domenica 22 febbraio 2009

Carta canta



Ieri sera si è conclusa una delle migliori edizioni degli ultimi anni del Festival di Sanremo, una manifestazione ormai del tutto inutile soprattutto al fine della vendita di dischi, come acclarato dai ripetuti insuccessi in tal senso. Tributati tutti gli onori del caso a Paolo Bonolis e alla sua squadra – in testa, ovviamente, l’eterna spalla Luca Laurenti, ma anche Maria De Filippi che ieri sera si è amabilmente prestata a fare la valletta – rimane da riflettere sulla vera ragion d’essere del Festival, e cioè canzoni e cantanti. E qui cominciano i problemi.
Ieri sera ha vinto, come abbondantemente previsto alla vigilia, il piccolo Marco Carta, bambolotto sardo dal sorriso ebete plastificato, piombato sul Ponente ligure dal palinsesto concorrente di “Amici”. Chi è costui? È un ragazzotto supponente che l’anno scorso ha vinto l’oscena trasmissione di Maria De Filippi dimostrando forse non il talento più cristallino, ma riuscendo comunque ad essere, senza particolare sforzo, il più odioso di un gruppo di per se stesso molto ben caratterizzato su questo fronte. Oggi come allora, lo hanno trascinato gli sms dei teenagers che, evidentemente e misteriosamente, si riconoscono in questo piccolo putto talmente stereotipato in tutto da sembrare creato sul pc di uno dei produttori. La canzone, di un’idiozia zuccherosa agghiacciante, pare fatta apposta per trionfare sul palcoscenico dell’Ariston; e, in ciò, riesce a distinguersi dagli altri brani, nel bene come nel male.
Nel bene rispetto al brano di Povia che monta su una musica clonata da quella di Cristicchi di un paio d’anni fa una storia spacciata per vera, ma che sembra presa dai “Segreti di Brokeback Mountain”.
Nel male rispetto alla ben altrimenti simpatica canzone di Arisa, personaggio curioso e spiritosamente vintage che, nonostante ciò, porta una ventata di novità sullo stantio palcoscenico ligure.
Nessuno di costoro corre il rischio di scalzare dal piedistallo i veri mostri sacri della vera canzone italiana che non nasce più a Sanremo da anni; eppure si ha comunque la sensazione che questo Festival, pur ben condotto, abbia sancito la fine di un’epoca. Vedere per la millesima volta Al Bano, Iva Zanicchi, Fausto Leali e Patti Pravo, questi ultimi due alle prese con vistosi problemi di intonazione; vedere il patetico ed invecchiatissimo Marco Masini ricorrere al solito turpiloquio per condire una canzone che era già stata proposta anni fa da Mino Reitano buonanima; vedere la mercificazione più bieca di quella che una volta fu un’Arte, ma quasi mai su questo palcoscenico, è qualcosa che fa riflettere e desiderare un ricambio generazionale.
E allora pensi che sì, forse non è difficile prevedere la vittoria di un piccolo presuntuosetto come Marco Carta. Un brano talmente idiofono da pensare che è inevitabile la sua vittoria, ma che andrà ad arricchire quella bacheca in cui già ci stanno personaggi della razza dei Jalisse, che non hanno venduto nemmeno un disco; o di Tiziana Rivale, che si è ricreata solo a contatto con Paolo Limiti. Il che, a pensarci bene, è tutto dire

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