Metto anche sul blog il commento che ho fatto sul mio sito al Rigoletto interpretato da Domingo. Per i non addetti ai lavori: Domingo è tenore, Rigoletto è la parte più carismatica mai composta per voce di baritono.
Perché l'ha fatto?
Perché ne aveva voglia.
Perché ha guadagnato un pozzo di soldi.
Perché a oltre settant'anni cerca ogni mezzo per non scendere dal palcoscenico.
Quale che sia la ragione, mi sembra che questa vicenda sia un po' un paradigma di tante fragilità dell'essere umano che spesso ho cercato di approfondire in questo blog.
Spero di farvi piacere partecipandovi queste righe.
Avrete visto che il nostro forum si tiene accuratamente alla larga dall’Evento.
Molti ne parlano, su blog, siti e forum, ma noi di Operadisc non l’abbiamo ancora fatto. Ieri sera ho lanciato via sms un tentativo di “tavola rotonda” con i moderatori del forum, ma dei due ha abboccato il solo Maugham che si è lanciato in considerazioni piuttosto interessanti sulla somiglianza fra la sua maestra elementare e Ruggero Raimondi, che ha devastato l’esigua parte di Sparafucile. Ci siamo trovati d’accordo su Grigolo, intimidito e pigolante sulla terribile progressione di “D’invidia agli uomoni sarò per te”, ma interessante per il resto. Ci siamo trovati meno d’accordo sulla Novikova, per me molto intrigante, per lui un po’ pigolante.
E Domingo?
Non è di lui che dovremmo parlare?
Non è per lui che stiamo scrivendo queste righe?
Certo che sì. E, a scanso di equivoci, premetto che parlo pro domo mea, giacché i miei soci di Operadisc probabilmente dissentiranno.
Allora, tanto per mettere le cose in chiaro: io ammetto la liceità dell’esperimento, poiché di questo si tratta. Domingo ha già precedentemente affrontato due parti per baritono: Figaro, nella seconda registrazione di Abbado del Barbiere di Siviglia; e Simon Boccanegra, che ha portato in teatro, l’ultima volta a Milano poche settimane dopo essere stato operato di un cancro del colon.
Canta con voce da tenore o da baritono? Né l’una né l’altra cosa: canta da Domingo, come se essere Domingo sia il passaporto per concedersi qualunque licenza. E sapete che c’è? Ha ragione lui.
L’ho seguito attentamente nei primi due atti. Al di là delle sputacchiate, dettate dalla fatica della parte probabilmente più onerosa e carismatica per un baritono; al di là dell’aspetto senescente che ci racconta tutte le sue settanta e passa primavere; al di là del fatto che – senza nemmeno pensarci troppo – potremmo pensare ad almeno una decina di baritoni che cantano la parte con proprietà e gusto, e che talvolta lo fanno in modo persino indimenticabile; al di là di tutto questo, io ho avuto l’impressione che ci credesse davvero.
Ora io non so se questo sia un portato del solito Domingo che da sempre a tutti l’impressione che lui ci creda: è la solita questione del colloquio individuale che il grande artista ha da sempre con ogni spettatore. È lì la sua forza, prima ancora che nel sessappiglio che riguarda soprattutto il pubblico femminile, da sempre incondizionatamente dalla sua parte. Non so se sia un portato del solito Domingo, ma l’idea che mi sono fatto è che lui ci credesse. A modo suo, certamente, quindi sempre con un pizzico di ironia a stemperare la drammaticità posticcia, come ad avvertire amichevolmente il pubblico che, alla fine, lui sarà sul palcoscenico con tutti gli altri attori del dramma a ritirare gli applausi; a modo suo, a ricordarci che lui è pur sempre quel Plàcido Domingo che da quasi una cinquantina d’anni li tiene tutti per mano, accompagnandoli nel percorso della conoscenza di questi drammoni che, prima di lui (e talvolta anche dopo) ci venivano raccontati da artisti dall’ego ipertrofico, che hanno trovato nel canto lirico un modo per sfogare il super-io. Lui no. Lui ammicca, sorride, ci prende per mano, ci racconta le storie di Cammarano e di Piave, di Ghislanzoni e di Boito, adornate dalle indimenticabili musiche di Verdi, e ce le racconta da Domingo, con tenerezza, affabilità e sorriso.
