domenica 21 novembre 2010

Oh Signore, questa notte guida le mie mani

Nel corridoio che nel mio Istituto collega le scale mobili con la buvette c'è una libreria dove si vendono libri usati a metà del prezzo di copertina; il ricavato va in beneficenza per la Fondazione che ha lo stesso nome del mio Ospedale. Ci passo davanti tutti i giorni e non ci faccio quasi caso; è stato Vittorio che ha alzato il dito della mano destra indicando una copertina rilegata in primo piano:
"Guarda lì", m'ha detto.
Ho alzato il naso e sono rimasto fulminato nel vedere un volto sorridente  che conosco molto bene, perchè è stato il primo vero eroe - forse l'unico - della mia gioventù; il libro era la sua autobiografia. Sono entrato come un fulmine: il volume, praticamente intonso, portava il prezzo ancora in lire, 3000, al cambio circa 1 euro e 50, la cui metà è 75 centesimi. Ho estratto dal portafoglio un deca senza chiedere il resto e l'ho fatto per due ragioni: la prima è ovviamente la beneficenza, ma la seconda è che mi dispiaceva pagare così poco per leggere il racconto della vita di un autentico pioniere, uno di quegli uomini che, con la loro audacia, hanno veramente cambiato la storia dell'Umanità.

Il luogo è Città del Capo, Sudafrica.
La data è il 3 dicembre 1967.
Il teatro si chiama Groote Schuur e in afrikaaner significa "Grande granaio": è un ospedale, una cittadella della salute e vi si curano bianchi e coloured, anche se questi ultimi hanno ingressi separati: siamo in pieno apartheid, ma questo è un altro pezzo di storia.
In un'unità di Terapia Intensiva di questo grande ospedale giace Louis Washkansky, di 53 anni, affetto da cardiomiopatia dilatativa e con un'unica speranza: un intervento che nessuno ha mai matto, un'idea pazza e disperata, quella di sostituire il suo cuore ammalato con un altro cuore.
Solo che, perché lui viva, qualcuno deve morire; ed è quello che sta succedendo in un altro punto dell'ospedale. 
In un altro letto di Rianimazione i medici tengono artificialmente in vita una ragazza che è stata coinvolta in un incidente stradale; il suo cuore, così prezioso, batte ancora, ma è un nonsenso, perché non c'è più nessuna vita da alimentare: la ragazza è clinicamente morta. Il suo nome è Denise Darvall.
I destini di queste due esseri umani che non si conoscono verranno uniti, in una notte interminabile, da un chirurgo sudafricano di 45 anni che, mentre aspetta di entrare in sala operatoria, si fa la doccia e intanto prega. Il suo nome è Christiaan Barnard: ha studiato tutta la vita per arrivare a quel momento, ma è terrorizzato dall'enormità di quello che si appresta a fare:
Oh Signore, ti prego, guida stasera le mie mani...
Mantienile libere dall'errore
Così come mi hai liberato dal dubbio
Mostrandomi la strada
Affinché io operi al meglio delle mie possibilità
Operi a vantaggio di quest'uomo
Che ha messo la sua vita 
Nelle mie mani


Due sale operatorie comunicanti.
In una si consuma il sacrificio di Denise. 
Marius, fratello di Chris e numero due della squadra, è sul donatore. E' affranto: "Che vergogna - dice - stiamo uccidendo un cuore". Il cuore, organo magico, sede dell'anima, l'origine del moto perpetuo della vita.
L'équipe è presa dall'angoscia di violare qualcosa di sacro, e che l'Asso di Picche, la Morte, il vecchio nemico sia lì sorridente ad aspettare nella sala operatoria l'uomo che, come Ulisse, sta commettendo il più grande peccato di superbia che si possa immaginare, quello che il chirurgo cerca di commettere ogni giorno: fermare la morte, violando le Colonne d'Ercole del corpo umano. Ma è troppo tardi per ripensarci.
Nella sala accanto, legato a Denise quasi da un cordone ombelicale, Louis Washkanski aspetta col torace aperto, col cuore che si muove incoordinato come un mare in tempesta.
La squadra guidata da Chris va avanti come un fiume in piena, fra le mille difficoltà dell'ignoto, ma alla fine il piccolo cuore di Denise riprende a battere nell'ampio torace di Louis.
Il primo uomo trapiantato sopravvivrà poco: morirà per una polmonite dopo appena 19 giorni. Ma la strada era stata tracciata quella notte di oltre quarant'anni fa, in una sala operatoria del "Grande granaio"


Se dovessi fare un elenco di uomini straordinari nel campo della Chirurgia, probabilmente sarebbe molto ristretto: Thomas Starzl, Paul Sugarbaker, Leandro Gennari e, appunto, Christiaan Barnard.
Ognuno, a proprio modo, è stato un pioniere e ognuno, a proprio modo, ha scritto un capitolo fondamentale della Storia di quest'arte meravigliosa, terribile e affascinante.
Barnard ha probabilmente avuto qualcosa in più: il fatto di aver affrontato una prova così incredibile nel Sudafrica della fine degli Anni Sessanta, all'alba dell'immunosoppressione, con mezzi giudicabili oggi di fortuna; il fatto di aver sostituito il cuore, quella che in fondo tutti noi ancora oggi consideriamo la sede della nostra anima, forse perché dà il ritmo incessante alla nostra stessa esistenza; l'estrema spregiudicatezza pur di arrivare alla destinazione; il fascino di un divo del cinema, che lo portò a dissipare la credibilità scientifica nel bel mondo, accanto a donne sempre diverse e sempre più giovani. E poi, il lento declino, inseguendo idee sempre più folli, devastato dall'artrite reumatoide che lo colpì nelle mani, il simbolo stesso del suo lavoro. Quelle mani con le quali, in una notte pazza e disperata, aveva sfidato la Natura e fatto battere il cuore di una donna morta nel petto di un altro essere vivente.

