mercoledì 11 agosto 2010

Il concetto di crisi nell'eroismo quotidiano


Cosa mi affascina in Simenon?

Essenzialmente due aspetti:

- l - la capacità di dipingere vicende che hanno per protagonista l’uomo comune alle prese con le proprie crisi

- l- la capacità di spostare con un tratto appena percettibile la prospettiva da cui ci aveva obbligato, sino ad un certo punto, a considerare i suoi personaggi

Per quanto riguarda il primo punto, è qualcosa che si percepisce benissimo anche nelle inchieste di Maigret, il suo personaggio più famoso, quello con cui solitamente si familiarizza al primo approccio con lo scrittore belga. Maigret, uomo comune alle prese con le proprie inquietudini e incertezze, è l’antitesi dei protagonisti dei grandi romanzi hard-boyled di Dashiell Hammett e Raymond Chandler; ama farsi permeare dall’ambiente in cui è maturato il delitto su cui indaga, in modo da arrivare egli stesso ad esserne parte; indaga sulla vittima più che sull’assassino, la scoperta del quale arriverà in modo inevitabile e talvolta quasi casuale.

Per quanto riguarda il secondo aspetto – che Simenon condivide con un altro grande scrittore, anche se di area geografico-culturale diversa come William Somerset Maugham – è una prospettiva veramente affascinante ma non gratuita. Le mutazioni che portano i personaggi alle rivoluzioni che ne modificano la prospettiva sono, per lo più, delle crisi profonde nelle quali Simenon entra con precisione chirurgica.

Cos’è una crisi?

È la consapevolezza di un disallineamento di noi stessi all’ambiente che ci circonda: famiglia, lavoro, società.

Alla crisi possiamo reagire essenzialmente in due modi: assorbendola all’interno del cuore, del nucleo più profondo di noi stessi; oppure fare in modo che esploda e lasciando che le conseguenze di ciò distruggano tutto ciò che trovano sul loro cammino.

Ne “L’orologiaio di Everton” la crisi coinvolge tre generazioni successive: il nonno e il padre la assorbono, il figlio la fa esplodere in modo dirompente uccidendo un uomo quasi per caso e scatenando su se stesso e la sua fidanzatina una caccia all’uomo non diversa da quella che braccò Bonnie Parker e Clyde Barrow.

Ne “La verità su Bébé Donge” la protagonista, una giovane donna madre di famiglia, benestante, raffinata e apparentemente un po’ svampita versa una generosa dose di arsenico nel bicchiere del marito nel bel mezzo di una festa di famiglia.

Perché lo fanno? Per uscire dagli schemi? Per segnalare al mondo la propria esistenza?

No, lo fanno perché non hanno scelta, perché hanno raggiunto una consapevolezza superiore di se stessi, del loro definitivo distacco da una realtà che non li può più contenere. È una prospettiva affascinante, ricca di implicazioni e tristissima sul futuro di un’umanità dolente che non ha più nessuna possibilità di riscatto se non nella ribellione al conformismo da anime morte in cui chiunque di noi, a vario livello, è calato.

Nella maggior parte dei casi la crisi viene riassorbita da chi la vive: è più semplice e, alla fine dei conti, porta a meno complicazioni per noi stessi e per chi ci circonda. Ma ogni tanto esplode, nonostante tutto e contro tutto, trasformando ciascuno di noi che la vive in un eroe romanzesco, positivo o negativo che sia poco conta. Oppure, forse, eroe è colui che riesce a riassorbire la crisi in sé, evitandone la deflagrazione potenzialmente distruttiva.

Leggere le vicende della quotidianità alla luce di queste considerazioni ci permetterebbe di valutare in modo più pertinente anche alcuni eventi che non avrebbero molte spiegazioni, ma ci obbligherebbe anche ad annusare con attenzione la cocacola che ci viene servita dal(la) consorte sorridente e che siamo abituati a considerare apparentemente felice: non è che dobbiamo aspettarci necessariamente l’arsenico, però…

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