mercoledì 8 settembre 2010

Finestre vuote


Sono a Uppsala per un importante congresso sulle patologie maligne del peritoneo. Ci sono andato con Vittorio e, ovviamente, ne approfittiamo per girare per le vie della città che vanta l'università più antica di tutta la Svezia.
Dopo la sistemazione in un albergo che sembra ricavato dai cataloghi Ikea, siamo andati nella cattedrale, che esternamente sembra una chiesa protestante e internamente presenta cappelle laterali e crocefisso, quasi a tradire un'identità cattolica che non ci aspettiamo; e infatti dentro troviamo anche un sacerdote donna che non fa parte della realtà cui siamo abituati. Si tratta in effetti della chiesa svedese, protestante ma con ancora qualche contaminazione cattolica.
Il tempo è mite, anche se la sera è decisamente freschino. Sono i prodromi dell'inverno che porterà ad avere un accorciamento estremo delle giornate: l'alba intorno alle 10, il tramonto alle 15 e alle 16 è già buio pesto. 
Decidiamo che vogliamo mangiare qualcosa di svedese, ma scopriamo che non è affatto facile. Andiamo alla ricerca di un ristorante che ci offra il meglio della cucina svedese; scopriremo ben presto che si tratta di un'impresa quasi disperata poiché Uppsala, città universitaria multietnica che ospita un grande numero di studenti stranieri, ha perso la propria identità nazionale quanto meno sul fronte alimentare. Dopo una lunga ed estenuante ricerca - nel corso della quale ci accorgiamo con un minimo di costernazione che la gente locale è già a tavola intorno alle 17.30 - troviamo finalmente un posto che ci offre un assaggio di specialità nazionali fra cui la renna, molto buona ancorché un filo tenace.  Il tutto è complessivamente buono, ma anca clamorosamente di sale e per di più ci spennano discretamente senza riempire i piatti in modo proporzionale al nostro appetito.
Oggi pomeriggio ci incontriamo con Sarah, una nostra conoscente, la quale sta qui da qualche settimana per ragioni di studio ed essendo una ragazza sveglia (oltre che notevolmente carina: vista di fianco sembra Candice Bergen) ci aiuta a capire meglio questa popolazione. 
Ci porta in una konditorei dove consumiamo una merenda, rito di particolare importanza nelle usanze sociali svedesi. Scegliamo la fetta di dolce di nostro gradimento, la carichiamo su un vassoio assieme alle bevande e ci scegliamo un tavolo in un locale gradevolmente antico, popolato di persone giovani molte delle quali, esaurita la loro consumazione, si fanno piacevolmente i fatti loro senza che nessun cameriere vada a tampinarli perché facciano il bis.
S. ci racconta un po' della Svezia: dei costi elevati della spesa, dei servizi precisi e inappuntabili che giustificano le tasse elevate, della spersonalizzazione della gente che spesso cerca conforto in generi come l'alcol il cui consumo è decisamente scoraggiato dalle autorità ma che, nondimeno, trova una sua ragion d'essere e un suo mercato alternativo grazie ad altre piazze confinanti e compiacenti in cui sono permessi gli acquisti che il governo svedese cercherebbe di rendere più difficili.
Andiamo ovviamente a parlare dei suicidi: è noto che nei Paesi del Nord c'è un'incidenza di tale evento nettamente superiore alla media internazionale. Finiamo per concordare in modo forse un po' semplicistico che la pulsione potrebbe essere dovuta al buio che, d'inverno, avvolge i tentativi dell'uomo di affermare la propria esistenza, il proprio esserci.

Ci salutiamo: Sarah deve tornare al suo campus. Vittorio e io giriamo per la città in cerca di un posto dove mangiare e - avendo esaurito le possibilità di cucina svedese (tornerò a casa con la voglia non soddisfatta di aringa affumicata) - decidiamo di rifugiarci in una delle tante taverne greche della città. La scelta cade su quella che, con uno sforzo di fantasia notevole, si chiama "Tzatziki". Il posto è accogliente e molto ben curato, come igiene e come cucina; i tavoli sono affollati, una ragione ci sarà. Ci rimpinziamo di tzatziki (appunto), taramosalata, moussaka, involtini di foglia di vite, spiedini di carne di vario genere e scottadito d'agnello e concludiamo il tutto con un bicchierino di profumata metaxa. Alla fine avremo mangiato il triplo della sera precedente, spendendo la metà.
Tornando verso l'albergo ci imbattiamo in giovani vestiti da rapper che gridano e cantano per le strade, e sembrano urlare la propria solitudine e il desiderio di esserci, di affermare la propria esistenza. Sarah ci ha raccontato che nei campus la sera alle 20 i giovani si affacciano alle finestre e cacciano un urlo, a ricordare tutti quelli che si sono suicidati: non commentiamo, ma ci si stringe il cuore.
Camminando per le strade, alziamo il naso e vediamo le finestre delle case. Notiamo che c'è una differenza sostanziale con le nostre vie: mancano le tende. Le finestre sono ampie, come se volessero catturare anche il più piccolo raggio di sole, e ci rendiamo conto di come dev'essere dura nei lunghi giorni di buio invernale. Vediamo le lampade, le librerie, i tavoli, i muri.
Non vediamo la gente.

Salgo nella mia camera Ikea, col materasso a futon, il piumone a sacco, il cuscino troppo morbido, le finestre aperte che mi affretto ad oscurare e il mio Mac appoggiato sul tavolino d'angolo. La televisione blatera parole incomprensibili, ma sul comodino mi aspetta Simenon: "Le finestre di fronte".
Mi mancano Cristina, Giacomo e il bassotto.
Mi manca il mio paesello

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