Se conosco un uomo tranquillo, quello è Leonardo Casale, in arte Leo. Decido di andarlo a trovare perché stasera mastico la mia solitudine continuando a fischiettare vecchie canzoni di Billie Holiday fra cui, ovviamente, "The man I love" e "Solitude".
Leo.
Lo conosco da dieci anni, da quando cioè abito a Melegnano. All'epoca lui aveva una pizzeria da asporto in via Dezza, ed era sempre piena come un uovo; attualmente il suo negozio di una volta vivacchia come bottega di kebab - peraltro pregevole - e ci vanno quattro gatti, il che la dice lunga su come Leo sapesse fare andare le cose.
Leo è un personaggio singolare. Laureato in giuriscprudenza, ha fatto l'accademia militare diventando tenente dei Carabinieri per poi decidere - strada facendo - che non era la sua strada. E' stato quindi Leo del deserto, in Algeria, a posare condutture per la SNAM. Ha messo su famiglia con Vita, mettendo al mondo tre splendide ragazze: Stefania, Laura e Francesca. E finalmente si è dedicato alla cucina, la sua vera passione, la meta della parte creativa della sua esistenza.
Leo non è un pizzaiolo, è un uomo tranquillo applicato alla cucina.
Figlio di Taurasi, località di quell'Irpinia che cresce in mezzo ai vitigni di Fiano e Falanghina (che a regola non sarebbe esattamente di Avellino, ma del beneventano), eredita dalla sua terra creatività, gusto per sapori decisi come quello del salame del pezzente (presidio Slow Food) e più miti ma antichi, come quello del purè di fave.
Ama sperimentare, Leo. Nel bugigattolo della sua pizzeria d'asporto di una volta fa la focaccia di Recco più buona di quella originale (e io di focacce me ne intendo) e la pastiera napoletana rivisitata da lui, secondo i suggerimenti delle vecchie signore del suo paese. Vende quintali di pizze alla gente che fa la fila in strada, ma medita di fare piatti di spaghetti al sugo di pesce al cartoccio da consumare come lunch per i frettolosi impiegati che si ingozzano di porcherie.
E finalmente il suo ristorante che chiama, manco a dirlo, "Taurasi", come il suo paese. Gli scettici gli ridono dietro: il ristorante è nascosto ed è passato più volte di mano. Si dice anche che porti sfortuna e molti preconizzano una fine precoce. Il risultato è che se non ci si prenota con qualche giorno di anticipo non si ha nessuna possibilità di trovare un tavolo libero.
Stasera il mio umore mutevole mi porta lì. Ho telefonato prima e ho trovato un tavolo libero, che Vita mi riserva. Al mio arrico Leo mi bacia e mi abbraccia: è sinceramente contento di vederti, andare da lui dà sempre la sensazione di essere un ospite gradito.
Ordino una selezione di salumi - eccellente - e la sua pizza. La lista in verità presenta tante cose, molte delle quali presidi Slow Food, un sacco di pesce freschissimo e cucinato con sapienza, ma la sua pizza è un must: la cura maniacale nella scelta delle materie prime, la sapiente lievitazione della pasta, la cottura perfetta - non troppo croccante, soavemente morbida - fanno di questa pizza un prodotto eccezionale, che sa di antico, che rimanda a Mergellina e Zi' Teresa, almeno quella di una volta.
Mi sporgo dal mio tavolo a spiare Leo che impasta: gli occhialini da presbite appoggiati sul naso, i baffoni, il gesto antico e sapiente; tutta la sua allure denuncia in lui l'uomo tranquillo che ha raggiunto lo scopo della sua esistenza: rendere felice il proprio prossimo.
La sua presenza, il suo gesto, il suo sorriso, la sua voce acuta mi mettono di buon umore e mi tranquillizzano l'anima in tumulto: avevo bisogno di essere coccolato dopo l'ennesima giornata vissuta solo contro tutti.
Penso al dolce che sceglierò stasera ma non arriverò a finire la pizza.
Abbraccio Vita e Leo e ritorno lentamente verso casa.
La voce roca di Billie mi fa ancora compagnia nella mia testa.
Il caldo appiccicoso è quasi palpabile, ma è una presenza intorno a me che sembra voler sottolineare la mia solitudine e me lo gusto.
Se fumassi ancora, sarebbe una sera adattissima
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