domenica 30 maggio 2010

Le perfezioni provvisorie


Guido Guerrieri, il protagonista dei legal thriller del magistrato e senatore di sinistra (e si sente) Gianrico Carofiglio, è un duro. Certo, non un duro come Philip Marlowe o Sam Spade, ma pur sempre un duro e puro, un uomo che fa fatica a scendere a compromessi con la propria vita, figuriamoci con quelle altrui.
Calato meravigliosamente - anzi, perfettamente incastrato - in quella strana città che è Bari, almeno per come la raccontano Carofiglio e i baresi lontani da casa, Guerrieri si trova ad affrontare una strana storia di scomparsa, affrontata dapprima con superficialità e quasi con senso di inadeguatezza, poi via via aggredita con tenacia e caparbietà in un crescendo emotivo sino al dipanarsi della spiegazione, lucida, semplice e insopportabile allo stesso tempo.
Fanno compagnia al complessato Guerrieri due figure femminili: una è Caterina, giovane, sessualmente aggressiva, una tentazione sovrumana per il penalista che cerca di difendersene senza troppa convinzione; l'altra, la più importante, quella che probabilmente rivedremo anche nei prossimi romanzi, è Nadia.
Nadia è una donna intrigante, semplice e nello stesso tempo di una complessità inestricabile, che cerca di convivere senza dimenticare con un passato difficile, e che ha un presente misterioso, fatto di zone di solitudine, di desiderio di una felicità definitiva e non a buon mercato, e di anfratti in cui Guerrieri vorrebbe trovare rifugio, ma non può, non riesce, non osa. Per lo meno, non ancora. Nadia lo prende in giro, gli dice: "Tu non sei normale, lo sai?" - frase che a me personalmente genera più di un brivido - riesce a trovare tutti i punti più vulnerabili di Guerrieri e sembra che li voglia tenere da parte per un'altra occasione, un momento in cui entrambi avranno un luogo in cui stare. Nadia è l'eterno femminino, è la donna totale ed assoluta, è l'uragano che si abbatte sulle nostre certezze precostituite, è l'attimo che ci sembra di poter afferrare e ci sfugge, magari solo per il momento, in attesa di altre occasioni più favorevoli che non necessariamente arriveranno. Nadia è la perfezione provvisoria, e Guerrieri sembra capirlo in uno dei suoi momenti di lucidità.
Fa da contorno, come al solito, la solita Bari pigra e indolente, con il suo mare che così ce l'hanno solo i baresi (ecchepalle), le sue strade, i suoi anfratti, i suoi profumi e i suoi odori, il suo pesce crudo e il suo risopatatecozze, come al solito chiassosamente invadenti e felicemente importuni, in un proliferare di umanità che non riesce a dare al lettore un'idea così pessimistica come forse il suo autore vorrebbe.
Le perfezioni provvisorie è un gran bel libro, un vero legal thriller semplice e diretto, senza le lungaggini di Grisham o di Turow, autore quest'ultimo cui Carofiglio maggiormente si avvicina per l'umanità complessa e dolente dei suoi protagonisti. E' un libro di quelli che ti incatenano alla lettura, che ti disintossicano e ti riconciliano con un un'umanità con cui vorresti sempre avere a che fare e che, forse, non è così impossibile da trovare, senza necessariamente dover andare a Bari.
Mi ricordai di una vacanza in auto attraverso la Francia, tanti anni prima., con Sara e altri amici. Arrivammo a Biarritz, l'atmosfera fuori tempo di quel posto ci piacque e decidemmo di fermarci. Fu lì che presi qualche lezione di surf e dopo infiniti tentativi riuscii a stare tre, quattro secondi in piedi sulla tavola e sull'onda. In quel momento capii perché i surfisti - i veri surfisti - sono così pazzi e perché l'unica cosa che davvero gli importa è salire sull'onda e rimanerci il più a lungo possibile. Il resto si fotta. Non c'è niente di più perfetto di quella provvisorietà (G. Carofiglio, Le perfezioni provvisorie, Sellerio editore Palermo)

