Amo molto i film horror, ma è un genere nel quale sono molto esigente. Per esempio, non mi piace lo splatter dei mostri con la bava verde. Amo la cruda essenzialità del bianco e nero de "La notte dei morti viventi" (George A. Romero, 1968), che mi richiama il romanticismo di antichi capolavori come "London after midnight" (con Lon Chaney, 1927) o certe sequenze de "La casa" (Sam Raimi, 1981); per esempio quella in cui la pendola che si ferma, dando inizio all'orrore, viene ripresa dal di dentro
Qual'è l'horror ideale?
Qual'è l'horror ideale?
Secondo me, la trasposizione in una vicenda fuori dal comune di elementi che fanno parte della nostra vita quotidiana e che, normalmente, non ci farebbero paura. Vista in quest'ottica, il miglior horror recente è "The Others", che vive di un equivoco genialmente proposto dal regista e in cui lo spettatore meno smaliziato (io, per esempio) casca come una pera. Ma l'horror per me più inquietante è quello di cui sto per parlarvi, che ho cercato a lungo senza trovarne traccia se non nei ricordi degli appassionati come me che, però, non ne ricordavano i riferimenti. Non era facile, in effetti, perché era un film tv e all'epoca mancavano ancora i database con cui oggi abbiamo maggiore confidenza.
Eravamo nei primi Anni Ottanta. Per una serie di combinazioni, mi ritrovai una sera da solo a casa e mi imbattei, zappando, in un film in tre parti di cui mi ero perso le prime due. Non sapevo quindi il titolo del tutto, ma solo della parte che mi accingevo a vedere: aveva a che fare con un feticcio di un guerriero Zuni che la protagonista, antropologa, oppressa da una madre possessiva, avrebbe regalato al fidanzato. Un avviso su un cartiglio nella scatola in cui la statuetta era contenuta metteva in guardia: attenzione a non togliere la catenina intorno al feticcio, che ne tiene imbrigliata l'anima. E invece, un movimento troppo brusco fa cadere la catenina e il feticcio, afferrato un coltellaccio da cucina, diventa una macchina di morte.
In ciò non ci sarebbe nulla di particolarmente interessante rispetto alle tante "bambole assassine" dei b-movies horror di quegli anni; ciò che invece è inquietante è il finale.
Amelia, la protagonista, butta nel forno il feticcio che prende fuoco urlando disperatamente. Tutto finito? No, perché la poco furba antropologa apre il forno e una vampata - che in sé ha ancora l'eco dell'urlo del feticcio - le avvolge la faccia.
Nella scena successiva Amelia parla al telefono con la madre, invitandola a casa sua; il regista non la inquadra mai di fronte, ma sempre di spalle o di taglio. Al termine della conversazione, la ragazza frantumerà il telefono "appoggiando" la cornetta sulla forcella.
Nella scena finale Amelia aspetta la mamma, acquattata dietro la porta...
Devo a questo finale alcune delle mie prime, vere notti insonni.
A pensarci bene, ci sarebbero film più titolati per ottenere tale effetto; un esempio per tutti, "L'esorcista" (William Friedkin, 1973), il cui potere visionario aveva all'epoca portato vere e proprie crisi isteriche negli spettatori particolarmente sensibili; sennonché il make-up un po' splatter della pur bravissima Linda Blair non mi ha mai coinvolto veramente. In effetti, nel corso degli anni successivi mi sono scervellato un bel po' per capire cosa veramente fosse terrificante in questi 15 minuti del terzo episodio della "Trilogia del terrore" realizzati in modo piuttosto artigianale dal regista Dan Curtis. La risposta me la diede una sera sulla spiaggia di Santa Liberata il mio vecchio amico Andrea Bizzi, anch'egli appassionato del genere e di questo film in particolare: "Sono i denti - disse - E' l'aspetto che mette più paura in un teschio, perché li vediamo anche nell'essere umano vivo. I denti sono un tramite con la rappresentazione della morte".
Aveva ragione, naturalmente.
Anni dopo, vedendo "Jurassic park" rimasi colpito come tutti dal grande Rex che, con i suoi denti scintillanti e affilati come lame - non diversamente dalla dentatura di Amelia - divorava le nostre certezze facendosi strada nel buio della nostra anima, quell'angolo oscuro nascosto da una porta senza serratura...
