venerdì 2 luglio 2010

Treni

Dopo vent'anni ho ripreso un treno.
Si trattava di una tratta breve, da Bologna e Imola, per andare a trovare un amico, ma tanto bastava per darmi un po' di angoscia e di desiderio di essere altrove.
Il caso poi ha voluto che fosse anche una bella giornata critica, da bollino nero: tutta la gioventù del capoluogo emiliano che si riversa sulla costa adriatica, in cerca di divertimento a buon mercato e di un po' di refrigerio dal calore bollente che il sole impazzito riversa sull'asfalto.
L'androne della stazione centrale rigurgita di gente: code chilometriche davanti alle biglietterie e alle numerose macchinette che garantiscono semplicità d'esecuzione e velocità. Effettivamente i ragazzi scelgono di gran lunga quest'ultima soluzione e muovono le dita a velocità supersonica sul touch screen, come se fosse lo schermo del loro iPod o iPhone, o qualunque altra cosa che inizi per "i".
Erano vent'anni che non mettevo piede in una stazione, quando facevo avanti e indietro dalla caserma le volte che non potevo disporre della macchina che, all'epoca, era ancora in comune con mio fratello Stefano; e vent'anni fa l'odore era lo stesso di oggi: sudore, disinfettante da quattro soldi, fumo di sigarette, profumi dolciastri che si mescolano con l'afrore dei corpi madidi, ansiosi, stanchi. Chi arriva alla stazione non è mai rilassato: si prende il treno per scappare da una vita difficile, di lavoro al caldo, di pochi soldi, per cercare una vacanza a buon mercato e di pronto consumo; oppure per tornare a casa.
Faccio il mio biglietto, mi immetto nella fiumana di gente che è diretta in massa al binario 9, quello dove fermerà il treno diretto ad Ancona, il sogno della riviera romagnola a portata di mano di tutti. Sul binario c'è tutta l'umanità di cui mi ero dimenticato: quattro hippie fuori tempo massimo sono seduti per terra in cerchio e si tengono per mano, manca solo che si passino una canna e poi il revival sarebbe perfetto; due militari in mimetica con zaino enorme sulle spalle stanno tornando a casa per una "breve"; un improbabile professionista in gessato blu scuro ostenta bracciali e orologio d'oro o simil tale che lo fanno piuttosto assomigliare al magnaccia che forse in realtà è; un vecchietto sdentato con un buffo cappelluccio di paglia biascica un toscanello spento e ha lo sguardo perso nel vuoto; accanto a lui, una vecchietta fa le parole crociate. Giovani passano avanti e indietro, esponendo in eguale misura tette di marmo e muscoli palestrati; le ascelle puzzano alla stessa maniera.
Arriva il treno e ci si buttano sopra come su una metropolitana; il capostazione passa a pigiarli dentro, sono sulla tradotta della Strada della Felicità a buon mercato.
Non prenderò quel treno: non ci sto e, in fondo, nemmeno ci tengo. Prenderò quello dopo, diretto a Ravenna: transita anch'esso per Imola ma attraverso strade diverse, più tranquille, lontane dai grossi circuiti delle vacanze.
Una ragazza pallida, emaciata, con le vene in rilievo sugli avambracci scoperti mi passa accanto, mi stende la mano e mi chiede cinquanta centesimi per mangiare. Cazzo, dovevo tornare in una stazione per riscoprire gli ultimi tossici!...
Salgo sul treno: nessun vacanziero, solo qualche esemplare di varia umanità che coltiva la propria solitudine in un muto colloquio con la tastiera di un cellulare.
Guardo fuori dal finestrino sporco e grigio la campagna ancora assolata dagli ultimi raggi del tardo tramonto estivo e il mio cuore batte al ritmo del lento sferragliare dell'accelerato.
Il treno si ferma in tutte le stazioni di una campagna sonnolenta.
Il mio cellulare questa sera tace

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