Oggi umore alterno, legato probabilmente al tempo variabile.
Prendo il “Corriere” e lo sfoglio con indifferenza, cominciando dalla fine, ove si allocano le pagine sportive: la cronaca politica attuale non giustificherebbe un inizio diverso. Ed è così che capito sui necrologi.
Perché dovremmo leggere i necrologi?
Per un desiderio inconscio e morboso di dimostrare a noi stessi che noi ci siamo ancora mentre qualcuno non c'è più?
Per vedere se è mancato qualcuno di nostra conoscenza?
Non so, ma fatto sta che ci vado sopra e l'occhio mi cade su questo (il testo è copiato parola per parola, ma i nomi sono di fantasia):
“Mia Margherita adorata, gioia dei miei occhi, mio grande amore, tesoro bello, ti scrivo per l'ultima volta con tanto dolore. Mi chiedo come potrò vivere senza di te, che sei stata la compagna della mia vita. Insieme abbiamo vissuto sessantacinque anni di amore affettuoso, felice e sereno. Sei stata moglie, madre e nonna affettuosa, sempre bella ed elegante, disponibile ed allegra anche quando hai dovuto affrontare prove difficili. Chi ti ha conosciuta non poteva non volerti bene. È stato bello tenerti per mano tutta la vita, ci piaceva così tanto tenerci la mano e te l'ho voluta stringere anche quando mi hai lasciato. Grazie per tutto l'amore che mi hai dato e per la famiglia meravigliosa che abbiamo costruito. Spero che troverò la forza nei ricordi meravigliosi della nostra vita per continuare a vivere, nella serena speranza di riaverti vicino nel mondo che aspettiamo. Ti amo, ti adoro. Tuo Artemio”.
Chi sono Margherita e Artemio?
Sessantacinque anni d'amore, è l'amore folle: Jacques Brel si accontentò di venti – e infedeli – per descrivere una delle più belle storie d'amore di cui si conservi memoria. Dunque, facendo due conti questi due signori si sono amati sin dalla fine della seconda guerra mondiale.
Mi siedo su una panchina sul Lungomare Crocetta di Celle Ligure. Il mare è appena increspato dal vento che, assieme alle nubi, vuole raccontarmi una storia.
Cerco di resistere un po', inseguendo i miei pensieri, ma non ce la faccio.
Ascolto.
Il posto è vicino al lago Maggiore, in una di quelle località dove, specie a quei tempi, si conoscevano tutti. Margherita e Artemio si vedevano già sin da ragazzini, a varie riprese.
Artemio si era dovuto allontanare da B.; era stato preso in una retata e internato in uno di quei posti oltre confine, in Germania o in Polonia, da cui non si tornava indietro. Invece la forza dell'amore per Margherita aveva avuto il sopravvento e, dopo il 25 aprile, Artemio era tornato indietro: a piedi, affamato, emaciato, piegato dagli stenti e dalla disperazione per la morte di tutti gli amici che non erano riusciti a tornare, che non ce l'avevano fatta. Lui era stato più fortunato, ma aveva qualcosa in cui credere, un'idea che l'aveva tenuto vivo contro ogni disperazione, anche quando non ce la faceva più: Margherita.
Sapeva che l'aveva aspettato, anche se non s'erano parlati, anche se non avevano nemmeno fatto in tempo a salutarsi, perché i tedeschi li avevano rastrellati e li avevano portati a Milano e caricati sul treno. Non ce l'avevano fatta a salutarsi, ma lui sapeva che la signorina Margherita l'avrebbe aspettato.
Margherita! Si conoscevano sin da quando erano piccoli, dicevamo, ma sarebbe più esatto dire che si vedevano perché lui era il figlio del magnano di B. e imparava a riparare le caldaie, mentre lei era la signorina Margherita, la figlia del Conte V. che aveva fatto le “scuole alte” a Verbania e che sarebbe andata all'Università a studiare Lettere per diventare professoressa. Se solo non ci fosse stata la guerra...
La vedeva spesso vicina al lungolago con un libro in mano, ed era sempre vestita bene, mentre lui sembrava uno straccione con i vestiti del lavoro, ma quel giorno lei alzò quei suoi dannati occhi neri e guardò i suoi avambracci abbronzati, e sorrise con quel sorriso così bello e buono da sembrare sovrumano, che sembrava che il Padreterno l'avesse mandata sulla Terra ad assolvere l'umanità di tutti i suoi peccati.
Artemio si era innamorato al primo sguardo di quegli occhi da pazza, neri come l'ala del corvo, che lo scrutavano sino al fondo dell'anima e di cui aveva una soggezione tremenda, se non fosse che la loro violenza era smentita dalla dolcezza immensa di quel sorriso tenero, ampio, infinito.
Era per lui quel sorriso? Lo pensò fermando la bicicletta vicino alla panchina del lungolago su cui era seduta. Era istupidito, la conosceva di vista sin da quando erano ragazzini ma pensò di non aver mai visto niente di più bello, struggente e commovente al mondo.
