La notizia che il concorso per un numero non specificato di posti di lavoro per il PS dell'Ospedale di Parma è andato deserto, deve fare riflettere profondamente.
Iniziamo dalla prima riflessione: il concorso era per incarichi a tempo determinato. Adesso vanno molto di moda, ai miei tempi - cioè, quando io ero un giovane medico - no. A tempo determinato vuol dire che hai un contratto di collaborazione continuativa, non sei "fisso": e non sono più i tempi in cui puoi proporre un lavoro difficile e senza tutela per le proverbiali quattro pelli di peperone e senza sicurezza del posto di lavoro.
Ai miei tempi, il Pronto Soccorso era la prima destinazione per un aspirante medico ospedaliero; oggi, la situazione è molto diversa e i medici - sempre meno - possono scegliere se, come e dove fare il Pronto Soccorso. La scelta è abbondante, e un giovane può permettersi il lusso - se ha voglia di dedicarsi all'urgenza - di scegliere ciò che vuole e di rifiutare contratti a tempo determinato. La situazione di Parma non è unica, in Italia: anche a Milano, in grossi ospedali, i contratti a tempo determinato non vengono nemmeno presi in considerazione. Se faccio un lavoro impegnativo, voglio il posto fisso: c'è di che far luccicare gli occhi a tutti gli emuli di Checco Zalone.
Quindi, se si vuole occupare uno slot vacante - e ce ne saranno sempre di più - il contratto a tempo determinato NON è una buona scelta.
Seconda riflessione: il numero dei medici.
I medici sono sempre meno.
A questo risultato poco ambibile concorrono alcuni elementi fondamentali, il primo dei quali è l'accesso alle Facoltà di Medicina che è vincolato da un demenziale concorso nazionale ed è a numero chiuso, chiusissimo. Oddìo, sembrerebbe che quest'anno il MIUR abbia aumentato la disponibilità di 900 posti, ma è un provvedimento palliativo: i progetti di professionisti cui apre oggi le braccia l'Alma Universitas diventeranno disponibili fra oltre 11 anni, dopo cioè Laurea e indispensabile specializzazione, ammesso che il neolaureato sia riuscito ad accedervi in tempo reale. Il che è praticamente impossibile.
Il numero chiuso in Medicina è stato introdotto in un momento storico in cui esso era del tutto inutile. Quelli della mia generazione non ne hanno avuto bisogno: ci sono stati i professori che hanno provveduto a selezionare i più attrezzati. Nel 1984 a Milano ci siamo immatricolati in circa 1200, divisi in 12 linee didattiche ognuna da circa 100 studenti. Della mia linea didattica ci siamo laureati in corso in circa sei. Ripeto: sei.
Quelli della mia generazione ricordano sicuramente nomi terribili di autentici killer seriali: Molho,Galli Kienle, Tredici, Ventura, Petruccioli, D'Angelo, Mancia, Mocarelli, lo stesso Rugarli e tanti, tantissimi altri. Quasi tutti noi siamo stati bocciati in lungo e in largo da questi professori. Qualcuno di noi ha mollato strada facendo per la difficoltà di rimanere attaccati a un carro che procedeva inesorabile senza aspettare nessuno. Ma quelli di noi che sono diventati medici non hanno sofferto per pretese ingiustizie: sapevamo che erano belve assetate di sangue, ci siamo difesi.
Sarebbe proprio così sbagliato tornare a un sistema del genere? Nessun feedback dello studente e massima libertà al professore di triturare chi non sa.
Oltre a tutto, chiunque avrebbe la possibilità di provarci, e questo sarebbe assolutamente democratico.
E, particolare non trascurabile: molti di più pagherebbero le tasse scolastiche.
Terza riflessione: la follia forcaiola.
Nel mio precedente ospedale sono stato - fra le altre cose - anche tutor universitario. Nessuno - dico: nessuno - vuol fare professioni maggiormente a rischio di contenzioso, a cominciare quindi dalla chirurgia e da tutto ciò che ha a che fare con l'urgenza.
Nel mio libro "Reato di cura" ho cercato di analizzare il problema partendo dalle colpe dei medici che poco o nulla hanno fatto per arginare questa demenziale deriva giustizialista e ho offerto la mia disponibilità per ragionare su come uscire da questa impasse, ma - al di là di una generica solidarietà - non ho trovato risposte.
L'Italia è uno dei tre (!) paesi al mondo assieme a Polonia (!) e Messico (!) a collocare la colpa medica in ambito penale.
Le consulenze tecniche sono affidate a persone che non hanno poche o nulle competenze in ciò che vanno a giudicare.
Gli avvocati stimolano i pazienti a tentare la strada del risarcimento con compensi da stabilire alla fine (il teoricamente vietatissimo patto di quota lite).
A ciò si aggiungano giornalisti che soffiano sul fuoco spacciando notizie di scarso rilievo in cui però è insito già il giudizio definitivo, che non fa altro che peggiorare il rapporto fra medici e pazienti.
Siamo sinceri: chi mai vorrà impegolarsi in professioni a rischio, per di più con coperture assicurative limitate e costosissime?
Quarta riflessione: mancanza di progettualità.
Si vive alla giornata.
I nuovi medici non arrivano a rimpiazzare quelli che vanno in pensione.
Non c'è un piano di formazione con adeguata tutorializzazione.
La didattica sul campo è vissuta come un fastidio perché è un lavoro (importante) supplementare che viene espletato isorisorse, anzi, con risorse sempre più limitate.
Ci sarebbero molte altre riflessioni da fare, ma mi fermerei a queste.
Sarà bene che ognuno pensi a dove ci troviamo e dove stiamo andando.
Ci troviamo in un baratro nel quale, peraltro, ci siamo cacciati come collettività con le nostre stesse mani al solo scopo di lucrare un misero, transitorio guadagno: quello di un malcalcolato risparmio sul numero di accessi all'Università, messo in campo quando non era più necessario; e quello dei risarcimenti sulle colpe mediche.
Stiamo andando verso il nulla, perché nessuno ha voglia di far qualcosa di propositivo, anche se impopolare, per recuperare il terreno perduto.
I medici saranno sempre meno, non solo in ambito di urgenza.
Se qualcuno vuol fare qualcosa, sarà meglio che batta un colpo in fretta.
Io ci sono, come già avevo scritto in passato.
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