lunedì 8 marzo 2010

Dei delitti e delle pene



Sette omicidi (ma probabilmente sono dieci), quattro dei quali attribuiti direttamente alla sua mano; in uno di questi, la testa della vittima decapitata è stata usata dal suo assassino per giocare a pallone.
Innumerevoli rapine, sequestri di persona, evasioni multiple, con i più fantasiosi stratagemmi (iniezioni endovenose di urine e forse di sangue infetto per guadagnare un'epatite e, quindi, un ricovero in ospedale da dove è più agevole scappare).
Condanne per complessivi 4 ergastoli e - a mo' di giunta - 260 anni supplementari di carcere; non gli basterebbero 10 vite per smaltire tutto un debito di entità così massiccia, ma tutto questo non è bastato a blindare definitivamente dietro le sbarre uno dei criminali più efferati che la storia recente di questo Paese schifoso abbia conosciuto.
Signore e signori, da oggi Renato Vallanzasca - dopo appena 40 anni - può uscire almeno parzialmente dal gabbio ed andare a lavorare in qualche cooperativa: giustizia, tanto per cambiare, non è fatta, con buona pace di chi farnetica della sicurezza della pena.
Si ha un bel dire che il carcere deve servire a correggere, a redimere, a dare una nuova chance, ma che possibilità di redenzione ci possono essere per un assassino che palleggia con la testa di una vittima appena decapitata prima di scaraventarla nella porta avversaria?
Potremo stare a discutere mesi e mesi su quanta colpa ci sia nella società corrotta e indifferente che ha prodotto un Vallanzasca, e probabilmente non arriveremmo mai ad una soluzione che ci renda soddisfatti, perché comunque non capiremmo dove finiamo noi e dove inizia lui. E comunque, in fondo, poco conta: la Legge violata, tradita e stuprata, sa sempre perdonare e dare un'altra chance a personaggi come Vallanzasca, talmente amati da essere oggetto di decine di richieste di grazia degli intellettuali e di migliaia di lettere d'amore, grazie al fascino torbido del malavitoso che sfida il mondo che lo circonda.
E' un eroe dei nostri tempi?
No. E' un miserabile povero piccolo coglione borioso che ha fatto strame della propria vita e di quella altrui con un'indifferenza agghiacciante che, in un Paese civile, gli avrebbe garantito ben altra sorte, con buona pace di quel Cesare Beccaria di cui - nel titolo - ho voluto rievocare l'opera più famosa, e che ha dato il proprio nome all'Istituto in cui il piccolo ras della Comasina ha iniziato la propria carriera di carcerato. L'unica carriera che è stato in grado di fare

1 commento:

  1. Mi scoccia non poco ammetterlo, caro Pietro, Amico mio. Ma questa volta, forse più che in altre, devo ammettere di pensarla come te. Forse sono stanco... Forse malato...
    Un abbraccio. Sei sempre grande.
    Stefano (quello grasso e pelato come te...)

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