Lei aveva alzato il naso, piccolo ma lievemente aquilino e gli aveva parlato con la sua voce profonda:
“Non si usa più salutare?”
“Io...scusatemi”, aveva farfugliato Artemio in risposta.
Margherita era scoppiata a ridere:
“Artemio! Ci conosciamo da quando siamo piccoli. Possiamo darci del tu, non credi?”
“Scusatemi – aveva ripetuto imbarazzatissimo il ragazzo – E' da tanto tempo che non vi vedo”
“Lo so. Sono stata per cinque anni in un collegio svizzero perché il mio babbo ha ritenuto utile darmi una educazione che qui non sarei riuscita ad avere. Adesso sono pronta per l'università. E tu che hai fatto in questi anni?”
Lui aveva contemplato i suoi stracci e la sua bicicletta arrugginita, poi aveva allargato le braccia:
“Non molto. Ho lavorato. Oggi ho riparato la caldaia a casa vostra”
“Sei riuscito ad evitare l'esercito?”
“Sinora sì. Sono ancora troppo giovane, ma non so per quanto ancora mi terranno fuori”
Artemio, quasi inconsapevolmente, aveva lasciato cadere la bicicletta e si era avvicinato alla panchina. Margherita si era lievemente spostata per dargli un po' di spazio. Lui non ne aveva approfittato e si era seduto sul bordo esterno della panchina, come se la vicinanza con lui potesse sporcare la bellezza sovrumana di quella ragazza che conosceva da sempre, ma che gli sembrava di vedere per la prima volta.
Per parte sua, la ragazza era divertita dall'imbarazzo di quel giovane forte ma taciturno. Lo guardava con aria di sfida, con i suoi occhi neri incredibili, conscia del potere che esercitavano su di lui.
Era cominciata così.
E, loro non lo sapevano ancora, sarebbe durata sessantacinque anni.
Naturalmente a casa V. nessuno aveva preso bene l'infatuazione di Margherita per Artemio, di estrazione troppo bassa per una signorina così elevata:
“Ti farà fare una vita da serva!”, le urlava contro il padre furioso.
“Non importa”, ribatteva lei cocciuta.
“Dovrai rinunciare all'Università: non potrà mantenerti agli studi e, se lo sposi, io ti diseredo”
“Come volete voi”, ribatteva lei girando i tacchi.
Poi c'era stato tutto il grosso pasticcio della guerra e l'Università era sembrato il minore dei problemi.
E poi c'era stata la cattura di Artemio insieme ad altri giovani che s'erano lasciati tentare dall'idea di andare in montagna. I tedeschi non c'erano andati troppo per il sottile e li avevano caricati sul primo carro bestiame in partenza per chissà dove dalla Stazione Centrale di Milano.
Margherita, quando l'aveva saputo, aveva abbassato gli occhi e si era legata con un nastro i lunghi capelli neri, che il suo Artemio amava accarezzare con timidezza. Giurò a se stessa che li avrebbe sciolti nuovamente solo quando Artemio fosse tornato.
Il lago luccicava per la primavera e Margherita era lì, alle porte del paese insieme a tante altre ragazze che avevano visto partire i loro morosi. Non molti erano tornati indietro, ma loro aspettavano tutte perché non potevano essere sicure. Certo, è vero che non avevano ricevuto lettere, ma questo non voleva dire perché erano anni difficili e la posta non veniva sempre recapitata.
Lei vide Artemio in fondo alla strada: l'aveva riconosciuto subito, anche se pesava circa 30 chili meno di quando era partito. Sembrava un vecchietto, tossiva e non riusciva quasi a stare in piedi, ma lei stabilì che se ne sarebbe presa cura e gli avrebbe ridato la vita che gli altri gli avevano rubato.
Gli corse incontro, chiamandolo per nome e sciogliendosi i capelli al vento: non sembrava per niente l'altera signorina V. che tanta soggezione aveva messo nel cuore del giovane caldaista scarmigliato in bicicletta. Margherita correva gridando fra le lacrime il nome dell'amato e tutti quelli che le furono amici anche negli anni a seguire giurarono che fu l'unica volta in cui la videro fuori di sé, ma il vento le scarmigliava i capelli neri e spessi come l'ala di corvo che lei liberava dal nastro scuro, e i suoi occhi – quegli occhi scuri e da pazza che tanto avevano fatto innamorare Artemio – piangevano senza ritegno mentre lei gli gettava le braccia al collo, e lo buttava per terra, e lo baciava disperatamente davanti a tutti, dicessero pure quello che volevano, questo è mio marito e io sarà sua moglie. Diseredata e senza università.
Il vento soffia violento e mi schiaffeggia, quasi voglia risvegliarmi. Il “Corriere” sventaglia sulle mie gambe, allontanando dalla mia vista la pagina del necrologio.
Penso ad Artemio: come sarà la sua vita senza la donna che aveva sciolto i suoi capelli al vento dell'Aprile il giorno che lui era tornato a casa? Esiste davvero ancora un amore così pazzo e disperato?
La mattina è triste e scura. Il vento di grecale porta nuvole spesse nel cielo sopra me.
Nessun commento:
Posta un commento