mercoledì 3 luglio 2013

E se tornasse davvero?...

Ogni tanto - specie in vacanza - mi lascio convincere dal tamtam pubblicitario dei libri best seller. Questa volta mi sono fatto convincere anche dalle insistenze del solito Barba che è uno che raramente si fa infinocchiare dalle suggestioni mediatiche, vuoi perché scaltro di suo, vuoi perché addetto ai lavori; e così ho scaricato sul mio Kindle "Lui è tornato", di Timur Vermes, edito in Italia da Bompiani, caso editoriale dell'anno.
Il plot narrativo è apparentemente piuttosto semplice, e già esperito da altri narratori (si pensi a Woody Allen con "Il dormiglione").
In sintesi: Hitler non è morto, ma è rimasto come ibernato per una settantina d'anni. Si risveglia improvvisamente, puzza ancora di tutta la benzina che gli hanno versato addosso. Smarrimento: non c'è più Eva, non c'è più il bunker, non ci sono né Bormann né Goebbels, soprattutto non c'è più la "sua" Berlino.
Che fare?
Non si è stati il Fuhrer per nulla, no?
Ecco che il nostro si industria, con sagacia e coerenza, a ricominciare da dove aveva finito, senza deflettere di una virgola dal suo vecchio piano di battaglia, dalle sue idee (antisemitismo in primis) e dalle sue mire espansionistiche, naturale filiazione del pangermanesimo che lo aveva prodotto.
La sua intelligenza e scaltrezza lo portano ad assimilare in fretta le nuove tecnologie: dalla televisione, di cui capisce rapidissimamente le potenzialità comunicative; al computer con tutte le sue declinazioni, da Internet a Youtube e forse anche Facebook.
La sua profondissima conoscenza della psiche della gente lo porta a toccare immediatamente i nervi scoperti dei suoi "nuovi" contemporanei, con un successo inimmaginabile.
La gente come lo prende?
Sul ridere.
Inizialmente Hitler è l'ospite surreale, grottesco e un filo démodé di una trasmissione condotta da un turco: i suoi interventi vengono male interpretati e fanno ridere il distratto pubblico berlinese.
Il successo è travolgente, e stupisce persino l'anziano leader. La gente lo prende in simpatia; e, particolare inquietante, lo prende in simpatia anche il lettore, anche se la questione ebraica è - diciamocelo - un filo scomoda, come gli ricorda la manager della rete televisiva che lo ha assunto.
Sinché...

Ecco, se devo dire la verità all'inizio non m'ha acchiappato e l'ho detto anche al Barba.
Essendo preparato anche dai commenti su Internet a un libro grottesco, l'ho trovato ben poco spassoso su questo specifico fronte, eccetto che in qualche inciso divertente soprattutto all'inizio, quando cioè Adolf si trova a confrontarsi con un mondo che non è più il suo, che non capisce e a cui fa fatica a prendere le misure.
Ma poi il libro cambia marcia.
Hitler è velocissimo nel capire il mondo che lo circonda, a mascherarsi, a sfumare, ad adattarvisi come un camaleonte. 
L'anziano dittatore non cambia di una virgola le sue idee; semplicemente trova il modo giusto di esporle, quello che le renda prima assimilabili, poi ambibili ai suoi nuovi contemporanei.
Terribile è l'episodio in cui riesce a convincere la nonna della sua segretaria. L'anziana signora, ebrea, che da bambina aveva visto la famiglia sterminata in un campo di concentramento, accetta non solo di confrontarsi con chi le aveva devastato la vita allora, ma addirittura di farsi convincere a "prestare"a Hitler la nipote per fargli da segretaria. E Hitler non ha nessun dubbio sulle proprie capacità di convincerla...

Ecco, questa è la vera chiave di lettura di un romanzo interessante, ricco di spunti e profondissimo, molto più acuto di quanto lascia intendere la superficie.
Il libro vive di un pessimismo profondo nei confronti dell'umanità, potenzialmente sempre pronta a farsi abbindolare dal nuovo iddio, purché abbia le parole giuste nel momento giusto.
Hitler lo spiega a Vera, la segretaria: "Crede che averi potuto fare tutto quello che ho fatto se non mi avessero creduto?".
Lui si era limitato a "leggere" - con eccezionale sagacia - nei bisogni della gente, soprattutto nell'eterna, immutevole necessità della stessa umanità di trovare un colpevole purchessia di tutto il male che ci circonda.
La gente prima lo aveva preso sul ridere.
Poi lo aveva rispettato.
Poi ci aveva creduto, sino al fanatismo.
Vermes, senza nessun atteggiamento nostalgico, ma con acuto senso dell'osservazione, fa una palingenesi inquietante e si ferma su quello che potrebbe essere nuovo "punto di partenza", che lascia l'amaro in bocca perché non c'è niente di strano o di disumano nella Berlino che circonda questo strano personaggio piombato inaspettato da una Storia che sembrava averlo ormai fagocitato e digerito.
A volte ritornano? Può essere.
Il problema è: riusciremmo oggi a evitare gli errori (e gli orrori) del passato? O corriamo il rischio di essere ancora una volta troppo superficiali?
Ormai è scientificamente appurato: ognuno di noi corre il rischio di dimenticare il proprio figlio in macchina, anche se nessuno pensa che possa mai capitare proprio a lui...
Libro davvero inquietante

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