Non a tutti piace. Molti si arrabbiano di fronte all’atteggiamento sorridente di questo eterno fanciullo, di questo Peter Pan che non ha saputo crescere e che si diverte a trasformare in uomini – e talvolta in sempliciotti – i suoi eroi. Ma cavolo: sono o non sono dei poveri coglioni, questi personaggi del teatro d’opera? Penso a Otello, per esempio: non c’è purista che ami la sua personificazione, spesso a disagio con il terribile secondo atto, spesso troppo umanizzato. Eppure devo proprio al suo Otello, nel 1986 alla Scala, una delle esperienze più sconvolgenti della mia vita da spettatore di teatro d’opera quando, nel “Dio mi potevi scagliar” mi aveva messo di fronte all’umanità dolente ed avvilita di un eroe che si scopre uomo fragile. Erano gli anni in cui mi innamoravo di tutto, e le musiche di De Andrè mi facevano compagnia, e questo Domingo era l’amico fragile cantato dal grande artista di via del Campo. Solo dopo avrei scoperto che la sua vera forza è sempre stata quella di non prendersi mai troppo sul serio in un mondo dominato da regole ossessive e compulsive, quelle che vorrebbero far cantare tutti alla stessa maniera.
Ecco perché ho amato il suo Simone che ho visto e ascoltato alla Scala, pensando per di più che il vecchio istrione lo interpretava poche settimane dopo un intervento chirurgico per un cancro; e questo, a un medico non può non fare un certo effetto. Non mi aspettavo l’interpretazione che mi rivelasse chissà quali anfratti di un personaggio che avevo imparato a rispettare – non ad amare: non amerò mai Simon Boccanegra – in bocca ad altri interpreti di ben altra portata. Partendo da questi presupposti, non sono rimasto deluso e anzi ho apprezzato il volume vocale ancora rispettabile che non si vergognava degli strafalcioni testuali.
Parimenti, non mi sono aspettato dal suo Rigoletto l’interpretazione travolgente, quella che mi cambia le carte in tavola del ruolo più affascinante, intrigante, doloroso e complesso mai composto per voce di baritono. Mi aspettavo che Domingo ci mettesse la sua età avanzata, il rinnovarsi del suo testamento d’artista che già avevo ascoltato nella registrazione di “Tristano”, la sua capacità di affabulatore, il suo “essere Domingo”: e non sono rimasto deluso. Certo, è stato assecondato da un direttore che l’ha seguito amorevolmente con tempi larghi e comodi; ha sbagliato qualche cosa nel testo; ha sputacchiato un po’ in giro; ha lottato come un leone contro agli acuti (ma è tutta la vita che lo fa); è sempre stato più Domingo che altro. Ma lo ha fatto.
L’ha fatto per dimostrare al mondo che ancora oggi, alla sua età, può essere tutto quello che vuole?
L’ha fatto per dimostrarlo a se stesso?
O l’ha fatto semplicemente per raccontarci un’altra storia, una delle tante?
Non lo so e, in fondo, poco m’importa.
Questo non è un Rigoletto che mi porterò nell’isola deserta quando e se mai ci finirò.
Questa è solo una delle tante maschere di Plàcido Domingo, eterno bambino del palcoscenico
L'ha fatto solo per soldi (niente di male). Peccato che fosse totalmente inespressivo, Pietro. Trovare un minimo di senso espressivo (non parlo della vocalità chè più di questo non ci si poteva aspettare)è stato, per me, impossibile. Forse non aveva studiato la parte ;)
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