sabato 29 maggio 2010

La sit-com è finita

Il termine sit-com probabilmente esisteva già sin dagli Anni Cinquanta, quando ci furono i primi telefilm della serie "Lucy", con Lucille Ball. Li abbiamo visti e ci abbiamo sorriso con parsimonia, perché è indubbio che la vulcanica protagonista appartenesse ad un'altra generazione lontana dalla nostra.
No, direi che il termine sit-com per noi attuali quarantenni o giù di lì sia collegato alla serie di "Arnold", quella che nel 1978 fece timidamente capolino sui nostri schermi col titolo "Harlem contro Manhattan".
Il plot narrativo era semplice e, nello stesso tempo, ricco di potenzialità: un ricco signore che vive in un palazzo di Manhattan con la figlia e una governante, riceve in "eredità" dalla sua ex cameriera morta prematuramente due bambini: Willis e Arnold. Il problema è che i due sono neri e vengono da Harlem: ne nascono siparietti un po' moralistici allorquando la scena viene occupata dal rompiballe Willis (interpretato da Todd Bridges), prototipo dei boveri negri sempre polemici con i bianchi ma ben poco propositivi ed anzi pigri ed indolenti; ed equivoci di grana grossa per tutto il resto del tempo, quando cioè in scena c'è Arnold, che diventa prestissimo il vero protagonista della serie.
Arnold, tartufesco, bugiardo, astuto come una faina ed ingenuo come un pollo, fondamentalmente buono e aperto a tutte le gioie della vita, saggio e in grado di tirar fuori il meglio da ogni situazione, comprensivo con tutti, pasticcione, incapace di malizia, fu "il" personaggio della nostra gioventù, quello che - con un pizzico di buonismo - incarnava tutti i facili ottimismi degli Anni Ottanta. E li incarnava al meglio perché si spogliava di ogni edonismo che lasciava volentieri agli altri - il fratello maggiore Willis, bello e montato; la sorella adottiva Kimberly (interpretata dalla sfortunata Dana Plato, morta precocemente dopo una caduta libera nei b-movies pornografici e nella droga) - e proponeva agli spettatori di ogni età solo il buonumore, l'ottimismo e l'allegria.
E' probabile che questa fosse una visione eccessivamente semplicistica, ma ci siamo divertiti tanto con queste sciocche storielle che ci hanno accompagnato per un decennio e che ci hanno aperto un mondo - quello delle sit-com, appunto - fatto di riprese fisse, quasi teatrali, in ambienti chiusi, happy end e risate finte. Da allora ne conoscemmo tantissime altre, molte delle quali nate quasi per partenogenesi come spin-off da altre serie, ma Arnold per noi ne fu l'archetipo prototipo.
Ieri Arnold ci ha lasciati, a soli 42 anni, dopo una vita non facile a causa di una malattia che gli aveva regalato quella bassa statura e quelle fattezze da eterno bambino che furono per un po' - troppo poco - la sua fortuna, e poi la sua condanna. In fondo la notizia non ci ha sorpresi più di tanto: un po' ce l'aspettavamo; e tuttavia non possiamo non avvertire un fremito di dolore nel vedere che un altro frammento della nostra giovinezza se n'è andato. Il piccolo Arnold, con le sue smorfie, le sue faccette, le sue ingenuità e le sue scaltrezze ha incarnato il meglio di un periodo che oggi ricordiamo per lo più vuoto di contenuti, ma che ci ha portato un nuovo genere - quello delle sit-com, appunto - che oggi, di fronte al vuoto pneumatico dei reality più falsi delle finzioni di quei telefilm ingenui e semplicistici, siamo costretti a rimpiangere amaramente