Ho provato a chiedere a Giacomo, mio figlio, di 13 anni, se il nome di Christiaan Barnard gli dicesse qualcosa, ma mi ha risposto sorridendo di no; ne sono rimasto un po' sgomento perché, alla sua età, per me quel nome era già leggenda.
Lo è ancora

4 commenti:

  1. La chirurgia un'"arte"? Può spiegare in che senso?

    Mi pare un po' bizzarra e cinica come idea... ma forse ho capito male.

    Saluti

    Francesco Flavio

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  2. Non so cosa tu abbia capito, ma proverò a chiarire il concetto, citando da una sorgente a disposizione di tutti: Wikipedia.
    Arte: L'arte, nel suo significato più ampio, comprende ogni attività umana - svolta singolarmente o collettivamente - che porta a forme creative di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall'esperienza.
    L'arte può essere considerata anche sotto l'aspetto di una professione di antica tradizione svolta nell'osservanza di alcuni canoni codificati nel tempo.

    Quindi, se elimini l'idea di "estetica" (a meno che non la conservi nel senso etimologico di "percezione"), ci ritrovi la definizione di qualunque lavoro svolto da una persona che detto lavoro ama; come nel mio caso.
    Nella chirurgia, lavoro di testa e cuore non meno che manuale, non c'è solo la ripetizione di gesti codificati da altri; c'è anche una notevole componente creativa, che è quella che rende ragione dell'evoluzione del modo di curare un essere umano, altrimenti ancora potenzialmente fermo all'invocazione sciamanica.
    Christiaan Barnard è partito dal lavoro degli altri, vi ha messo una notevole componente di propria sensibilità e creatività.
    Non so come la chiami tu; questa per me è arte.
    Saluti

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  3. "L'arte può essere considerata anche sotto l'aspetto di una professione di antica tradizione svolta nell'osservanza di alcuni canoni codificati nel tempo."

    In questa accezione, sono d'accordo che la chirurgia possa definirsi "arte": arte nel senso di "tecnica", nel senso di "mestiere". E in ogni mestiere è normale che ci sia una personale componente creativa.

    Il medico però, prima di essere "artista", per me deve essere una specie di "missionario"... curare la gente è prima di tutto una missione, secondo me. E non è da tutti...

    Grazie, saluti

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  4. No.
    Missionario proprio no.
    Basta con questa parola.
    Io dal mio lavoro ricavo quello che mi serve per il pane e anche per la marmellata, se così mi gira; la mia posizione, il mio ruolo, le mie competenze maturate in vent'anni di duro lavoro mi consentono anche questi piccoli vantaggi cui non ho nessuna intenzione di rinunciare.
    Cosa ti fa credere che il medico debba essere un missionario? Per portarsi a casa ancora più di quanto già non si porti della propria vita lavorativa?
    Hai idea di quante ore io mi passo in ospedale, amico mio? Mai meno di 10, e spesso sono di più. E spesso anche di notte
    Hai idea delle notti in bianco che mi sono passato - e che mi passo tuttora - quando c'è un paziente che mi coinvolge emotivamente in modo particolare, oppure quando le cose non vanno come vorrei che andassero?
    E vorresti anche che questa fosse una missione? No. E' un lavoro. Il lavoro più bello del mondo. Non potrei fare niente di diverso nella mia vita, nonostante tutti i patemi, le angosce, la stanchezza. Ma non è una missione; non lo faccio gratis. Mi faccio pagare, di base. Poi, certo, spesso visito anche gratuitamente, ma sono un professionista come chiunque altro.
    Tu sei avvocato? Non è forse una missione difendere quelli che sono ingiustamente accusati? Però ti fai pagare: nessuno direbbe di te che sei un missionario.
    Tu sei un prestinaio? Non è forse una missione svegliarsi alle 3 per preparare il pane? Però ti fai pagare: nessuno direbbe di te che sei un missionario.
    Potrei continuare a lungo, ma mi sembra che il discorso sia chiaro, per cui per favore: basta con questa demagogia spicciola che sembra scritta da De Amicis: io NON sono un missionario. Sono un professionista come te, come chiunque altro; il mio lavoro mi costringe spesso a dimenticarmi di avere una famiglia e un letto dove dormire; lo faccio volentieri perché così ho scelto di fare, spesso lo faccio gratis per chi non si può permettere il costo di una visita, ma lo faccio fondamentalmente per soldi come chiunque altro

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