichetta era una sfida al conformismo delle anime morte.
"L'unico incoraggiamento che posso dare ai giovani, e che regolarmente gli do, è questo: "Battetevi sempre per le cose in cui credete. Perderete, come le ho perse io, tutte le battaglie. Una sola potere vincerne: quella che s'ingaggia ogni mattina, quando ci si fa la barba, davanti allo specchio. Se vi ci potete guardare senza arrossire, contentatevi" (Indro Montanelli, 20 febbraio 1996)
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