Ieri pomeriggio mi sono ritrovato in sala operatoria con Stefania a lottare - il termine non sembri esagerato - con la morte sotto forma di fiume rosso che usciva da ogni recesso dell'addome di L.A. Sembrava una di quelle scene che si vedono ogni tanto in "ER": sacche di sangue che vengono montate e svuotate in pochi minuti, braccia affondate nel sangue sino ai gomiti, l'angoscia di Stefania - un mostro, una leonessa indomita, una belva inferocita, la madre di tutte le anestesiste - che alza la voce e mi chiama, mi sveglia dal gesto tecnico che cerco di fare obbligandomi a tener presente la vita, quella per cui stiamo facendo la guerra: "Si sta arrestando", "Massaggiala!" - e io: "La controllo, non sta sanguinando"; e lei: "Fa' qualcosa, muore!"; e io, impaurito e impotente, che continuo a pressare garze nel retroperitoneo, che entro con la mano nel buco del diaframma e massaggio il cuore, che strappo via il rene per arrivare a quella maledetta vena stracciata, ripararla e pensare "Cazzo, ce l'ho fatta" e lei che ripete ancora "Non tiene la pressione! Non ho più sangue" e abbaia ordini secchi come frustate alla sua collega, agli infermieri, quasi che la sua autorità forte, commovente, possa avere il potere di invertire il corso del fiume inarrestabile.
Guido mi guarda e gli sembra strano che io resechi il colon sbattendomene dell'anastomosi, ma io non ci penso, il mio occhio corre al monitor, al tracciato della pressione, a quei valori che scendono. Continuo a "paccare" e il sangue si fa acqua, lei non coagula più, ma Stefania è indomita, il suo viso è splendente, duro come una roccia di basalto, i suoi occhi scintillano, ognuno di noi due ha in mano un pezzo di vita di L.A. ma è lei - piccola donna d'acciaio - a tenerci uniti in una corsa pazza e disperata, piena di forza e d'amore per la vita, in uno di quei momenti magici che danno un senso a tutte le nostre sofferenze quotidiane.
"No mas" dico, allontanandomi dal tavolo: mi guardo, sono completamente inzuppato di sangue, quel sangue che è uscito da L.A. e che ho cercato con tutto me stesso di lasciare dentro al suo corpo. Il monitor ticchetta rapido, Stefania lo guarda, poi ci guardiamo sconsolati: non sappiamo se ce la farà, è più no che sì.
Esco dall'ospedale e la sera inoltrata mi avvolge come una coperta pesante; so che non riuscirò mai ad addormentarmi, stanotte.
E' proprio così. Io sono a casa ma il mio pensiero è lì, in recovery. Accanto a L.A. adesso c'è un'altra Stefania, che si prende amorevolmente cura di lei; passa tutta la notte accanto e non stacca mai. All'una mi viene il pensiero che forse la paziente è ancora sulla barella spinale e telefono, mi risponde la Stefania della notte, l'angelo biondo dal sorriso tenero e rassicurante: no, la spinale l'ha già tolta, ma L.A. sta perdendo ancora. Anche lei insegue, passa la notte a riempire, rifornire, dare massa, quella massa che lentamente rimpiazza e cerca di trovarsi la strada nelle vene esangui. C'è anche Laura che veglia, che osserva, che rassicura, ma è Stefania che - con la calma dei forti - guida amorevolmente i liquidi nel corpo ancora aperto, che disperde assieme ai liquidi anche le nostre speranze.
Al mattino L.A. è viva. Il suo corpo martoriato ha reagito. Stefania della notte è disfatta, ci incontriamo di sfuggita al mattino. L'altra Stefania - l'indomita lottatrice con cui ho fatto la guerra del pomeriggio - e io ci sentiamo per telefono, siamo commossi, tratteniamo a stento le lacrime: ecchecazzo, ce l'abbiamo fatta.
Mi torna in mente il mio vecchio amico Massimo con il quale ho scambiato un caffé una mattina dopo una notte di guardia. Lui era disfatto e io gli chiesi: "Com'è andata?". Lui, sorridendo, un lampo di malizia negli occhi: "E' stata dura, ma abbiamo vinto noi".
Il sollievo è un fiume di acqua dolce, calda, tropicale.
Be', che dici Stefania?
Per una volta abbiamo vinto noi.
Grandissimi, Piè!
RispondiEliminaAnche se continuo a pensare che il tuo sia un lavoro di merda... :-)
Con affetto,
Ste