sabato 22 maggio 2010

Comunque vada


Sono le 20.19: compongo volutamente questo articolo prima che abbia inizio la grande festa.
Non sono interista, come ormai ben sanno i lettori di questo blog: quindi NON tiferò Inter, me ne fregherò abbondantemente della prospettiva di migliorare il ranking europeo italiano e, da buon rosicone, pregherò la dea Eupalla che sia favorevole ai bavaresi, che già mi regalarono anni fa una delle mie più belle soddisfazioni calcistiche quando, a San Siro, ribaltarono un risultato sfavorevole qualificandosi ai danni degli odiati nerazzurri.
Credo ragionevolmente che vinceranno gli interisti; non li chiamo cugini per spocchia, perché per me sono e saranno sempre i bifolchi arricchiti che si ritrovano nel salotto buono senza averne il rango, ma sono oggettivamente forti e molto carichi e meriteranno il punteggio che faranno.
Hanno usufruito di tutta la carica che è riuscito ad infondere loro un tecnico dotato di discreta sagacia tattica (non un fenomeno: Arrigo Sacchi, Fabio Capello e lo stesso Carlo Ancelotti quanto a questo specifico aspetto gli sono nettamente superiori), di ottima padronanza dello spogliatoio e di eccezionale bravura nel maneggiare gli umori dell'opinione pubblica a proprio uso e consumo. Una volta si chiamava vittimismo o, come si dice a Milano, fare i piangina; adesso tutti pendono dalle labbra di Mourinho come se avesse inventato lui le tattiche della comunicazione.
Comunque vada, chapeau a chi ha portato l'Inter a questo prestigioso traguardo che gli interisti non vedevano da circa 40 anni.
Come milanista vero, per quanto mi riguarda guferò.
Lo farò perché sono invidioso.
Lo farò perché l'Inter per me NON è la squadra italiana da tifare sempre e comunque, concetto che comunque non ho mai applicato nemmeno alla Juventus.
Lo farò perché trovo ignobile vedere gli odiati colori nerazzurri combattere in una finale di Champions, che è sempre stato il nostro salotto, e che essi hanno vergognosamente usurpato.
Lo farò sperando che i cari, vecchi casciavìt che m'hanno regalato intense soddisfazioni ai tempi di Vampeta, Ciriaco Sforza e Avioncito Rambert abbiano un sussulto di indegnità e se la facciano sotto di fronte a cotanto obbiettivo che, a regola, se il mondo fosse giusto, non dovrebbe MAI appartenere loro.
Ma il mondo ha smesso di essere giusto da tanto, troppo tempo, per cui mi rassegno in anticipo e alzo mestamente un calice di Tavernello che dedico, in un triste brindisi, al mio amico Stefano Barbetta, losco interista, che avrei voluto fosse a Madrid stasera.
Congratulazioni in anticipo e un sentito vaffanculo a te e a tutti gli interisti...

sabato 8 maggio 2010

Stati di necessità


Questo è il centesimo post di questo blog, ed è un traguardo importante per me.
Lo voglio dedicare al Pronto Soccorso del nostro Istituto, quello in cui si svolge una quota non banale della nostra attività. E' un posto difficile, altamente formativo, ricco di umanità e di senso della condivisione.
E' un posto che amo immensamente, perché anch'io - nel mio piccolo - ho contribuito a farne quello che è adesso: una piccola e ben collaudata macchina da guerra, pur se non sempre gioiosa.

Sono su a lavorare al pc della mia scrivania, ascoltando "Allegro" di Rodgers e Hammerstein - sono amante dei musicals americani - quando il cicalino inizia a trillare. Non è il mio personale: è quello del capoturno di chirurgia d'urgenza, che mi tocca sempre il giovedì e, qualche volta, di notte o festivo. Guardo il numero della chiamata: è l'8300, il triage. Rogne in vista, lo so. Sospiro e compongo il numero; è Grazia che mi dice le famose 3 parole che temo sempre tanto: "E' il 118".
Ora, da noi le cose funzionano in modo un po' diverso rispetto all'America immortalata da "ER" e altri prodotti analoghi. Da noi il 118 chiama prima, si informa sulle tue risorse, ti spiega la situazione e ti invia il paziente. Le mie risorse sono disponibili, per cui chiamo a mia volta la Centrale e inizio a farmi spiegare di cosa si tratta; mi risponde l'operatore:
"Motociclista contro macchina...".
Alè, penso: è tornata la primavera e i motociclisti escono dalle loro tane.
"Sbalzato di 6 metri, piombato sul fianco sinistro..."
Quindi fratture costali, magari anche pneumotorace. Rischio milza.
"Emodinamicamente instabile. Frequenza 130, pressione 90/60, non risponde al bolo..."
Questo vuol dire che quasi sicuramente ha un'emorragia, che gli hanno già dato due litri di liquidi e non è migliorato. A meno che non abbia un pneumotorace iperteso.
"Ha un pneumotorace. Gli hanno messo un ago".
Ecco. Appunto. D'altra parte se gli hanno messo un ago, non sarà iperteso spero!...
"Ha l'addome a tavola"
Di bene in meglio!
"Il casco si è spaccato. E' incosciente, Glasgow 7, lo stanno intubando"
Fantastico! Mi aspettano ore di lavoro!
Ci mettiamo d'accorso per le modalità d'arrivo e saluto.

