sabato 31 dicembre 2011
Don Luigi
Poteva essere il giorno giusto per fare gli auguri di fine anno e di buon inizio anno nuovo, ma oggi c'è una notizia che cambia tutto: la morte di don Luigi Verzé.
Intendiamoci: non è morto un santo. Nessuno, credo, nemmeno fra i suoi più stretti collaboratori, avvierà cause di beatificazione o processi di canonizzazione. Ma francamente non riesco nemmeno a condividere né a capire tutto l'odio che sembra scatenarsi sulla rete contro un mersonaggio controverso finché si vuole, ma anche artefice di una delle imprese più importanti della storia della sanità italiana.
Ho avuto il privilegio di studiare all'Ospedale San Raffaele alla fine degli Anni Ottanta. All'epoca non esisteva ancora l'Università Vita Salute - uno dei tanti monumenti allo straordinario egocentrismo di un uomo così controverso - per cui io vivevo nel grembo dell'Alma Universitas Mediolanensis. Adesso può sembrare strano a uno studente di Medicina abituato all'insegnameno tutorializzato, ma all'epoca lo studente di medicina era una specie di corpo estraneo, tanto più nell'ambito di un reparto ospedaliero. Ricordo molto bene che quando si trattò di fare il tirocinio obbligatorio pre-laurea in un ospedale pubblico, fu chiesto a me e ai miei amici di non andare a "disturbare" la routine del reparto Il medico si poteva tranquillamente laureare prescindendo da una formazione pratica ospedaliera.
Al San Raffaele le cose erano diverse: fu il primo esempio di insegnamento tutorializzato, quello che adesso è la regola.
I miei professori erano straordinari: si poteva scegliere fra il rigore apollineo di Claudio Rugarli e la scapigliata genialità di Jacopo Meldolesi.
L'ospedale poi era una macchina da guerra: c'erano tutte le tecnologie più fantascientifiche e gli uomini straordinari che sapevano farle funzionare. Noi studenti eravamo orgogliosi di far parte di quel gruppo: non ci sentivamo predestinati a chissà cosa, questo no (per lo meno la parte di noi abituata dalle vicende della vita quotidiana a stare con i piedi per terra senza fare voli pindarici), ma ci sentivamo parte di un grande gruppo. I "baroni" c'erano, come no, ma avevamo la sensazione che lo fossero per meriti reali, non per le solite menate politiche.
Certo, non era tutto oro: la megalomania del Presidente era qualcosa che ognuno di noi aveva imparato a conoscere: fontane, statue, cappelle con ritratti di angeli in cui non era difficile riconoscere le fattezze del Fondatore, messaggi di fine anno in cui Don Luigi ricordava ai dipendenti il messaggio che egli e Gesù affidavano ai medici: andate e guarite. E poi anche a noi studenti arrivavano strane notizie su stipendi a rischio, ma all'epoca sembravano problemi tanto lontani dalle nostre prospettive; e poi la verità è che nessuno se ne andava, nemmeno se se ne manifestava l'opportunità.
Dopo la laurea ci fu per me il servizio militare, poi le mie strade si separarono da quel grande ospedalone: scelsi altre vie, che mi hanno portato dove sono adesso. Ci sono state esperienze belle come quella della prima parte della mia permanenza all'Ospedale di XY, dove un gruppo di medici giovani e motivati cercò di creare un ambiente meraviglioso di lavoro e quasi ci riuscì; o esperienze fallimentari, come quella - sempre a XY - con l'altro reparto guidato da un triste figuro che riassume in sé tutto il peggio dell'arroganza del piccolo guappo di periferia, in realtà incapace di pensare con il proprio cervello e sempre bisognoso del pretoriano di turno che gli dicesse cosa doveva pensare.
Ma nonostante tutto, ho sempre tenuto un cordone ombelicale con il mio vecchio ospedale e ne seguivo sempre con apprensione le notizie.
Sapevo delle mire espansionistiche. Castellanza, per esempio, dapprima ospedale, poi riciclato come centro per la sperimentazione UROD (per chi non lo ricordasse: consisteva nella somministrazione di anestetici a alti dosaggi per liberare dalla dipendenza da eroina. Dopo qualche risultato incoraggiante, il progetto fu abbandonato); oppure Roma, altra prova controversa; e poi ancora altri Centri che - agli occhi di un osservatore - sembravano un inno alla vanità del Fondatore.
Se ne dicevano di tutti i colori: spretato, ma celebrava messa; era amico di Craxi, Gava e Berlusconi e questo gli aveva permesso di deviare il traffico aereo dai cieli sopra l'ospedale; che era un politico a sua volta; che aveva raccontato a Paolo VI di aver sognato l'arcangelo Raffaele che gli aveva detto di fondare un ospedale, e quindi Papa Montini gli aveva dato i soldi necessari per creare la Fondazione; che voleva avere l'ultima parola su tutto e controllare ogni cosa.
Si diceva veramente di tutto e di più.
E, alla fine, così passa la gloria del mondo.
Leggo oggi su Facebook commenti carichi di odio e di veleno. "Peccato che non credo al paradiso - dice uno - perché almeno ci sarebbe anche l'inferno in cui far bruciare Don Verzé".
E' vero: non è stato uno stinco di santo. Ambiguo, controverso, megalomane, forse sprovveduto o forse solo mal consigliato. Ci sta tutto e il contrario di tutto
Ma non vorrei sembrare retorico affermando che il San Raffaele è una creatura meravigliosa che, da sola, assolverà tutte le colpe di un piccolo megalomane.
La terra gli sia lieve
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