Eravamo nei primi Anni Ottanta. Per una serie di combinazioni, mi ritrovai una sera da solo a casa e mi imbattei, zappando, in un film in tre parti di cui mi ero perso le prime due. Non sapevo quindi il titolo del tutto, ma solo della parte che mi accingevo a vedere: aveva a che fare con un feticcio di un guerriero Zuni che la protagonista, antropologa, oppressa da una madre possessiva, avrebbe regalato al fidanzato. Un avviso su un cartiglio nella scatola in cui la statuetta era contenuta metteva in guardia: attenzione a non togliere la catenina intorno al feticcio, che ne tiene imbrigliata l'anima. E invece, un movimento troppo brusco fa cadere la catenina e il feticcio, afferrato un coltellaccio da cucina, diventa una macchina di morte.
In ciò non ci sarebbe nulla di particolarmente interessante rispetto alle tante "bambole assassine" dei b-movies horror di quegli anni; ciò che invece è inquietante è il finale.
Amelia, la protagonista, butta nel forno il feticcio che prende fuoco urlando disperatamente. Tutto finito? No, perché la poco furba antropologa apre il forno e una vampata - che in sé ha ancora l'eco dell'urlo del feticcio - le avvolge la faccia.
Nella scena successiva Amelia parla al telefono con la madre, invitandola a casa sua; il regista non la inquadra mai di fronte, ma sempre di spalle o di taglio. Al termine della conversazione, la ragazza frantumerà il telefono "appoggiando" la cornetta sulla forcella.
Nella scena finale Amelia aspetta la mamma, acquattata dietro la porta...
Devo a questo finale alcune delle mie prime, vere notti insonni.
A pensarci bene, ci sarebbero film più titolati per ottenere tale effetto; un esempio per tutti, "L'esorcista" (William Friedkin, 1973), il cui potere visionario aveva all'epoca portato vere e proprie crisi isteriche negli spettatori particolarmente sensibili; sennonché il make-up un po' splatter della pur bravissima Linda Blair non mi ha mai coinvolto veramente. In effetti, nel corso degli anni successivi mi sono scervellato un bel po' per capire cosa veramente fosse terrificante in questi 15 minuti del terzo episodio della "Trilogia del terrore" realizzati in modo piuttosto artigianale dal regista Dan Curtis. La risposta me la diede una sera sulla spiaggia di Santa Liberata il mio vecchio amico Andrea Bizzi, anch'egli appassionato del genere e di questo film in particolare: "Sono i denti - disse - E' l'aspetto che mette più paura in un teschio, perché li vediamo anche nell'essere umano vivo. I denti sono un tramite con la rappresentazione della morte".
Aveva ragione, naturalmente.
Anni dopo, vedendo "Jurassic park" rimasi colpito come tutti dal grande Rex che, con i suoi denti scintillanti e affilati come lame - non diversamente dalla dentatura di Amelia - divorava le nostre certezze facendosi strada nel buio della nostra anima, quell'angolo oscuro nascosto da una porta senza serratura...
Ecco una sintesi di "Amelia", il terzo episodio. Purtroppo sul "Tubo" non è disponibile nella sua integrità e su altra fonte manca proprio il finale, la parte sicuramente più spettacolare e geniale:
Un saluto e un ringraziamento doppio al mio amico Pietro, con cui ho condiviso avventure, sogni, studi (umanistici e scientifici) e, pur "a tappe", quel meraviglioso viaggio della vita che è il passaggio dall'età dell'infanzia a quella dell'uomo. Doppio, dicevo, perché, oltre alla lusinghiera "citazione", riporta questo meraviglioso ricordo horror alla sua reale identità, che io, errando, ho da sempre invece attribuito a Dario Argento (ma non escludo del tutto che ci possano essere in giro dei "remakes"....)
RispondiEliminaUn breve commento al volo. Tutto vero ciò che Pietro ricorda sui "denti". C'è da aggiungere che l'orrore "straripa" dal film anche per altre non meno importanti realtà. La prima: nel processo di identificazione proiettiva che tutti facciamo nei confronti del personaggio principale, a noi vicino per molteplici aspetti (fa bene Pietro a ricordare il ruolo "intrusivo" della madre, che spinge la figlia all'incauto acquisto del pupazzo) siamo portati a simpatizzare prima, e a immedesimarci poi, con la protagonista; la trasformaione di quest'ultima, alla fine del film, con il "mostro", ci porta a condividerne irrimediabilmente il destino. Le difese cadono: il mostro, scopriamo, è letteralmente "dentro di noi". Ma c'è un secondo aspetto ancora più inquietante. L'identificazione si completa, appunto, alla fine. Non c'è più tempo per nulla: nessuna elaborazione, nessuna difesa attiva. L'orrore resta "appicccicato" allo spettatore, che nulla può fare se non indirizzarsi, a passi lenti, verso la camera da letto, già sapendo che trascorrerà una (una???) lunga notte insonne....... Andrea Bizzi