venerdì 18 febbraio 2011

Io in un faldone

Dopo tanti anni passati a fare questo strano lavoro.
Dopo mille e più volte che ho impugnato quell'aggeggio che mi è servito a farmi strada in situazioni innominabili.
Dopo aver provato sulla mia pelle, nel mio cuore e nella mia anima il significato della sofferenza altrui, la difficoltà della partecipazione di una diagnosi difficile, di giudizi clinici che ogni tanto sembravano condanne e che qualche volta pesavano più di un macigno.
Dopo aver pianto e gioito con pazienti che, nel mio cuore, col passare degli anni sembravano sempre più amici o fratelli.
Dopo tutto, oggi è arrivato anche per me il momento di sedermi a un tavolo, di fronte a due persone giovani, dinamiche e sorridenti, che parlano un linguaggio difficile che non è il mio, fatto di sigle che non sono le mie, ma che mi fanno domande su questioni che invece sono proprio le mie.
E al centro del tavolo intorno al quale siamo seduti, in un vecchio salotto di un vecchio studio nel centro di Milano, al centro esatto di questa mia vita, c'è un faldone con su il mio nome sul dorso, ed è pieno di documenti, e quel faldone contiene una vicenda che ha fatto parte solo marginalmente del mio passato ma che potrebbe condizionare il mio futuro.
Ecco: se penso a tutta questa vicenda, ciò che maggiormente mi angoscia non è la sensazione d'impotenza davanti alle falsità costruite ad arte da un ignorante che solo nominalmente fa il mio mestiere, né l'idea di essere stato trascinato ingiustamente in qualcosa che non ho controllato io; no, ciò che maggiormente mi sgomenta è l'idea che la mia vita sia un faldone di carte, appoggiato su un tavolo

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