giovedì 1 luglio 2010

Bologna at night


Bologna assolata, bollente, sembra spalmata su quel piattume che è l'estensione della pianura padana.
Ci arrivo di sera, dopo una giornata di tensioni in sala operatoria; e, in aggiunta alla mia stanchezza, devo girare come un pazzo intorno a viale dell'Indipendenza per trovare l'ingresso in via Galliera, perché l'Amministrazione Comunale ha invertito tutti i sensi unici senza avvisare il mio navigatore.
La mia camera all'Hotel Internazionale e' bellissima, il clima interno e' quello giusto, il letto sarebbe sovrabbondante anche se ci fosse accanto a me Fran Fullenwider, la cicciosissima e burrosa protagonista di "Una sera c'incontrammo", vecchio film tratto da un sapidissimo libriccino di Vaime (se lo trovate ancora s'intitolava "Amare significa") che sbertucciava parola per parola il lagnosissimo "Love story".
Tutto bello, tutto giusto, ma sono preso dalla solita angoscia sottile che mi assale sempre in una camera d'albergo, per bella che possa essere (e questa lo e' davvero): la sensazione di provvisorietà, di essere sempre in bilico fra realtà ed illusione, l'idea di solitudine che si fa palpabile.
In più ho tanti pensieri per la testa: alcuni sono tipici di questo periodo, altri sono tipicamente miei, altri infine sono maturati durante il viaggio e aspetto con un minimo di ansia il momento di chiarirmeli.
La sera ho voglia di tortellini. Girello per il centro di Bologna accostandomi a ristoranti e trattorie. Tutti sui cartelli esposti fuori, nei porticati, promettono pasta rigorosamente fatta in casa; ma ci sarà da fidarsi, o sarà roba surgelata per turisti americani? Non saprei come decidere, quindi mi faccio guidare dall'olfatto ed entro nella "Trattoria del biassanot", il mangia-notte, figura di nottambulo perdigiorno tipicamente felsinea immortalata dal grande Dino Sarti. Mi siedo a tavola, mi affido alla "reggitora" (la zdora), la offendo chiedendole spudoratamente se la pasta sia veramente fatta in casa, attendo che faccia il broncio di rito e le chiedo che sui tortellini che mi ha garantiti artigianali ci sia generoso ragù e forma. La zdora non batte ciglio - il cliente ha sempre ragione - mentre gli amici di Feisbuk cui partecipo la foto del piatto si scatenano in una ridda di considerazioni a sfondo gastro-filologico che mi fanno sorridere e non mi scompongono minimamente la pettinatura: il piatto e' buonissimo e il suo sapore, deciso e quasi violento nel ragù le cui asperità vengono ora esaltate dalla ruvidezza della pasta, ora ammorbidite dalla spolverata di parmigiano, mi riporta con struggente malinconia ai profumi mai dimenticati del sugo che la nonna Mariuccia preparava la domenica.
E' mentre sto sollevando la bocca dal fiero pasto, forbendola dal sugo del piatto ch'io avea in lungo e in largo guasto, mentre mi godo la piacevole sensazione di sazietà, è proprio in quel momento che a me, novello Conte Ugolino della Gherardesca, arriva la telefonata che stavo aspettando da qualche ora. Da un lato mi consola e mi da sorridere, dall'altro mi fa riflettere una volta di più sugli strani scherzi di un destino burlone e beffardo. Alzo gli occhi al cielo, scuoto la testa e penso che il Conte Ugolino di buona memoria invece di mangiare l'arcivescovo, avrebbe dovuto tirargli una buona testata in fronte, argomentazione che gradisco molto in questo periodo.
E più non penso, perché la serata e' calda, languida e stranamente silenziosa. La gioventù bolognese si aggira per le vie quasi intimidita dalla morbida sensualità che promana dai portici, dagli androni, dai cortili nascosti. E forse non c'è abituata, questa gioventù smarrita, e non sa cosa si perde a negarsi la gioia di un'atmosfera. Gli unici che sembrano aver capito questa strana sera sono tre o quattro ragazzi nordafricani, di dubbia provenienza; due di essi sono accucciati e hanno in testa un berretto che, ai miei occhi, assomiglia tanto alla kippah ebraica, ma decido di non farglielo notare. Sono fermi, quasi inscritti nell'architettura dei porticati pigri ed indolenti.
Rientro in albergo, saluto la concierge e mi informo sull'orario del breakfast mattutino. Mi sorride e mi chiede se voglio la sveglia, ricevendone un garbato diniego.
Non sa che non ne ho bisogno.
Io, l'insonne.

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