Scendo in PS. Come sempre in questi casi, forse anche per un rito scaramantico, passo dalla radiologia per entrare in sala rossa, dove ci sono già Giorgio e Meg, che stanno preparando l'ambiente per tutte le necessità che si manifesteranno. Il protocollo vorrebbe che facessimo il check-in prima dell'arrivo del trauma, in pratica non serve, mi basta un'occhiata rapida per abbracciare tutto quello che mi occorre e sapere che c'è già: portiamo avanti una tradizione di diversi anni che ci deriva dagli insegnamenti di Mauro Zago, non abbiamo bisogno di tante chiacchiere. Il mio sguardo sfiora appena la cassetta metallica del set da toracotomia; spero sempre di non averne mai bisogno, ma non si sa mai. Una rapida occhiata d'intesa con Giorgio: con lui è diverso, non c'è solo stima reciproca, c'è anche amicizia e confidenza. Come al solito non ho su il camice; allungo la mano nell'armadietto di metallo sopra il lavandino e mi prendo un grembiule di plastica azzurro, di quelli che fanno tanto macellaio o pescivendolo, e che induce il buon vecchio Rino a guardarmi ridendo e chiedermi di affettargli un due etti di cotto.
Rido a mia volta e vado oltre. Entro in area OBI e trovo Stefano che mi considera con ironia e divertimento, sfoderando un sorriso luciferino che tanto mi ricorda il mio vecchio amico Roberto Brambilla (me lo ricorda anche per le generose dimensioni fisiche) e mi dice: "Ah, benvenuto il signorino! Qual buon vento ti porta in questo posto di lavoro invece di star su nei tuoi appartamenti a grattarti le palle?"
"Vento di trauma - lo informo - E' primavera e inizia la stagione di moto e bici"
"Com'è?".
Alzo le spalle:
"Pare brutto. Magari hanno esagerato, vediamo".
Mi faccio portare in sala rossa l'ecografo per la FAST, l'ecografia che mi permetterà di capire subito se dovrò correre in sala operatoria, e mi siedo sulla scaletta metallica, la mia posizione preferita aspettando un trauma. E' il momento dell'attesa, quello della paura dell'evento: non mi abbandona ancora, nonostante ormai siano anni che gestisco questi eventi drammatici, nonostante sia circondato da una squadra di persone meravigliose e pronte a tutto, nonostante l'esperienza ormai abbia creato una specie di algoritmo che entra automaticamente in azione nella mia testa in questi eventi. E' la filosofia ATLS (Advanced Trauma Life Support), quella che ho imparato grazie a Mauro che me l'ha insegnata, quella che ha formato migliaia di medici che, come me, lavorano anche su questi pazienti. Semplifica tantissimo la vita e, in queste situazioni, il controllo della vita che sfugge passa anche e soprattutto attraverso la semplificazione.
E' il momento dell'attesa, che esorcizziamo con battute di spirito, ma c'è il rumore di fondo che disturba, ed è la voce della tua coscienza che ti dice sempre: "Non sei pronto, non ce la puoi fare", e invece sai che sì, ce la farai, perché questo non è un numero solistico, è un lavoro di squadra, e tante persone ti vogliono bene e faranno di tutto per lavorare bene insieme a te, e tu farai lo stesso con loro, perché vuoi bene a loro e avrete fra le mani il paziente più grave che si possa immaginare. Giorgio mi guarda, strizza l'occhio e prova a scherzare ostentando tranquillità, ma è teso come una fionda anche lui; so come vive questi momenti, sembra una mangusta che gira intorno a un cobra. Meg invece lavora serenamente come sempre, con un sorriso quasi timido: è una persona estremamente rassicurante, mi piace molto.
Aspetto che scendano gli anestesisti: sappiamo che il paziente è intubato, quindi la gestione delle vie aeree prevede già di default la loro presenza. Mi domando chi scenderà, non ho parlato io direttamente con loro. Mi andrà bene chiunque, sono tutti bravissimi, ma so che con qualcuno di essi c'è - come con Giorgio - un rapporto che va oltre la stima reciproca: è quella magica combinazione di ammirazione per le doti professionali, di rapida intesa anche solo con uno sguardo, di comprensione e di affetto che trasforma un rapporto di lavoro in qualcosa che va molto oltre.
Il bing-bong dell'altoparlante precede la voce di Grazia che annuncia l'ingresso del paziente traumatizzato accompagnato dal personale del 118 in sala rossa: mi alzo dalla scaletta, indosso i guanti, mi picchio lievemente il pugno destro nel palmo della mano destra. Entrano in sala rossa gli anestesisti.
Si apre lo scorrevole ed entra il protagonista del dramma.
Si parte.