Bari è un'idea come un'altra.
Per i baresi - soprattutto quelli lontani - è quella cosa che "...se Parigi avesse lu mare", ma che noi milanesi viaggiatori non arriviamo a capire..
Bari è l'hotel quattrostelle, con le finestre che guardano su un orrido casermone stile Gratosoglio e le coperte cammello stile militare, che sembrano prese dalla mia vecchia "Cesare Battisti" a Trento.
Bari è via Sparano, la risposta pugliese a via Montenapoleone: affollata, caotica, rilucente di mille vetrine ma singolarmente senza odori.
Bari è il lungomare Nazario Sauro, quello che costeggia il castello e arriva al Porto, illuminato da mille lampioni e dominato dal tanfo angosciante di alghe portate dalla risacca sui lastroni di porfido che arginano il lungomare e lasciate a imputridire in attesa della prossima mareggiata. E' il puzzo dell'Adriatico, dolciastro e greve, così diverso da quello serio e virile del Mar Ligure che si respira nei caruggi di Genova.
Bari è la ricerca spasmodica e infruttuosa di un ristorante aperto la domenica, perché anche se il barese emigrato che vuole consigliarti non lo ammetterà mai, sono tutti chiusi: anche L'Osteria del Gambero e persino Ai due ghiottoni, che ben ne dicesse il proprietario del negozio dove ho dovuto comprare l'ombrello per ripararmi dall'unica pioggia caduta quest'anno, che mi ha seguito dal nebbioso nord a bordo della fantozziana nuvoletta del medico congressista in trasferta.
Bari è Barivecchia, che accetta sorridendo il milanese in trasferta, presentandogli la Cattedrale di San Nicola rigorosamente chiusa e i bassi che ricordano Napoli aperti come ferite - di più: come vulve deflorate da un ignoto stupratore, ma calde e accoglienti perché hanno fatto di necessità virtù. E dai bassi fuoriescono odore di Aiax e donne che sembrano essersi messe d'accordo per pulire tutta la loia che si accumula nel resto della settimana, e rovesciano nei tombini i secchi pieni di acqua sporca.
Bari è quel dialetto così incomprensibile, che non sembra affatto quello di tutte "e" al posto delle "a" di cui abbiamo imparato a sorridere ascoltandolo da Lino Banfi.
Bari è il caffè caldo e strettissimo, servito con regolare bicchiere d'acqua come succede sempre da Roma in giù, e che mi fanno pagare 70 centesimi come a Milano non succede più da... da quando? Da quando ci siamo abituati all'idea che un caffè trangugiato in fretta valga 1 euro intero? Qui ti danno il bicchiere d'acqua quasi a invogliarti a fermarti un attimo in più, a riposare il corpo oltre che la mente, a scansare per un istante in più tutto quello che hai da fare e che, se fossi a Milano, non potrebbe aspettare.
Bari è il sorriso dei due vecchietti cui ho chiesto un'informazione, che hanno guardato incuriositi ma affabili il polentone in trasferta, prima di suggerirmi la strada del Lungomare invece che quella che passa attraverso la Città vecchia, "...che è più breve ma tanto più difficile", e io che già avevo visto la carnalità dei bassi aperti sulle strade strette ho capito quello da cui cercavano di proteggermi, forse perché convinti che non lo potessi capire.
Bari è la strada infinita sotto le mie suole, alla ricerca della comprensione del mistero che portano sempre seco tutte le città di mare: quel senso di sospensione che deriva dalla commistione fra terra e mare, da un confine molto labile che molto spesso non c'è. E' la stessa sensazione che si prova a Genova, Savona, Venezia, Ancona, Livorno, Messina e tutte le altre città che ho visto e che traggono la loro vita dal mare e che col mare respirano, spesso, un vento greve, pesante, salmastro, caldo anche d'inverno.
E tu cammini pensieroso, triste e solo sotto la pioggia, pensando che non ce la farai, che vuoi di nuovo sentirti a casa con la tua vecchia nebbia: pericolosa, spessa, fredda, umida e talvolta impenetrabile, ma che è casa tua.
E pensi di aver visto tutto, ma improvvisamente ecco che ti si materializzano davanti le vetrine di Magda, il famoso panificio di Bari, quello che - in quel momento, alle 19.30 di domenica sera - ti sembra improvvisamente il centro pulsante della vita di questa strana città. E vedi i ragazzi che fanno ressa dentro e fuori, e capisci che quella, a Bari, è casa meglio e più dello Zucca in Galleria del Corso a Milano.
Entro, vado alla cassa e chiedo una porzione della specialità della casa: la famosa focaccia barese. Vado al bancone dove una signora corpulenta, una autentica fausse blonde mi chiede con malagrazia cosa voglio. Le porgo timidamente lo scontrino e lei in cambio prende le forbici, taglia mezza ruota, la avvolge in due fogli di carta spessa e bianca e me la porge. Una signora accanto a me la vede e batte le mani estasiata: "Che bella, è tutta bruciata come deve essere!".
Esco sotto la pioggia e assaggio la mia mezza.
I denti si scontrano inizialmente con la consistenza calda e croccante del bordo. Poi trovano il soffice saporoso dei pomodorini che si frangono sprizzando il loro sugo caldo, che cerca di debordare al di fuori dell'angusto spazio della bocca. E infine trovano la parte più morbida della pasta, quella intrisa di generoso olio di oliva pugliese, che ti scende giù per il mento senza che ti venga voglia di asciugarti, a perfezionare una sinfonia di sapori che non avresti creduto di poter provare tutti insieme con questa intensità. E quando credi di aver provato tutto, arriva alla fine l'aspra oliva che scoppia in bocca mille scintille di indescrivibile bontà.
Ecco: dopo aver tanto peregrinato, dopo aver pensato tutto il male possibile, dopo aver persino rimpianto la mia nebbia, finalmente Bari mi ha lasciato scoprire la sua anima in un trancio di pasta di pane bruciacchiata con olio di oliva, pomodorini e olive.
Perché non ho ancora imparato a capire che la vita va gustata lentamente, con la saggezza dell'attesa?
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